lunedì 5 giugno 2006

TRIESTE E LE IDEE


LA CULTURA CAMBI MARCIA


di Carlo Muscatello


E' necessario dunque un grande evento, per trasformare l’identità culturale di Trieste in un segno visibile anche all’esterno? Ci vuole dunque qualcosa come un grande festival (letteratura, cinema, teatro, musica: quasi non importa, pur che sia...), per tradurre l’anima culturale della città in volano capace di contribuire alla sua crescita economica e turistica? O è la città stessa, che deve cambiar marcia e farsi evento?
Interessante dibattito, quello innescato su queste colonne da Roberto Morelli. Che induce a qualche riflessione, in un settore troppo a lungo trascurato dagli amministratori locali. Con i risultati che sono sotto gli occhi di tutti. Dall'operetta in su o in giù, a seconda dei gusti e dei punti di vista.
Trieste non ha fama soltanto di città culturale. Chi vi giunge, da sempre, viene colpito da quell’«atmosfera mitteleuropea» di cui molti si riempiono la bocca e pochissimi il portafogli. Strade, piazze, palazzi, persino odori e sapori che rimandano a Vienna piuttosto che a Budapest piuttosto che a qualche altra città del Centro-Est europeo. Del quale, come annota Mauro Covacich nel suo ultimo libro, Trieste è in fondo «la città più meridionale».
Ebbene, cominciamo col dire che i tanti interventi compiuti negli ultimi anni sul tessuto urbanistico e architettonico cittadino rischiano di mettere a dura prova anche quest’anima, quest’atmosfera, questa ricchezza.
Non vogliamo entrare nel merito della presunta bellezza o bruttezza della nuova piazza Goldoni, di piazza Vittorio Veneto, dei mascheroni all’inizio del Viale, della nuova Adriaco, della superstrada che sta nascendo sulle Rive, della vecchia piscina buttata giù senza sapere che farne...
Il punto è che in tutto ciò manca un filo conduttore, un’idea forte e portante, un’attenzione al contesto architettonico preesistente. Col rischio di andare verso una «città patchwork», una città che, nello spazio di uno o due decenni, procedendo di questo passo, rischia di perdere quell’identità di cui si diceva prima.
Nella cultura il rischio della «città patchwork» è già presente. Anzi, giusto per mutuare antichi slogan, è vivo e lotta assieme a noi... Sì, perchè Trieste ha molte eccellenze non solo nella scienza, nella psichiatria, nelle banche e nelle assicurazioni, nella perduta gloria mitteleuropea, nell’essere laboratorio di fenomeni, sociali e politici, che qui si sono presentati e si presentano in anticipo.
La Trieste culturale vive di chiaroscuri, di bianchi e neri, di eccellenze e povertà. Fra le prime, pensiamo alla città di Magris e di Pressburger, di Pino Roveredo (insuperato esempio di riscatto attraverso la cultura) ma in qualche modo anche di Moni Ovadia e di Veit Heinichen, di Susanna Tamaro e dei «nuovi scrittori», dei tanti teatri e dei tantissimi spettatori che a teatro ci vanno. La Trieste dei festival cinematografici e dei tanti set che cinema e televisione allestiscono sempre più spesso qui da noi, quella della Casa della Musica (realtà ormai più nota e apprezzata all’estero che in città...), ma anche di quel fenomeno unico in Italia che sono i ricreatori comunali. Avremmo voluto dire anche la Trieste dell’operetta, ma le cronache di questi giorni non ce lo permettono.
A queste eccellenze fa da tristo contraltare la mancanza quasi assoluta, ormai da anni, di una politica culturale degna di questo nome, che sappia imporre all’agenda politica la cultura e lo spettacolo come priorità, come urgenza da coniugare con l’economia, con il lavoro, con la crescita civile e democratica di una società. La Roma di Veltroni insegna.
Sì, perchè lo stato assistenziale è finito da un pezzo. E non ritorna. Non ritornano i finanziamenti a pioggia, a fondo perduto, buoni per mantenere in vita carrozzoni slegati dalla realtà del 2006. Ma dove sta scritto che con la cultura, con lo spettacolo, si debbano perdere quattrini? Dove sta scritto che questi settori o godono dei finanziamenti di cui si diceva oppure agonizzano e prima o poi muoiono?
La verità è che bisogna creare un ponte tra cultura ed economia, che devono lavorare assieme, in sinergia. Trieste è luogo di confini, di contrasti, di diversità, di separazioni, di scontri, di ferite ancora difficili da rimarginare. Anime che non devono essere vissute come chiusura, ma come ponte, come dialogo, come incontro, comunicazione, progettazione di qualcosa che non c’è. Cultura, appunto.
In questo la città, con la sua storia e la sua configurazione importanti, deve porsi come ponte fra Mitteleuropa (ancora lei...) e Mediterraneo. Sapendo che il futuro può e deve passare anche attraverso la cultura. Ben venga dunque l’evento, il festival, la rassegna capace di attirare attenzione e danari. Ma l’anima culturale non può né dev’essere solo questo. Altrimenti diventa mera riproposizione di fenomeni sperimentati altrove.
Trieste è stata davvero grande quando ha accolto le diversità. E oggi merita più delle mostre di seconda mano, più dei carrozzoni tivù cui affidare la piazza più bella, più delle bancarelle e dei «sardon day» e delle frecce tricolori spacciati per cultura. In una parola: bisogna pensare in grande, bisogna volare finalmente alto. Perchè il tempo delle piccole rendite di posizione, anche nel campo della cultura e dello spettacolo, è finito da un pezzo. E non ritorna.

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