domenica 23 aprile 2006

È il classico «filo rosso» quello che lega il nuovo disco dell’Orchestra di Piazza Vittorio, «Sona» (Edel Nun), e il nuovo lavoro di Claudio Lolli, «La scoperta dell’America» (Storie di Note). Da un lato l’orchestra orgogliosamente multietnica nata nella piazza di Roma che è una babele di lingue, culture, religioni, colori. Dall’altro il professore bolognese che trent’anni fa fu il cantore degli «zingari felici», del Settantasette di Radio Alice e dintorni, ma anche di tanti altri sogni e ansie generazionali. Immigrati di oggi e «comunisti» di ieri, che parlano entrambi di un’Italia «brutta, sporca e cattiva», forse marginale, di certo minoritaria, eppure solare e ricca di dignità. Un’Italia che dice no, che non sa né vuole omologarsi, che sta sempre e comunque dalla parte del torto. Dove c’è ancora tanto posto...


Come a Piazza Vittorio, quartiere Equilino, Roma. Dove c’è il più alto concentrato di immigrati della capitale. E dove l’ex Avion Travel Mario Tronco nell’estate del 2002 ha messo assieme la band più multietnica che ci sia: musicisti provenienti da India, Cuba, Senegal, Tunisia, Ungheria, Brasile, Argentina, Ecuador, ma anche dagli Stati Uniti e ovviamente dall’Italia. Dopo il primo disco (ventimila copie vendute, in Italia e all’estero) e dopo i tanti concerti, ora arriva il secondo capitolo discografico della loro storia. «Sona» è stato registrato in due mesi e mezzo nei locali per l'occasione trasformati in grande studio dell'Apollo 11, l'associazione che sin dal principio sostiene e produce il progetto.
«”Sona” è il titolo di una canzone del disco - spiega Tronco - ma anche una parola che nella lingua indiana del Rhajastan significa ”bello” e in romanesco (ma anche in tanti altri dialetti italiani - ndr) ”suona”. Ci piaceva molto e poi ”Sona” è un disco ricco di suoni. Una volta scelto il titolo del disco abbiamo anche scoperto che ”Sona” è un linguaggio virtuale, un ”linguaggio ausiliario internazionale” pensato nel 1935 perché l’Esperanto era troppo eurocentrico. Non lo sapevamo, però niente male...».
Nove brani ricchi di colori e sapori, vivi e vitali, che coniugano antichi strumenti a corda e percussioni elettroniche. E che potrebbero rappresentare la colonna sonora dell’Italia del futuro, affascinante e multietnica proprio come la piazza da cui l’orchestra ha preso il nome.
E siamo a Claudio Lolli. Erano otto anni che non pubblicava dischi di canzoni inedite. E trentaquattro anni dopo il fulminante esordio di «Aspettando Godot» (’72), il professore di italiano e latino in un liceo di Bologna, classe 1950, dimostra di essere ancora uno dei più stimolanti e attenti protagonisti della canzone intelligente di casa nostra. A costo di risultare tedioso per gli ascoltatori di bocca buona.
Lo fa con quello che un tempo si sarebbe chiamato «un album concept», a tema, che riflette sul destino di certe «scoperte» destinate a influire sulle nostre vite, ma in definitiva anche sul nostro presente, sul nostro paese, su quello che eravamo e su quel che siamo diventati.
«(Il grande poeta russo) Majakovskij e la scoperta dell’America», ma anche «Bisogno orizzontale», «Il secondo sogno», «Le rose di Pantani»... Squarci di quodidianità che fendono il cielo, sollecitazioni alle nostre storie private e collettive, che finiscono quasi in un reading nel «Medley con rumori rosa».


S’intitola «Habemus Capa» (Emi Virgin), il nuovo album di Caparezza. Alle prese con il problema di che fare della sua carriera dopo il successone di «Fuori dal tunnel», il rapper di Molfetta (vero nome: Michele Salvemini, classe ’73) se la cava alla grande, con gusto e autoironia, sfornando il primo «disco postumo di un cantante ancora in vita». Ecco allora l’annuncio della propria morte («Mors mea tacci tua»...), ecco la marcia funebre e tutta una serie di reincarnazioni, fino al ritorno in se stesso quasi episcopale che dà il titolo al disco (nel quale l’assenza dell’accusativo può essere considerato una licenza poetica...).
Si è dovuto infilare in quella gabbia di «morti di fama» (e di matti...) che è «Music Farm», il reality del martedì su Raidue, perchè il grande pubblico si accorgesse nuovamente di lui. Ma Alberto Fortis (nato a Domodossola, classe ’55) dimostra di non poter prescindere dai successi dei primi anni Ottanta e infatti li ripropone in questo «In viaggio» (Universal): da «Settembre» a «Il duomo di notte», da «La sedia di lillà» a «La nena del Salvador»... Oltre ad alcuni inediti, ci sono anche quattro cover: «Emozioni» di Battisti, «Con tutto l’amore che posso» di Baglioni, «Forever young» di Dylan e «You got it» di Roy Orbison.
A quasi due mesi dal Festival di Sanremo, sono pochi i dischi che hanno funzionato anche nelle classifiche di vendita. Fra questi, sicuramente quello astutamente messo assieme dal vincitore Povia. Sotto il titolo «I bambini fanno ”ooh”... la storia continua» (Target), il cantante che ha fatto delle filastrocche il suo marchio di fabbrica ripropone le canzoni del primo disco, «Evviva i pazzi», uscito lo scorso anno, con l’aggiunta di otto canzoni nuove, fra cui ovviamente quella «Vorrei avere il becco» con cui ha vinto il Festival, ma anche la versione spagnola del successo dell’anno scorso, «Cuando los niños hacen ”ooh”». Testi semplici, a tratti surreali, spesso naif, ma che entrano in testa.



PLACEBO Meds - Arrivato al quinto disco, il trio londinese di Brian Molko sembra finalmente in grado di risollevarsi dopo un paio di prove discografiche incolori. Si è già parlato di un ritorno alle origini, per la band che alcuni avevano definito come la versione glam dei Nirvana. È un fatto che il rock asciutto, secco, a tratti metallico, dominato quasi sempre dalle chitarre, è un ottimo tappeto sonoro per le storie di sesso e droga cantate con piglio e tensione dal leader. Non mancano momenti di godibile melodia, come nella ballatona notturna «Follow the cops back home». Mentre frammenti come «Infra-Red» e «Drag» riportano alla memoria i Placebo grintosi e arrabbiati degli esordi. Il 29 giugno suonano ad Azzano Decimo.


PINK I'm not dead - Per anni è stata quella delle chiome fucsia, delle boccacce e degli eccessi di tutti i tipi. Ora Alecia Moore, ventisettenne di Philadelphia che ha scelto di chiamarsi Pink perchè da piccola arrossiva sempre, si trasforma da diva trash a militante pacifista. «Mi sono tolta i paraocchi - dice - ho paura di un mondo dove la gente si uccide, ha fame, è malata...». L’album, ricco di energia, affronta temi in qualche modo impegnati. Dalla vacuità dello show business («Stupid girls», con tanto di video-parodia) alla masturbazione («Fingers»), fino a una sorta di lettera aperta a Bush («Dear Mr. President») e al bonus track «I’ve seen the rain» (un parallelo fra il Vietnam e le guerre di oggi, attraverso gli occhi del padre della cantante).


 


 

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