sabato 12 novembre 2005

«Ma quale rock... Adriano Celentano è proprio lento. E quelle pause, quei lunghi silenzi che caratterizzano i suoi programmi sono dovuti al fatto che lui legge il ”gobbo” o aspetta che dall’auricolare gli dicano che cosa dire e che cosa fare. La verità è che lui è un gran furbo, che ha saputo sempre circondarsi di gente valida. Salvo usarli ben bene, e poi passare al prossimo...».
L’attacco a Celentano - grande protagonista di questa stagione televisiva con «Rockpolitik», concluso l’altra sera - arriva da uno che lo conosce bene: il triestino Lorenzo Pilat, che con il Molleggiato ha diviso negli anni Sessanta l’avventura del «Clan di Celentano» (all’epoca si faceva chiamare Pilade), prima di diventare fra la fine degli anni Sessanta e la metà dei Settanta un autore di grande successo. Da solo e soprattutto come socio della premiata ditta «Pace Panzeri Pilat» ha firmato tanti successi della canzone italiana. Uno dei quali, tradotto e ripreso da Tom Jones, ha sfondato anche negli Stati Uniti.
Pilat, ma perchè ce l’ha con Celentano?
«Io non ce l’ho con lui. Anzi. Mi legano a lui tanti bellissimi ricordi. Dico solo che non sa cantare, è stonato, ma ha una grande personalità. È furbo. Si circonda di gente in gamba...».
Da quanto non lo sente?
«Saranno ormai dieci anni. Ero a casa di sua sorella. Me l’ha passato al telefono. Mi ha chiesto: ”uè, come va?”. Gli ho risposto che faccio ancora tante serate e poi per scherzare gli ho chiesto ”allora, quand’è che mi lanci...?”».
Lui non l’ha aiutata?
«Nel Clan all’inizio eravamo un gruppo di amici. Lui ha aiutato Ricky Gianco, Guidone, Don Backy, Gino Santercole... Con me credo temesse il confronto. Io ero molto ingenuo, ma piacevo al pubblico quasi quanto lui...».
Addirittura...
«Sì, ricordo una volta a Imperia. Avevo appena fatto un disco intitolato ”Charlie Brown”: centomila copie con una sola apparizione televisiva. Dovevo aprire la serata, faccio tre canzoni, mi chiedono il bis. Poi me ne chiedono un altro... La faccio breve: alla fine Celentano mi dice ”uè, ma tu non devi mica cantare così, devi cantare un po’ meno, sennò poi io faccio fatica, eh...”».
Com’era arrivato al Clan?
«Tramite Vittorio Salvetti, che avevo conosciuto a un concorso a Udine, al quale avevo partecipato. Quello era il periodo dei concorsi musicali per esordienti. Teddy Reno ne organizzava uno per partecipare al quale bisognava pagare tremila lire, c’erano concorsi in cui dovevi pagare cinquemila lire, io un giorno decisi di iscrivermi a un concorso dove bisognava sganciare trentacinquemila lire, che all’epoca, nel 1958, erano dei bei soldi...».
Continui...
«Ricordo che mia madre quasi piangeva, quando glielo dissi. Delle trentacinquemila lire, intendo. Sono andato a Roma, ovviamente a mie spese, mi hanno fatto registrare con un Revox e mi hanno rispedito a casa col mio bravo acetato sotto il braccio. Era una specie di disco finto, di plastica, che potevi ascoltare solo tre o quattro volte, perchè poi cominciava a gracchiare. Nella mia ingenuità, pensavo che quelli fossero i dischi. Tornai a casa orgoglioso perchè credevo di aver registrato il mio primo disco...
Torniamo a Salvetti.
«L’avevo conosciuto a Udine. E dopo quel concorso a Roma, un po’ deluso, gli scrissi per chiedergli di aiutarmi. Mi disse di andare ad Asiago, dove stava organizzando la prima edizione del Festivalbar. Che poi io fra l’altro vinsi. Fu lì che mi presentò Celentano...».
Feeling a prima vista?
«No, lui era incuriosito perchè io facevo gli stessi brani americani che cantava lui. Io sono uno che non sta mai zitto, e ho cominciato a spiegargli che doveva cantare così e così... L’ho detto: ero giovane e ingenuo».
Facciamo un passo indietro. A Trieste come aveva cominciato?
