martedì 22 novembre 2005

INTERVISTA CLAUDIO PASCOLI

TRIESTE Provate a dire «sassofono», nel mondo della musica leggera/pop/rock

italiana. Nove interlocutori su dieci, c’è da scommetterci, risponderanno

«Claudio Pascoli». Il musicista triestino, monfalconese di nascita (a

proposito, l’anagrafe della città dei cantieri ospita da sola più star dello

spettacolo che l’intera regione: Gino Paoli, Paolo Rossi, Elisa, lui...),

trapiantato prima a Milano e poi in Brianza ormai da oltre trent’anni, è

infatti il sassofonista più ricercato e più presente nei dischi, nei tour,

nei programmi tv più importanti degli ultimi venti/venticinque anni. «Se

penso a come tutto ciò è cominciato - dice Pascoli - mi sembra ancor oggi

tutto molto strano...».

Cominciamo dall’inizio?

«Sono nato nel ’47, a Monfalcone. Quando avevo tredici anni la mia famiglia

si trasferì a Trieste. Ho fatto il liceo scientifico, prima Oberdan e poi

Galilei. E mi sono iscritto senza troppa convinzione al primo anno di

medicina...».

Nel frattempo aveva scoperto la musica...

«Ho cominciato a suonare il sax nella banda di Monfalcone. Arrivato a

Trieste, nel ’61 sono passato a un’altra banda, quella del Ricreatorio

Brunner. All’epoca ogni ricreatorio aveva la sua banda, c’era un bel senso

della compagnia, e una sana rivalità fra le varie bande...».

Perchè il sax?

«Ero rimasto colpito dall’estetica dello strumento, oltre che dal suono.

Ricordo che nel ’59 rimasi affascinato da un servizio sul jazz su una

rivista, con splendide foto in bianco e nero di Gerry Mulligan, Stan Getz...

Che poi avrei scoperto alla radio, nei programmi che Sergio Portaleoni

conduceva a Radio Trieste. Ascoltavo gli assoli e li imparavo a memoria,

prima con la voce e poi con lo strumento».

Ma con la banda non suonava jazz...

«No, il repertorio si limitava alle solite Radetzky March con contorno di

canzoni triestine. Tranne il periodo dopo ogni Sanremo: imparavamo tutte le

canzoni e le suonavamo già una settimana dopo il Festival».

Ricorda il primo sax?

«Certo, lo comprai con una borsa di studio. Provavo ore e ore. Andavo a casa

di Portaleoni, che aveva una raccolta immensa, con un vecchio registratore a

bobine: registravo un sacco di roba, tornavo a casa e mi mettevo a studiare.

Poi c’era anche il Circolo triestino del jazz, all’epoca molto attivo».

Erano gli anni del beat...

«E dunque tempi nerissimi per il jazz. Tante chitarre, i primi strumenti

elettronici, tutta roba con cui non andavo d’accordo. Per fortuna alla fine

degli anni ’60 si è diffuso il rhythm’n’blues, la musica nera, con i fiati

in primo piano».

Lei aveva un gruppo?

«Suonavo con tanti complessi, come si chiamavano all’epoca. Poi, nel

’67/’68, con Toni Soranno e Fabio Ursich fondai i Combo. Una bella

formazione, facevamo il repertorio dell’epoca, lavoravamo nei migliori

locali della regione».

Il salto di qualità?

«Arrivò proprio nel momento critico. L’università non era la mia strada. E

cominciavo ad avere un’età in cui uno deve cominciare a capire cosa fare

nella vita. Fossi rimasto a Trieste, avrei dovuto trovarmi un lavoro

”normale” e suonare nel tempo libero...».

Invece...

«Invece, proprio nei giorni in cui avevo fatto un concorso al Lloyd

Triestino, mi chiama Euro Cristiani (batterista triestino che ha lavorato a

lungo con Umberto Tozzi, ndr). Era il ’72. Lui suonava a Torino con Patrick

Samson, quello di ”Soli si muore”. Ed era stato contattato per il tour di

Adriano Pappalardo, all’epoca primo in classifica con «È ancora giorno”...».

Insomma, gli serviva un sassofonista...

«No, magari... Gli serviva un trombonista, ma Euro mi spacciò per tale,

anche se io il trombone lo suonavo pochissimo. Comunque parto col mio sax.

All’inizio erano un po’ perplessi, poi è andato tutto bene...».

Tanto che...

«Arrivai alla Numero Uno, l’etichetta di Mogol e Battisti. Claudio Fabi,

vicedirettore artistico, mi propose di lavorare con lui, nell’ufficio

artistico».

Cosa faceva?

«Suonavo nei provini, ascoltavo i dischi che arrivavano dall’America,

scrivevo gli arrangiamenti... Insomma, un po’ di tutto. Ma era un lavoro. E

decisi di trasferirmi a Milano. Due anni in città, e poi dal ’75 in Brianza,

dove si sta più tranquilli. Ora vivo in un paese vicino Lecco».

Lei ha suonato con Lucio Battisti...

«Mi aveva sentito in sala d’incisione, per un 45 giri di Pappalardo. Mi fece

lavorare con lui per ”Anima latina”, l’album del ’74. Per sei mesi ho fatto

l’assistente di studio, dal primo giorno di lavoro a quello del missaggio

finale e della consegna dei nastri».

Che tipo era?

