domenica 8 ottobre 2006

CODROIPO E se avesse ragione lui, il Boss? La notte friulana scende sul nobile profilo di Villa Manin mentre il dubbio si fa strada fra gli undicimila che hanno risposto al suo richiamo. Il grande mostro d'acciaio del megapalco (31 metri per 18) fronteggia quasi da pari a pari la splendida facciata dell'antica dimora. Il popolo del rock è pronto. Aspetta solo un segnale. Aspetta soltanto che la miccia venga accesa.  Cosa che accade dieci minuti dopo le ventuno, quando Bruce Springsteen ppare per la prima volta nel Friuli Venezia Giulia e dà il via alle danze. «Ciao Udine, come state?».


Bruce attacca con «O Mary don’t you weep», prosegue con «John Henry» e «Old Dan Tucker».  Solo a questo punto inserisce un suo classico: «Johnny 99». «Eyes on the prize» offre lo spunto al popolo di Villa Manin per la prima fiaccolata.  Subito dopo il nostro prosegue in italiano: «Udine è famosa anche per la grappa, ma dov’è...?» (più tardi, seguirà un brindisi sul palco con tutti i musicisti).  Gianola e Benito Nonino, in tribuna autorità insieme a mezza giunta e mezzo consiglio regionale, prendono nota per un probabile invio natalizio oltreoceano...

Con Springsteen, sul palco, i diciassette della Seeger Sessions Band.  Armati di chitarre acustiche, banjo, violini, armoniche e fisarmoniche, contrabbasso...  Davanti alla loro genuina vitalità, alla loro spontanea allegria, il dubbio di cui si diceva prende forma e si articola così: e se per salvarci la vita e forse l’anima, se per sfuggire alle bruttezze e alle malvagità di questo mondo moderno, l’unica ancora di salvezza fosse rappresentata dallo spostare indietro di cinquanta o magari cent’anni le lancette dell’orologio del tempo e dunque anche della musica?  Tornare insomma alle sane e solide certezze del passato, a quando la musica profumava di storie vere, di sentimenti, di emozioni, di vita.

E’ in fondo quel che ha fatto lui, l’ex ragazzo che era nato per correre, che a cinquantasette anni, da rockstar planetaria e miliardaria, da autentico numero uno che ha scalato tutte le vette e non deve dimostrare più niente a nessuno, un bel giorno ha deciso di andare a scavare alla ricerca delle radici della propria musica, del proprio mondo.  E di non fare dunque la fine di quei patetici vecchietti (i Rolling Stones? boh, lo avete pensato voi...), che passati i sessant’anni ancora sculettano sui palcoscenici di mezzo mondo, ripetendo all’infinito i riff adolescenziali di «Satisfaction» e «Let’s spend the night together».  Nell’illusione di un’eterna giovinezza che altro non è, in realtà, che un dorato museo del rock’n’roll.

Lui, l’ex ragazzo del New Jersey, con l’ultimo disco e con questo show è andato a scavare nel terriccio nobile e fertile della storia culturale e musicale del suo grande Paese, gli Stati Uniti, chissà, forse anche per prendere le distanze da un presente imbarazzante assai.  E’ andato a far rivivere canzoni vecchie di un secolo, accomunate dal fatto di aver fatto parte dell’eterno repertorio di quell’amabile e indomito vecchietto che risponde ancora al nome di Pete Seeger.  Un’operazione che poteva lasciar perplesso più d’uno (sarebbe come se il nostro Vasco andasse a rileggere i canti delle mondine, o quelli della Resistenza...), ma che soprattutto dal vivo rivela tutto il suo valore e la sua bellezza.  Sì, perchè questi brani ci restituiscono leggende popolari e storie vere: storie di schiavi neri che sognano un futuro senza catene, operai che lasciano la pelle sui binari della ferrovia che stanno costruendo, marinai che solcano mari lontani e soffrono di nostalgia («Pay me my money down»), poveracci costretti a vivere da nomadi alla ricerca di un lavoro, menestrelli di strada che raccontano davanti al fuoco di banditi (la godereccia e battagliera «Jesse James») che rubano ai vecchi per dare ai poveri, immigrati italiani o irlandesi (come la madre e il padre del nostro...) con la valigia di cartone, schiene piegate nei campi di cotone...

Ma non pensate a tristi e malinconiche ballate, sul modello della nostra pur nobile tradizione popolare.  Con Springsteen e i suoi arzilli musicanti della Seeger Band, il ritmo, la danza, l’allegria la fanno quasi sempre da padrone, anche quando c’è da denunciare un disagio, o recriminare per un’ingiustizia subita, o per chiedere la giusta paga.

Il folk, il country, gli accenti blues, i cori gospel sono la colonna sonora di uno spettacolo che racconta come in una festa paesana l’epopea del viaggio, della strada, della polvere, della provincia più remota, in fondo del sogno americano.  D’accordo, manca il graffio rock che era e rimane la cifra stilistica dell’autore di «Born to run».  Che dirige le danze con piglio fermo e con la sua voce roca e strascicata.  E si conferma artista versatile e sensibile, per nulla incline ai clichè, vagabondo della musica ed eroe dei perdenti di ieri e di oggi e forse di domani.  Alla ricerca di un senso per questa vita, per questo mondo.

A Villa Manin, ieri sera, successo caloroso.  Con, nel finale, una toccante «My city of ruins» e una «When the Saints go marching in» da antologia.

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