martedì 25 aprile 2006

Si scrive flessibilità, si legge precarietà. Nella realtà come nella letteratura. Col rischio di perdere per strada la parte più debole di un’intera generazione. Quella che hanno già chiamato generazione flessibile, generazione usa-e-getta, persino generazione «kleenex».
Sì, perchè rubare a un giovane il futuro, la certezza di un lavoro, la speranza in un domani migliore è il furto peggiore, quello che toglie a un ragazzo la bellezza irripetibile della sua età. Un furto contro il quale non ci si può assicurare, al massimo si può accendere un cero a San Precario. Quel santo che nel calendario non c’è, ma ha piena cittadinanza nelle manifestazioni dei giovani dell’Italia del 2006, che non è poi così diversa dalla Francia che nelle scorse settimane è scesa in piazza e ha sbarrato la strada a una legge considerata ingiusta.
San Precario è il santo protettore di tutti quelli che lavorano per un salario da fame, ragazzi ed ex ragazzi di trenta e passa anni che soffrono le conseguenze di un reddito intermittente, che oggi c’è e domani non si sa. Giovani e meno giovani schiacciati da un futuro incerto, drammaticamente a rischio di povertà ed esclusione sociale.
Di questo mondo hanno cominciato a occuparsi anche gli scrittori, o almeno quella parte di loro che - per motivi anagrafici o sensibilità politica e sociale - scandagliano l’universo giovanile. Con le sue ansie, i suoi problemi, le sue speranze ma anche i suoi drammi.
Prendiamone tre, di questi scrittori: Aldo Nove, Angelo Ferracuti, Mario Desiati. Sono contemporaneamente in libreria, rispettivamente con «Mi chiamo Roberta, ho 40 anni, guadagno 250 euro al mese...» (Einaudi, pagg. 178, euro 12,50), «Le risorse umane» (Feltrinelli, pagg. 224, euro 12) e «Vita precaria e amore eterno» (Mondadori, pagg. 180, euro 15).
Tre libri diversi ma che parlano della stessa Italia, dello stesso triste paesaggio umano raccontato con una consapevolezza dolorosa. Pagine che fanno precipitare il lettore in una realtà drammatica, lontana da quella finta ed edulcorata delle televisioni e delle promesse elettorali, con un unico comun denominatore fatto di disagio, tristezza, disillusione, mancanza di speranza.
Per scendere in questi inferi Aldo Nove rinuncia quasi al suo essere scrittore. Diventa giornalista, intervistatore, cronista, per raccontare la realtà del lavoro oggi, dal suo lato debole, insicuro, non protetto. «Quando ho scritto ”Superwoobinda”, dieci anni fa - spiega l’autore introducendo la prima storia - volevo raccontare una generazione di trentenni privi di futuro. Dieci anni sono passati. Il futuro, lo abbiamo vissuto sulla nostra pelle, non è ancora arrivato. Siamo ancora tutti, nostro malgrado, dei bambini...».
La Roberta del titolo insegna «quasi per inerzia» in una scuola per studenti lavoratori. Ha lasciato Cosenza, «la provincia», perchè sognava di diventare scrittrice, e si è trasferita a Roma. Il suo malessere si chiama «inadeguatezza», cioè «il senso di non riuscire mai a far fronte alle cose nel modo migliore, con serenità, con il necessario distacco». Riuscire a non prendersi troppo sul serio - dice - è «una forma di salvezza empirica».
La storia di questa donna apre la galleria di quattordici fotografie scattate da Aldo Nove tra il 2004 e il 2005, e apparse originariamente su «Liberazione». Disegnano un paese di precari, stagisti, lavoratori interinali o part-time, non integrati per i quali la flessibilità significa innanzitutto precarietà. Parlano di una generazione che per la prima volta nella storia italiana sa di esser destinata a un’esistenza peggiore di quella capitata in sorte ai propri genitori. Con il futuro che prende pian piano le forme di un buco nero nel quale si rischia di scivolare.
Angelo Ferracuti racconta la provincia italiana, i lavoratori manuali, la classe operaia sopravvissuta alla «fine del lavoro». Parte dal Nordest, dal cantiere navale di Monfalcone, approda al piccolo museo della miniera di Marcinelle, agli uffici postali di Fermo e della direzione di Roma, alle fabbriche di scarpe di Civitanova Marche, alle aziende tessili di Prato... Fra emigrati, lavoratori a termine, mobbing, esclusione sociale, malattie.
A Monfalcone - qui sopra, un estratto del capitolo - i giovani «si sentivano realizzati quando ottenevano un posto da tubista, saldatore o elettricista, da apprendista». Un lavoro che colpisce con l'inalazione delle polveri di amianto, anche dopo molti anni, anche quando il lavoratore ormai non se l’aspetta più. Tredici storie in un’amara galleria di lavori e di persone, ognuna con le sue rabbie, i desideri, i sogni, le delusioni.
Mario Desiati affronta lo stesso dramma con un romanzo-diario. Il protagonista è un trentenne che lavora in un call center. Il racconto della sua vita, delle sue giornate diventa un romanzo generazionale quasi cronachistico, aderente nella sua monotonia alla realtà di formazione di un giovane italiano qualsiasi, perso nell’attesa di un riscatto che rischia di non arrivare mai.
«Non ci sono rombi di aerei sulle nostre teste, non ci sono tessere annonarie, file per la farina, l’acqua e la luce non vengono razionate. Eppure oggi hai la stessa paura dei tuoi nonni sotto i B52 che sorvolavano San Lorenzo...». Parole che sembrano stilettate.
Il disincanto, la coscienza del disagio, la perdita della speranza sono i tratti che accomunano queste pagine, questi libri, queste storie. Ragazzi ed ex ragazzi in perenne e disperata lotta per la sopravvivenza, senza la certezza e nemmeno la speranza di quel futuro migliore che animava padri e nonni e bisnonni appena pochi decenni prima.
Ancora Aldo Nove. Di storie come queste, scrive nel suo libro, così «urgenti», ce ne sono tante: «sono dappertutto». Per questo «vanno raccolte. Dobbiamo dircele. Sono infinite storie che potrebbero cominciare così: ”Tu fai conto che mi sveglio alle quattro e un quarto del mattino, faccio quattro lavori diversi al giorno e vado a letto all'una e mezzo di notte...”».
La Costituzione - perchè ce l’abbiamo ancora, no...? - parla di una «Repubblica fondata sul lavoro», di «pari dignità sociale», di «esistenza libera e dignitosa» per il lavoratore e la sua famiglia. Forse sarebbe il caso da ripartire da lì. Dalla Costituzione italiana. Prima che sia troppo tardi.

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