domenica 5 marzo 2006

Povia ha vinto a sorpresa il 56.o Festival di Sanremo con «Vorrei avere il becco». Fra le Donne, affermazione di Anna Tatangelo (che ha battuto la favorita Dolcenera) con «Essere una donna». Fra i Gruppi primi i Nomadi con «Dove si va». Fra i Giovani successo di Riccardo Maffoni con «Sole negli occhi». La serata, aperta dall’omaggio a Modugno con Giancarlo Giannini che ha cantato «Vecchio frac», è brillata soprattutto della luce di Andrea Bocelli, Laura Pausini ed Eros Ramazzotti. Con «Volare» cantata da questi ultimi due all’una di notte...
Ma al di là del risultato a sorpresa (alla fine ha vinto quello che era stato il vincitore morale dell’anno scorso, con «I bambini fanno oooh»), forse non è un caso che il Festival conclusosi stanotte sia probabilmente il peggiore da diversi anni a questa parte. Sanremo, si sa, è sempre stato uno specchio del Paese, nel bene e nel male. Ne ha annusato gli umori, spesso ha saputo anticipare i cambi di stagione, nel costume ma anche nella politica di casa nostra.
E questa edizione della rassegna, a pensarci bene, somiglia un po’ all’Italia del 2006. Ferma, stanca, senza certezze, senza idee, senza passioni, incapace di ridere ma forse ormai anche di piangere. Alla vigilia di una scelta politica importante quasi come quella del 1948, la Rai ha allestito l’eterno rito del nulla, che è poi il vero spettacolo che da tempo va in scena nella città dei fiori, ma l’ha fatto peggio che in passato.
Il direttore di Raiuno, l’ex giornalista ed ex parlamentare forzista Del Noce, ha confermato sulla tolda di comando Gianmarco Mazzi, uomo vicino ad An, e ha chiamato alla conduzione un comico provinciale e innocuo come Panariello. Uno che non fa ridere, infilando luoghi comuni e doppisensi di bassa lega buoni per la platea di bocca buona del Bagaglino, non per quello che dovrebbe essere l’evento di punta della campagna d’inverno della Rai.
Lungi dal proporre un festival della canzone, questa squadra ha allestito un brutto show televisivo, la cui cifra stilistica è stata una lentezza capace di schiantare un rodato addetto alla moviola. In tempi iperveloci di zapping e videoclip, solo pensare a maratone che cominciano alle ventuno e si concludono all’una e mezzo di notte è un attentato alla tolleranza.
Sanremo, quest’anno più ancora che in passato, è l’ultimo avanposto di un mondo, di una televisione, che non esistono più. C’è stato un tempo, nella seconda metà degli anni Sessanta, in cui al Festival facevano metaforicamente a botte per partecipare i maggiori interpreti della canzone italiana dell’epoca: gli esponenti della tradizione (da Claudio Villa in giù...) ma anche i giovani (Celentano, Lucio Dalla, Caterina Caselli, Gino Paoli, l’Equipe 84, i Giganti, Bobby Solo, Giorgio Gaber, i Rokes...) che incarnavano il vento del cambiamento, nella musica ma anche nel costume. E i dischi degli uni e degli altri, finito il Festival, erano i più venduti per settimane e settimane.
Oggi i ragazzi consumano forse più musica di allora, ma attraverso canali diversi, nemmeno immaginabili soltanto pochi anni fa. E soprattutto prediligendo artisti che rarissimamente, e solo ad inizio carriera, si presentano sotto quelle che sono considerate le forche caudine del Festival.
La Rai, quest’anno, con l’edizione appena mandata in archivio, non solo non è stata capace di proporre una rassegna all’altezza della situazione da tempo mutata. Ha anche annullato i piccoli segnali di cambiamento che, pur fra mille difficoltà e lentezze, avevano contraddistinto le edizioni degli ultimi anni.
Ne è venuto fuori il Festival che abbiamo visto: un Festival di transizione, che forse prelude a un cambio di stagione anche politico (la Rai è notoriamente velocissima a sentire il vento che cambia e, quando possibile, ad adeguarsi...).
Anche se, in queste giornate di polemiche sugli ascolti in picchiata e sui maxicosti dell’evento, si è già pensato per l’ennesima volta di resuscitare Pippo Baudo. L’ormai settantenne presentatore (stessa età di Berlusconi, due anni più di Prodi) ha condotto il primo dei suoi dieci Sanremo nientemeno che nel 1968, l’ultimo nel 2002. «Non sarebbe un salto indietro - ha osservato Del Noce - anzi, c'è una certa logica in questa eventuale determinazione». Sì, verrebbe da dire, la stessa logica che sta nel riformare la Dc, il grande centro, attraverso la liturgia festivaliera onnivora come una balena bianca della canzone.
Eppure alternative ce ne sarebbero, veniva da pensare ieri sera guardando Eros Ramazzotti, Laura Pausini e Andrea Bocelli, artisti che sono partiti da qui dieci o vent’anni fa e hanno portato la musica italiana in tutto il mondo. Prima di tornare per ricevere il giusto tributo dal Festival e al tempo stesso restituirlo.
Lo stesso moderato ottimismo suscitato nella serata precedente, quella dedicata ai duetti, quando si è avuta la riprova che se ai cantanti viene chiesto e permesso di fare il loro mestiere, quando alla musica viene restituito un minimo di centralità, i risultati - e le emozioni - si vedono, eccome.
Dove si va, verrebbe allora da chiedersi, mutuando il titolo della canzone dei Nomadi, messaggio di pace e di speranza che è anche un’orgogliosa bandiera ideologica. Di certo da nessuna parte, se si sceglie di insistere sul Festival-monstre, senza contatto con la realtà, affidato a comici che non fanno ridere, a cantanti che escono fuori una volta all’anno, un Festival peraltro allestito dilapidando milioni di euro per strutture faraoniche e compensi scandalosi a conduttori e ospiti.
Se invece, sfruttando la debacle di quest’anno, si osasse una sorta di rifondazione, di anno zero da cui ricominciare, si potrebbe finalmente allestire una vetrina della musica italiana e internazionale, sull’impronta delle grandi rassegne cinematografiche. Col marchio di Sanremo e tanto spazio per i giovani. E fregandosene bellamente dei numeri, degli ascolti, di quella madre di tutte le disgrazie che è l’Auditel...
Altrimenti, meglio chiudere baracca e burattini. Davvero. In cinquantasei anni è cambiato tutto: la musica, l’Italia, il mondo. Si può vivere anche senza Festival di Sanremo. Probabilmente meglio.

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