mercoledì 1 novembre 2006

La storia non si cancella. E la storia del rock sono loro, gli Who, cui nemmeno la recente scomparsa di John Entwistle - dopo quella nel ’78 di Keith Moon - ha fiaccato la voglia di esserci di nuovo, di contare ancora, insomma di ricominciare. Dopo ventiquattro anni di silenzio (l’ultimo disco di brani originali era infatti «It’s hard», dell’82), Pete Townshend e Roger Daltrey - entrambi classe ’45 - tornano infatti alla carica con un nuovo lavoro, intitolato «Endless wire» (Polydor) e appena uscito. Già il titolo, che significa «filo senza fine», sembra sospeso fra passato e presente. Il filo è quello della moderna tecnologia ma anche quello della storia del rock, quella storia che gli Who hanno contribuito a scrivere. Da «My generation» (’65) e dall’opera rock «Tommy» (’69) in poi.

Il disco si apre con «Fragments», brano collegato a un progetto di Townshend che vuole ricreare il ritratto di una persona attraverso la musica. Ma più della metà dell’album è occupata dalla mini-opera rock «Wire and glass», che il chitarrista ha scritto per accompagnare il suo racconto «The boy who heard music». E ci sono anche due brani ispirati al film «La passione di Cristo»: «Man in a purple dress» e «Two thousand years». In questi come in altri momenti del disco, i momenti acustici prevalgono sui riff e sull’energia rock del passato. Insomma, i due superstiti della grande avventura non giocano a rifare se stessi. Guardano avanti, sono ovviamente molto più maturi di un tempo, ma anche nelle ballad e nelle atmosfere a tratti folkeggianti che popolano i brani si riconosce il loro marchio di fabbrica. Lo stile e la classe della loro indiscussa grandezza.





Da una leggenda di sempre a una leggenda per ora soltanto... di nome. Lui si chiama per l’appunto John Legend (all’anagrafe: John Stephens), che con «Once again» (Sony Bmg) tenta di ripetere i fasti del disco d’esordio, «Get lifted», tre milioni di copie e tre Grammy. Disco ancora una volta pop-soul, ricco di contaminazioni per l’ex session man diventato solista, che però non gli sottraggono quel senso di unità e coesione già apprezzato nella prova precedente. Insomma, funziona.




Come funziona, nella sua grandezza, il nuovo disco di Rod Stewart, «Still the same... Great rock classic of our time» (Sony Bmg). A sessantuno anni, dopo cento e rotti milioni di dischi venduti, l’ex ragazzaccio del rock non propone né un disco di brani nuovi né un’antologia. A due anni dal terzo «Stardust: the Great American Songbook», continua a confrontarsi con la storia della musica che gli ha cambiato la vita, a lui come a milioni di persone in tutto il mondo. E mette la sua inconfondibile voce al servizio di una manciata di classici di tutti i tempi: da «Have you ever seen the rain» (Creedence Clearwater Revival) a «If not for you» (Bob Dylan), da «Still the same» (Bob Seger) a «Father & son» (Cat Stevens), fino a «Missing you» (John Waite)... Che dire? Forse solo che la classe non è acqua.




Ultima segnalazione per i Servant e il loro nuovo «How to destroy a relationship» (Edel). Mollati i Planet Funk, Dan Black scrive con i suoi soci inglesi il secondo capitolo della loro giovane discografia. Territori del cosiddetto britpop, suoni elettrici e diretti, nel tentativo di ripetere il successo del disco d’esordio. «Save me now» e il brano del titolo sembrano gli episodi più riusciti.





C’è chi ha amato soltanto il primo Battisti, quello con Mogol. Pochi - fra cui chi scrive - hanno trovato superlativo anche il secondo periodo, quella della collaborazione con l’assai ermetico poeta Pasquale Panella. Cinque album, usciti fra l’86 e il ’94. Titoli come «Don Giovanni», «L’apparenza», «La sposa occidentale», «Cosa succederà alla ragazza», «Hegel»... Canzoni, anzi, post-canzoni dai versi straniati e stranianti, dai suoni robotici che a tratti germogliavano sublimi melodie. Roba non commerciale, comunque. Oggi quelle canzoni ritornano nel cd triplo «Battisti-Panella / Il cofanetto» (Numero Uno - Sony Bmg), che arriva dopo i due volumi «Le avventure di Lucio Battisti» e «Mogol». Quaranta canzoni, quelle conosciute, odiate o amate dai vecchi fan. Non ci sono purtroppo i famosi inediti scritti dalla coppia: pare una decina di brani, finiti chissà dove...




Sesto album per Gianmaria Testa, intitolato «Da questa parte del mare» (Fuorivia Fandango Edel), che arriva a tre anni da «Altre latitudini». Il cantautore piemontese, scoperto prima in Francia che in patria, prosegue sulla strada dell’artigianato nobile e raffinato, della canzone come messaggio semplice e diretto, senza fronzoli né strizzate d’occhio alla moda. «Seminatori di grano» apre il disco ed è anche il singolo di lancio. Fra arpeggi di chitarra e sonorità jazzate comincia il viaggio di una sorta di concept-album sulle migrazioni moderne, sui viaggiatori in cerca di pane e lavoro. Storie di imbarchi clandestini, di terre sognate e mai trovate, storie di straordinaria umanità.




Chiusura col veneto Massimo Priviero, quello che ai tempi dell’esordio con «San Valentino» (1988) sembrava potesse diventare quel che poi è diventato Ligabue. «Dolce Resistenza» (Mbo) è il suo nuovo disco, parla la lingua del rock e del rifiuto della guerra. Anche con «Ciao amore ciao», di Tenco, col testo originale d’impronta antimilitarista «Li vidi tornare».


Prosegue la serie nata andando a scavare nei ricchissimi archivi Rai. Per far rivivere il leggendario Quartetto Cetra i curatori della collana hanno restaurato alcune vecchie incisioni dell'ottobre 1954, tratte dalle riviste radiofoniche realizzate dal gruppo canoro tra il ’53 e il ’55. È infatti dall'ottobre ’53 che va in onda sul Secondo Programma della Rai «Sassofoni e vecchie trombette. L'impossibile storia del jazz». Come dire: la storia del genere afroamericano riveduta e corretta da Tata, Virgilio, Felice e Lucia, in un alternarsi di gag e canzoni scritte appositamente per l'occasione. Fra i classici, anche «Night and day» di Cole Porter.




E un capitolo della collana è dedicato anche al grande Gorni Kramer, nato a Rivarolo Mantovano nel 1913, genio della fisarmonica. Non tutti sanno che Gorni era il cognome e Kramer il nome (in onore di Frank Kramer, grande ciclista degli anni Dieci). Il cd ce lo fa ricordare com’era: chiacchierone, sorridente, sempre di buon'umore... C'è il Kramer «opinionista» (anche se all'epoca il termine non era ancora stato inventato) e quello canterino («Ai tempi che Gallo correva», «È vero signor Strauss che il valzer non le piace?»...), ma soprattutto l'arrangiatore capace di passare dai temi popolari («Reginella campagnola») allo slancio vitale dello swing. Di cui era un maestro.


2 commenti:

  1. E' vero Gorni Kramer è stato un grande; lo testimoniano anche i 4 CD pubblicati dalla Riviera Jazz con le sue incisioni dal 1935 al 1946; imperdibili !!!!

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  2. Piace molto anche a me il periodo Battisti Panella! Ascolto spessissimo il brano "Campati in aria"e "Però il rinoceronte". E' stato veramente un periodo molto creativo! Ciao

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