«Studiavo da elettrotecnico ma sognavo la musica. Cantavo le canzoni americane che avevo conosciuto e imparato tramite i jukebox. Io stavo lì, nei bar, ad ascoltare quei brani rock’n’roll per ore. Non conoscevo né l’inglese nè la musica, ma imparavo tutto a memoria. Imitavo i grandi cantanti americani: Elvis Presley, Little Richard, Chuck Berry... Cercavo sui giornali gli annunci dei concorsi che si svolgevano in giro per l’Italia, partecipavo e devo dire che arrivavo sempre nei primi posti, spesso vincevo».
I locali triestini?
«In ogni bar c’era un jukebox. Gli americani ballavano nei bar, non era mica come adesso, c’era un’atmosfera di allegria ed euforia che contagiava chiunque. Per me andare a cantare alla birreria Dreher, lì dove adesso c’è il centro commerciale, era il massimo. Credevo fosse un trampolino di lancio per uno che voleva fare il cantante».
E ce la fece?
«Sì, ci arrivai nel ’59, quando vinsi uno dei tanti concorsi per dilettanti. Il primo impatto col pubblico fu molto difficile. Alle preselezioni cantai ”Don’t be cruel”, ma non so che parole sono venute fuori dalla mia bocca, so solo che tremavo tutto. Per farmi coraggio mi ero scolato un bicchiere di vino...».
Com’era la Dreher?
«Era una grande birreria impostata sullo stile austriaco: birra, cibo ma anche spettacolo. D’inverno dentro, lì dove ora c’è il negozio di articoli sportivi dentro il centro commerciale, d’estate fuori, nel grande giardino che costeggiava via Giulia».
Poi...?
«Poi, dopo un po’, capii che la birreria Dreher non era proprio il massimo. E che se uno voleva farcela per davvero doveva muoversi, partire, andare a Milano, dove all’epoca si facevano i dischi, si decideva il destino della musica italiana».
Dunque Milano...
«Partii pieno di entusiasmo e di speranze. Per tre mesi lavoravo come elettrotecnico in una ditta. E la sera del sabato e della domenica andavo a cantare nei locali. Era l’inizio degli anni Sessanta. C’era un’atmosfera incredibile. La nuova musica ormai stava arrivando anche nel nostro paese...».
Celentano era già un grande...
«Sì, aveva già fatto vari successi, fra cui ”Il tuo bacio è come un rock” e ”24.000 baci”. La sua forza, più che la voce, era come muoveva il corpo. Ma forse non tutti sanno come ha cominciato...».
Dica...
«Alla fine degli anni Cinquanta suo fratello Sandro faceva il rappresentante dell’Amaro Isolabella. All’epoca i bar, i locali avevano la sala da ballo, proponevano anche musica, piccoli spettacoli. Dunque lui, quando andava a vendere il liquore, in una maniera o nell’altra riusciva a piazzare anche il fratello. E così cominciò la sua carriera».
Claudia Mori?
«All’epoca non esisteva. Lui stava con Milena Cantù, la ”ragazza del Clan”. Fra l’altro lei aveva un ruolo importante, nelle dinamiche del Clan: andava in giro, nelle case discografiche, a cercare i brani americani di cui fare le cover. So che poi si è sposata con Fausto Leali, ci ha fatto due figli, prima di separarsi».
Diceva della Mori...
«Una volpe. Quasi più furba di Adriano. Si capiva subito che era una che voleva mettersi in vista. All’epoca aveva fatto anche un film di quelli piuttosto scollacciati. Senza alcun successo. Prima stava con un calciatore della Roma, Lojacono. Poi ha individuato Adriano. E non l’ha più mollato. Tuttora è lei che decide cosa fare e non fare».
Ma nel Clan i rapporti com’erano?
«Di amicizia. Celentano stesso all’epoca era uno di noi, un amico, andavamo a casa sua, si scherzava... L’amicizia per lui era un valore a cui sacrificare tutto: hai fatto questo, non andrebbe bene, ma sei un amico e allora... Poi a un certo punto le cose son cambiate».
Nel Clan quanto è durata?
«Cinque anni, nei quali feci tantissime serate, un tour con Adriano, un disco all’anno. E nel ’66, nel Trio del Clan, andai a Sanremo a cantare la seconda versione de ”Il ragazzo della via Gluck”. All’inizio Celentano si era inventato un arrangiamento pesante, davvero terribile. Per fortuna accettò i nostri consigli e la fece praticamente solo chitarra e voce...».
A Sanremo ci tornò altre due volte.
«Sì. Ma prima nel ’67 feci il Cantagiro con ”La legge del menga”, canzone che venne censurata dalla Rai per alcuni tormentoni e doppi sensi legati al titolo della canzone. Si sa: erano altri tempi. Bastava un nulla per incorrere nella mannaia della commissione che stabiliva cosa poteva andare in onda e cosa no...».
