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mercoledì 30 novembre 2011
LIBRO ZAVOLI
Il fascismo e la guerra, la Liberazione e il dopoguerra, gli anni del boom e il Sessantotto, lo sbarco sulla Luna e la guerra nel Vietnam, la tragedia del terrorismo ma anche il Giro d’Italia, Rimini e Roma, Fellini e Basaglia. E ovviamente la Rai.
Esistono delle storie personali che, rilette a distanza di tanti anni, con il classico senno di poi, somigliano tanto all’autobiografia di una comunità, di una nazione. E diventano una sorta di personalissimo viaggio nella memoria di un Paese. Il Paese è ovviamente l’Italia, l’uomo che si racconta è Sergio Zavoli, il libro s’intitola “Il ragazzo che io fui” (Mondadori, pagg. 261, euro 18,50).
Ravennate, classe 1923, giornalista, alla Rai Zavoli entra giovanissimo ed è storico autore di grandi inchieste televisive negli anni Sessanta e Settanta (Montanelli lo definì “principe del giornalismo televisivo”), condirettore del Tg1, direttore del Gr1 e infine presidente dell’azienda pubblica. Da tre legislature è senatore, dal 2009 presiede la Commissione bicamerale per l’indirizzo e la vigilanza sulla Rai.
Dopo tanti libri scritti, alla vigilia dei novant’anni, era scontato che arrivasse il momento dell’autobiografia. Giunge con la formula della “lezione” a un bambino, il nipote cui lo scrittore si rivolge nella dedica (“Per Andrea, al suo bellissimo immaginare”) e già nelle prime righe che riportano il lettore indietro fino alla Rimini in bianco e nero del 1929, a una mamma che si preoccupa per il figlio, «bisognerà portarlo dal dottore...».
Da quell’episodio lontano e mai rimosso, Zavoli parte per un viaggio nel quale ripercorre il passato ma guardando sempre al futuro, al futuro del Paese e delle giovani generazioni. Attento al domani di ragazzi che pagano «il conto più alto - spiega - a questi anni colmi di recessioni non solo economiche, ma anche civili e morali. Come? Socialmente irrilevanti e politicamente estranei persino a ciò che li condanna a una sorta di supplizio per avere accesso a un elementare diritto, il lavoro, finiscono per essere chiamati “bamboccioni” perchè, disoccupati, vivono ancora tra i muri di casa».
Ma il racconto prosegue. I ricordi portano all’amico Federico Fellini, a Rimini, al cinema Fulgor. Poi Roma, gli anni della radio, l’arrivo a via Asiago 10, gli anni del Giro d’Italia, con Fausto Coppi e la “sua strana, triste bellezza”.
Un salto temporale. Nel viaggio ci sono anche gli anni del terrorismo, delle stragi, le Brigate rosse, la “Notte della Repubblica” in cui gli anni di piombo vengono rivissuti in diciotto puntate, la prima andata in onda il 12 dicembre 1989.
L’autore invita a riflettere sulla mancanza di immaginazione del nostro tempo. «Chi immagina più? Non c’è riuscito il Sessantotto che ha fatto correre per il pianeta, su e giù, la parola “contro”. Che cosa possiamo aspettarci da un tempo che oggi ha in testa solo l’utile, il pratico e il conveniente, cioè le parole dei “quartierini”? Chi parla più con le parole di tutti?».
Non manca un capitolo, intitolato “Tra giardini e boscaglie”, sull’esperienza di Franco Basaglia, che Zavoli seguì negli anni goriziani. Erano gli anni Sessanta, quando il giornalista viene a sapere di quello strano psichiatra che aveva trovato l'ardire di rimettere in libertà i “matti”. Parte con una piccola troupe televisiva e realizza per “Tv7” il reportage “I giardini di Abele”.
«Volevo documentare - spiegò una volta il giornalista - un evento straordinario non solo per il mondo della psichiatria. Aprendo le porte del manicomio, infatti, Basaglia si impegnava a restituire voce a un'umanità dimenticata. Al più debole tra gli ammalati. Cioè a colui che perde il governo della propria mente. Ricordo di avere trovato a Gorizia una grande, gioiosa novità. Per la prima volta, gli ammalati potevano varcare i cancelli di un mondo, come quello del manicomio, chiuso, blindato, esorcizzato. E fare ritorno nelle famiglie, riprendere contatto con la società. Dimenticando, almeno per un po', la loro reclusione».
Una vera e propria rivoluzione, che portò ben presto all'abolizione di metodi curativi terrificanti come i letti di contenzione e l'elettroshock. «I manicomi - scrive Zavoli nel libro, nel quale definisce la 180 “la più umana ma anche la più controversa delle leggi” - sono “ufficialmente” vuoti. Li chiusero il 31 dicembre 1996. Un malato mi aveva detto: “Si aprono le gabbie, ma molti non sanno più volare”...».
Ricordi, storie, riflessioni. Il libro, dice Zavoli, «è in fondo il tentativo di capire ciò che la memoria, dalla più lontana alla più incombente, può lasciare a un bambino che pare avviato, come fu per me alla sua età, a diventare “scriventista”, una parola salvata a lungo, in silenzio, dall'immaginazione innocente di mia madre».
Già, l’importanza della memoria. Senza ricordo, diceva Borges, ci si avvia verso un’amnesia finale che cancella ogni traccia della nostra vita privata e pubblica: «L’importante è non chiedere alla memoria di sostituire il presente: abbiamo già avuto». E al nipote Andrea, nel commiato dopo il lungo viaggio, Zavoli lascia queste parole: «L’importante è che i ricordi risveglino le cose senza la pretesa di prenderne il posto».
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