giovedì 4 maggio 2006

È considerato ormai a pieno titolo uno dei padri nobili della nostra canzone d’autore. E a cinquantacinque anni Ivano Fossati - il cui tour fa tappa stasera alle 21 al Deposito Giordani di Pordenone - sceglie di lasciare per una volta da parte le atmosfere intimiste, alle quali ci aveva abituati soprattutto dal vivo, per una sterzata rock che sorprenderà più d’uno. Abbandona i teatri e torna nei club. Lascia da parte persino il pianoforte a coda e «si accontenta» di un piccolo piano nero, che peraltro usa con parsimonia.
Voglia evidentemente di rimettersi in discussione, dopo trentacinque anni di carriera e tanta musica passata sotto i ponti. Era infatti il ’71, quando l’allora ventenne cantante e flautista genovese debutto nei suoi Delirium con l’album «Dolce acqua». Una vita e ventuno album dopo, il recente «L’arcangelo» lo ha confermato come una delle figure centrali della miglior musica italiana.
Dal vivo, in questo tour partito dieci giorni fa da Senigallia, in provincia di Ancona, e che con l’estate si trasferirà nelle piazze, l’artista propone solo quattro canzoni del nuovo album: «Ho sognato una strada», «Danny», «L’arcangelo» e ovviamente «Cara democrazia», ballata rock ma anche esortazione civile e atto d’accusa politico giunto quattordici anni dopo «La canzone popolare», che in questo spettacolo viene proposta fra i bis, «ma soltanto quando viene...».
Parole pesanti come macigni: «Cara democrazia, sono stato al tuo gioco anche quando il gioco si era fatto pesante, così mi sento tradito, o sono stato ingannato, mi sento come partito e non ancora approdato, sento un vuoto, sento un vuoto al mio fianco, e nessuna certezza messa nero su bianco...».
Parole che Fossati ha spiegato così: «Mi sono reso conto, leggendo anche i giornali stranieri, che c'è una preoccupazione in giro per il mondo. Quella dello svuotamento delle parole. Si fanno dei sensatissimi dibattiti tra persone serie, tra persone preoccupate, in Francia o in America, su questo svuotamento dall'interno della parola democrazia e della parola libertà».
«Sembra, e sottolineo sembra, che queste parole contengano meno di prima. C'è il timore che questi termini tanto sbandierati alla fine si riducano a un simulacro e poi contengano altro. Leggendo costantemente queste cose, mi è venuto in mente il testo. Mi sembrava naturale cantarlo, perché io sono fra quelli che si preoccupano. È una questione sovrannazionale e dunque ancora più grave».
Ancora l’artista genovese: «A me hanno insegnato che la democrazia è una cosa precisa. Ha dei limiti, non è un sistema perfetto, ma sappiamo che fino ad oggi è il migliore che siamo riusciti a inventare. Ha una figura non perfetta, ma precisa. Da Atene a noi non è cambiata. La grande preoccupazione degli ultimi anni - non so quanti, almeno venti - è che l'economia cambi dall'interno le regole della democrazia. E siccome questo è l'unico ombrello cui possiamo aggrapparci, io, insieme a molti milioni di altre persone, credo che vada difesa con più attenzione. ”Cara democrazia” parla di questo. È molto chiara...».
Nello spettacolo non mancano i classici di Ivano Fossati: da «Panama» a «La pianta del tè», da «Lindbergh» a quella «Smisurata preghiera» scritta a quattro mani con De Andrè. Non manca nemmeno un omaggio a Luigi Tenco, con l’appassionata «Ragazzo mio». Con Fossati, sul palco, Pietro Cantarelli (tastiere), Riccardo Galardini e Fabrizio Barale (chitarre), Daniele Mencarelli (basso), Mirko Guerrini (fiati e tastiere), Marco Fadda (percussioni) e il «figlio d’arte» Claudio Pascoli, alla batteria.

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