Ci dica del Festival.
«Sì. Nel ’68 avevo scritto ”La tramontana”, senza poterla firmare. Dovevo portarla a Sanremo, dove invece la cantarono Antoine e Gianni Pettenati per accordi e beghe fra case discografiche. A quel Sanremo, vinto da Endrigo e Roberto Carlos con ”Canzone per te”, ci andai comunque, cantando ”Il re d’Inghilterra” con Nino Ferrer: una canzone che non mi era mai piaciuta, ma per andare a Sanremo (dove poi sarei tornato anche nel ’75, con ”Madonna d’amore”) si fa qualsiasi cosa...».
Nel frattempo era diventato anche autore...
«In fondo fu Celentano a spingermi senza saperlo su quella strada. Lui aveva capito che ci sapevo fare e non mi voleva aiutare. Ma mi ha fatto un piacere, perchè così mi sono dedicato alla composizione e ho avuto fortuna».
Racconti.
«All’inizio non mi facevano firmare le canzoni. Perchè allora si usava così. La gavetta era questa. Io ho scritto ”Nessuno mi può giudicare” (con Beretta) nel ’66 per Caterina Caselli, ”Io tu e le rose” nel ’67 per Orietta Berti, ”Quando m’innamoro” nel ’68 per Anna Identici, ma alla Siae le hanno firmate altri autori già affermati».
Perse un sacco di soldi...
«Sì, ma a quel punto avevo fatto la mia gavetta come autore. Ed era arrivato il mio turno. Prima da solo e poi con Pace e Panzeri firmai molte canzoni: «La rosa nera» e «Alle porte del sole» per Gigliola Cinquetti, «Tipitipitì», «Non illuderti mai» e «Fin che la barca va» per Orietta Berti, ”Quanto è bella lei” per Gianni Nazzaro...».
Pace e Panzeri come li ha conosciuti?
«Pace in un albergo, sempre a Milano. Io giocavo a biliardo, lui veniva a giocare a carte, poi si finiva sempre a suonare la chitarra. Io ero nel Clan, lui era un autore, abbiamo cominciato a lavorare assieme. Con Panzeri la stessa cosa. Le canzoni le scrivevamo assieme, ognuno metteva qualcosa, a volte l’idea arrivava per caso, magari viaggiando in macchina...».
Come cantante aveva guadagnato molto?
«Poco. Come autore sono arrivati molti più soldi. Basti pensare che quando facevo le serate, alla fine degli anni Sessanta, prendevo centomila lire a sera, di cui davo quindicimila a testa ai ragazzi del gruppo: dunque me ne restava la metà. Celentano prendeva un milione a sera, e al complesso dava dodicimila lire a testa. E a me diceva: tu sei matto, non bisogna dargli tanto...».
La svolta economica?
«Quando ho visto i soldi della Siae per ”La rosa nera”: due milioni di lire in un anno per settecentomila copie vendute. Fu allora che capii che le cose stavano cambiando».
Un suo brano finì in America...
«Sì, ”Alla fine della strada”, portata al Sanremo del ’69 da Junior Magli e dai Casuals. Furono eliminati subito, perchè se a Sanremo non paghi non puoi far nulla. Ma il disco fu spedito a una casa discografica inglese. Magli imitava un po’ Tom Jones, aveva fatto anche una cover di ”Delilah”. Fatto sta...».
Fatto sta?
«Fatto sta che il disco arrivò in qualche maniera alle orecchie di Tom Jones e l’ha incisa. Una sera ero fuori con una ragazza, a Trieste, dove tornavo ogni tanto, e la radio dava questa canzone, che in inglese era diventata ”Love me tonight”...».
In America c’è poi andato?
«Quell’anno dovevo andare a Los Angeles per ritirare un premio perchè la canzone aveva avuto un milione di passaggi radiofonici e televisivi. Ma la mia paura dell’aereo mi fece rinunciare. Negli Stati Uniti ci sarei andato qualche anno dopo, per incidere un disco, ma mi ritrovai in mezzo a un giro che non mi piaceva per niente, e la cosa non ebbe un seguito...».
Trieste?
«Per tanti anni sono andato avanti e indietro. Poi sono tornato a vivere qui. Ora sto a Sistiana, vicino al mare. E i miei dischi li faccio ancora...».
Pilat, ma se Celentano la chiamasse?
«Ovvio: ci andrei di corsa. Al suo prossimo programma, a questo punto...».

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