«Ovviamente un fuoriclasse dal punto di vista musicale. Raramente ho

incontrato artisti col suo piglio, la sua intelligenza, il suo istinto, la

sua sicurezza nell’andare in una direzione precisa. Era riservato, sia sul

privato che sulle scelte musicali. Non loquacissimo, anche se sapeva stare

in compagnia, non teneva gli altri a distanza».

Cosa ricorda maggiormente di lui?

«Che in studio aveva un atteggiamento professionale ma anche giocoso, quasi

ludico. Sapeva divertirsi, sperimentava... Era il periodo dei

sintetizzatori, dei processori del suono: era stato a Londra, aveva comprato

queste nuove meraviglie della tecnica, con lui il lavoro era anche

divertimento».

Suonò ancora con Battisti?

«Nel disco successivo, ”La batteria, il contrabbasso, eccetera”, nel ’76. Ma

lì feci solo lo strumentista. E il mio assolo ne ”La compagnia” mi ha fatto

conoscere nel giro. Era moderno per quei tempi, colpì molto nell’ambiente.

La mia carriera cominciò da lì...».

Facciamo un gioco. Io le dico un nome e lei... Franco Battiato.

«Con lui ho fatto ”La voce del padrone”, con cui nell’81 sbancò dopo anni di

sperimentazione. A un certo punto decise di realizzare un disco che avrebbe

venduto molto. E ci riuscì. Personalità forte, con una sicurezza simile a

quella di Battisti».

Eugenio Finardi.

«Con lui ho fatto ”Sugo” e ”Diesel”. Anni ’70, festival di Parco Lambro, le

molotov ai concerti, la musica politica. Era un po’ un casino...».

Il compianto Ivan Graziani.

«Un futurista, un pazzo dalle idee surreali, simpatico. Con lui ho fatto ”La

ballata delle quattro stagioni” e ”Pigro”...».

Il Nobel Dario Fo.

«Due mesi di teatro, nel ’77/’78, alla Palazzina Liberty. Lo spettacolo era

”La signora da buttare”, una satira ambientata al circo. Come tanti uomini

di teatro, piegava la metrica musicale alle sue esigenze».

Gianna Nannini.

«Con lei ho fatto quel disco che aveva in copertina la Statua della libertà

(”California”, del ’79 - ndr). Dopo tanti anni mi ha chiamato perchè voleva

delle lezioni di sax. Dopo tre o quattro incontri ha rinunciato...».

Roberto Vecchioni.

«Tanti tour e dischi, l’ultimo l’anno scorso. Persona di grande cultura,

grande affabulatore. Magari a volte parla un po’ troppo, ma ha scritto

alcune canzoni bellissime».

Un altro che parla tanto: Francesco Guccini.

«Beh, lui - come Fiorello, con cui ho fatto l’ultimo tour - è divertente.

Persona coltissima. Una volta mi ha regalato un libro di Carpinteri &

Faraguna...».

Il grande De Andrè.

«Che dire... Forse solo che ci manca. Una spanna su tutti gli altri. Cultura

micidiale. Se in tour qualcuno faceva la Settimana Enigmistica, era

imbattibile. Un tour con lui, suonando le tastiere».

Vasco.

«Ero con lui nell’84/’85, ai tempi di ”Bollicine”, in un periodo un po’

strano. Visti gli eccessi, nel tour il manager Guido Elmi aveva imposto un

rigido proibizionismo. E la situazione era un po’ tesa...».

De Gregori.

«Prima di cominciare a suonare dice sempre ”vamos trabajar...”, andiamo a

lavorare. Ha questo senso della musica come lavoro, come impegno. Un poeta,

di grande umanità. Non è distaccato: non ha quell’espansività forzata che

oggi va per la maggiore...».

L’azienda Pooh.

«Con loro tutto è perfettamente organizzato. Grande rispetto per le esigenze

dei musicisti, forse perchè hanno fatto una lunga gavetta. Un’azienda,

appunto...».

Ivano Fossati.

«Ho lavorato con lui già nel ’73, nel disco con Oscar Prudente. Poi

nell’87/’88, ai tempi de ”La pianta del te”. Linguaggio alto, colto. Ma i

concerti erano una sorta di work in progress, sempre in evoluzione».

Fiorella Mannoia.

«Persona eccezionale. Sembra altera ma è l’opposto: sarebbe un’ottima

attrice comica. Forse il marito-manager-chitarrista, Piero Fabrizi, è un po’

ingombrante. Ma ha il merito di averla condotta sul binario giusto».

Eros Ramazzotti.

«Con lui ho un ricordo strepitoso di un concerto al Radio City Music Hall di

New York. Ora mi sembra gravato da una sorta di ”pesantezza industriale”.

Nel nuovo disco, la cosa migliore è il suo canto soul in ”La nostra

vita”...».

L’impegno più recente: Celentano.

«Con lui, dal ’79 a oggi, ho fatto dischi, tour italiani ed europei, tutti i

programmi tv tranne il ”Fantastico” dell’86. Lui è sempre uguale. Ha

un’ipervalutazione di se stesso: vuol salvare il mondo. È naif, ha

quell’ingenuità che funziona».

Rockpolitik?

«La bufera era fuori. Dentro eravamo tranquilli. Per me se n’è parlato

troppo, si è fatta troppa dietrologia. Le ultime due settimane sono state un

po’ pesanti: prove saltate, errori... E Celentano non ammette mai gli

errori. Per il resto è un grande».

 

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