sabato 4 novembre 2006

TRIESTE Cinque minuti dopo le ventuno. Il buio in sala è sufficiente per far partire il primo applauso. A trasformarlo in boato ci pensano l’accordo iniziale di chitarra e subito dopo la voce di Ligabue. Solo in scena, seduto con la chitarra in braccio, un po’ alla maniera dei cantautori di una volta. Attacca con «Metti in circolo il tuo amore». E la festa può cominciare. Sarà innanzitutto una festa della musica e delle parole. «Figlio di un cane», «Ho messo via», «Una vita da mediano», «Il giorno dei giorni»... Uno alla volta entrano anche i musicisti: prima Mauro Pagani (bouzouki, violino...), poi tutti gli altri. Dopo «Il giorno dei giorni» arriva anche la prima poesia, «Le cartoline non inviate»...

Luciano Ligabue, quarantasei anni, da Correggio, Reggio Emilia, torna nello stesso teatro a quattro anni di distanza da quel «Giro d’Italia» che allora era concepito così: prima sera a teatro, più o meno acustico, seconda sera nel palasport, più o meno elettrico. La voglia, di più, l’esigenza di diversificare era dunque presente già allora. Stavolta ne ha fatto una sorta di impresa lunga un anno e più. Tutto è cominciato nel settembre dell’anno scorso, col megaconcerto dei record a Campovolo, dalle parti di casa sua: quattro palchi e quattro situazioni musicali diverse. Poi, il «Nome e cognome Tour» (dal titolo dell’ultimo album) è partito nei piccoli club, è proseguito a primavera nei palasport, d’estate negli stadi, e ora arriva finalmente nei teatri. Dimensione ideale per il progetto che ha in testa il nostro.

A lui, come si diceva, interessa la musica ma anche le parole. Non è come quei rocchettari duri e puri votati solo alla prima, ma nemmeno come quei cantautori di tanti anni fa cui interessavano solo le seconde. Il Liga, figlio o fratello minore sia degli uni che degli altri, cura suoni e liriche quasi con la stessa cura e dedizione. Le parole, poi, sono la sua àncora di salvezza, il tramite con cui tira fuori quel che ha dentro. E come sanno ormai tutti, il bisogno e la necessità di esprimersi l’hanno trasformato in pochi anni da uno dei due rocker italiani capaci di riempire gli stadi (l’altro è ovviamente Vasco...) in un artista a tutto tondo: regista, sceneggiatore, scrittore, ora anche poeta, col recente «Lettere d’amore nel frigo».

Che gli permette, nel doppio concerto triestino (stasera infatti si replica), di infilare fra una canzone e l’altra qualche poesia. Anche qui un segnale c’era già stato nel 2002, quando aveva recitato qualche verso di Charles Bukowski. Stavolta è tutta roba sua, in quella che qualcuno ha già definito una piccola Spoon River in salsa emiliana. Storie, situazioni, volti...

Lo spettacolo è quasi interamente acustico. Se l’altra volta non aveva saputo o potuto rinunciare del tutto alle chitarre elettriche, stavolta il nostro indio padano si è fatto coraggio. Una grossa mano gliela dà la band in cui - accanto a un organo Hammond che profuma di anni Settanta - brilla anche stavolta la presenza di Mauro Pagani. I musicisti lo affiancano prima l’uno, poi l’altro, poi due o tre alla volta, infine tutti assieme... Ma al centro della scena, verrebbe da dire: al centro della musica, c’è ovviamente sempre e solo lui, con la sua inconfondibile voce, col suo modo di esprimersi, schietto, diretto, senza fronzoli, con la sua musicalità, con la sua anima nascosta dietro a un verso o a un accordo di chitarra.

I ragazzi, quelli giovani e quelli con qualche anno in più, pendono dalle sue labbra e dalle sue corde. Le poltroncine e i velluti del teatro non creano soggezione. Lui all’inizio avverte: «Fate un po’ quello che volete...». E l’atmosfera somiglia presto a quella di uno stadio. Anche se lui, stavolta, oltre agli strumenti elettrici, rinuncia anche a una scaletta «fatta tutta di singoli». Cosa che potrebbe permettersi, visto il successo che ha sorriso praticamente a tutto quello che ha scritto e cantato dal ’90, anno del primo album, a oggi.

Ieri sera, assieme a classici come «Hai un momento Dio», «Vivo o morto o X», «Questa è la mia vita» - e poi ancora «L’amore conta», «Si viene e si va» (coro del pubblico), «Non è tempo per noi» (gente ormai in piedi), «Ho perso le parole», «Le donne lo sanno», «Piccola stella senza cielo»... - Ligabue è andato a pescare episodi meno frequentati, che comunque non prendono alla sprovvista il suo popolo, che conosce a memoria e canta in coro anche cose meno note come «Lettera a G» (dal nuovo album), «I ragazzi sono in giro» (da «Buon compleanno Elvis», del ’95) e «Walter il mago» (da «Sopravvissuti e sopravviventi», del ’93).

Le poesie, in mezzo a questo materiale sonoro, fanno quasi da collante. Ammesso e non concesso che in un concerto del Liga ce ne sia bisogno, di un collante. Certe liriche sembrano l’altra faccia della medaglia di alcune canzoni. Pensiamo ai vecchi «Sogni di rock’n’roll», cui adesso si sposa un testo - non letto ieri sera - intitolato «Ce lo vedi Mick Jagger morire a 27 anni?», dedicato ai tanti morti giovani del rock, da Jimi Hendrix a Jim Morrison, da Janis Joplin a Brian Jones, fino a Kurt Cobain. Morti eccellenti, cui fanno da anonimo contraltare tanti ragazzi «la cui disperazione non merita di essere considerata di serie B solo perchè non sono famosi...».

Con questo spettacolo il rocker - e poeta, e regista, e... - padano ridà fra l’altro fiato alla vecchia diatriba, avvitata sull’eterno dilemma se una canzone possa esser considerata poesia, e se dunque i cantautori possano fregiarsi del titolo di poeti. Fernanda Pivano, ch’è una che se ne intende, ha detto che sì, che anche lui - come De Andrè - fa parte della ristretta schiera. Ligabue si è schermito, rivendicando solo l’urgenza di comunicare, sempre e comunque, con qualsiasi forma. Ma intanto scrive.

Nel concerto si nota, infilata fra una canzone e una poesia, una differenza: se quando impugna la chitarra e svolge quello che considera comunque il suo mestiere c’è sempre un ottimismo di fondo, una sorta di invito alla leggerezza, quando invece si offre al pubblico da solo, nudo con le sue liriche, i toni sono piuttosto quelli di un malinconico pessimismo. Come se ancora una volta ci fosse bisogno del rock, per salvarsi la vita...

A Trieste, ieri sera, dire che c’è stato «successo di pubblico» è effettivamente dir poco. È stato un piccolo grande trionfo. Un abbraccio lungo due ore fra Luciano Ligabue e la sua gente, il suo popolo, arrivato anche da lontano per l’appuntamento del Rossetti. E quando nel finale è toccato a «Happy hour», trasformato in tormentone estivo dall’urticante pubblicità della Vodafone, la gente è letteralmente esplosa. Poi, in un teatro trasfigurato in bolgia, fra i bis sono arrivati anche «Urlando contro il cielo» e «Fra palco e realtà».

Stasera, come detto, si replica. Ma tranquilli: non c’è più un biglietto neanche a pagarlo oro... Vorrà dire che tutti gli altri si dovranno consolare col dvd annunciato in uscita prima di Natale.

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