martedì 28 febbraio 2006

È un Sanremo decisamente ad andamento lento, oseremmo dire senza ritmo, quello tenuto a battesimo ieri sera in diretta su Raiuno da Giorgio Panariello. Lo si è capito subito, già dal monologo iniziale con cui il comico toscano ha aperto in un Teatro Ariston stile Broadway la 56.a edizione del festivalone.
Comicità casereccia e innocua, quella di Panariello, cui ha fatto da contraltare la bellezza altrettanto casereccia e innocua di Ilary Blasy in Totti. Alla quale, al secondo o terzo cambio d’abito, è sfuggito anche il brivido di un capezzolino apparso per una frazione di secondo. Giusto il tempo per solleticare il voyeurismo imperante e la puntuale battuta del comico sulla «pappa di Christian», che poi sarebbe il figlio della signora e dell’infortunato Pupone nazionale.
Come previsto, gli unici momenti di pepe alla serata sono arrivati dall’altra partner femminile del conduttore, quella Victoria Cabello che i triestini ricordano ancora, dopo la sua conduzione della serata in piazza Unità con Mtv, nel luglio scorso, quando definì Dipiazza il sindaco più marpione d’Italia.
L’ex Iena ha dato un sano scossone alla sonnolenza altrimenti imperante. Ha cominciato portandosi una scala da casa, da cui poter fare un’entrata in scena all’altezza delle tradizioni sanremesi (la scenografia pensata dal Premio Oscar Dante Ferretti, in stile Broadway, non prevede infatti le solite scalinate, forse per la prima volta nella storia recente del Festival...). Ha continuato dando della Barbie a una delle bellone chiamate a introdurre i vari cantanti, nella fattispecie Vanessa Hessler, la stangona bionda di «Natale a Miami».
E poi ha colpito almeno due volte. La prima, con l’intervista a un John Travolta in tenuta da pilota d’aereo. I due si sono seduti, lei si è tolta graziosamente le scarpe e si è fatta massaggiare un piede dalla star hollywoodiana. Che rispondendo a una domanda sul personaggio di impresario discografico che interpretava nel film «Be cool», ha detto: «I gangster sono dappertutto, non soltanto nel settore della musica e in quello del cinema...». Poi Travolta ha accennato alla camminata di altri suoi personaggi ormai storici: il ballerino Toni Manero de «La febbre del sabato sera» e il gangster di «Pulp fiction».
Ma i veri brividi sulla schiena del direttore di Raiuno Del Noce e degli altri dirigenti Rai, tutti impegnati a garantire un festival senza riferimenti politici e in perfetta (nonchè silente) par condicio, devono essere venuti un po’ più tardi. Quando la Cabello, armata di lavagnetta, ha cominciato a dividere la platea dell’Ariston a seconda dei settori occupati dalle varie tipologie di pubblico. «E questi - ha sbottato a un certo punto - sono i posti assegnati al premier: vedete, sono tanti. Si siede dove sa di essere inquadrato. E se poi li unite tutti quanti, viene fuori questa faccia...». Per poi concludere tracciando una grande X con la matita proprio sulla sua postazione sul palcoscenico e dicendo: «E questo era il posto assegnato a una che in Rai non lavorerà più...». Commento di Panariello, nel ruolo del bonario padrone di casa: «Saranno due le persone che non lavoreranno più in Rai...».
Giusto per non farsi mancar nulla, Victoria ha fatto finta di ricevere anche un sms da Papa Ratzinger, deluso - a suo dire - per «l’assenza di Madonna...».
Le canzoni. Come previsto ha aperto Nicky Nicolai, elegante nella sua interpretazione di «Lei ha la notte», storia di una prostituta, seguita dalla favorita della vigilia Dolcenera, col suo inno alla vita intitolato per l’appunto «Com’è straordinaria la vita», da cui nella diretta è sparito quel «affan...» del testo originario.
Ma l’altro aspirante alla vittoria è Povia, che continua sulla strada inaugurata l’anno scorso con una fresca e gradevole «Vorrei avere il becco». Meritano un nuovo ascolto Noa e Carlo Fava con il Solis String Quartet, ma anche Ron, Alex Britti, Gianluca Grignani e la stessa Simona Bencini, cui la nostra Elisa ha cucito addotto una «Tempesta» dalle atmosfere soul. Piaceranno ai ragazzi gli Zero Assoluto e i Sugarfree. Agli ex ragazzi i Nomadi.
Deludente invece Anna Oxa, protagonista della vigilia prima con il segreto tenuto sino all’ultimo su canzone e look scelto per la serata, poi con la querelle sulla durata della canzone stessa, che sfora i tre minuti e mezzo previsti dal regolamento. Capelli neri e lunghissimi grazie all’extension, accompagnata dal Gruppo Polifonico di Tirana, l’interprete pugliese ha cantato leggendo da un foglio della sua «Processo a me stessa». Tanto rumor per nulla, verrebbe da dire, dinanzi a un monumento alla presunzione e allo sterile narcisismo.
L’altra delusione della serata? Sicuramente i Ragazzi di Scampia con Gigi Finizio. La loro «Musica e speranza» è il festival dei luoghi comuni partenopei. Solo la potente longa manu di Gigi D’Alessio e Mogol, registi dell’operazione, potevano imporli fra i big...

domenica 26 febbraio 2006

«Sempre il solito via vai, notte che non passa mai. Labbra rosso fuoco: è lei? Hai mai visto Dio com’è...?». Non è il delirio di un nottambulo, sono più banalmente i versi della canzone che apriranno stasera il 56.o Festival di Sanremo: «Lei ha la notte», proposta da Nicky Nicolai, quest’anno orfana del bel quartetto jazz capitanato dal marito Stefano Di Battista, che l’anno scorso l’aveva trionfalmente scortata su su fino alla vittoria nella categoria Gruppi.
La donna cantata da Nicky Nicolai è una prostituta, ma state tranquilli: non farà scandalo, ben mimetizzata fra versi abbastanza sanremesi, come quasi tutti quelli delle altre canzoni in gara a partire da stasera nella città dei fiori. Scorrendo i testi l’attenzione non viene attratta da nessun picco, né in negativo né tantomeno in positivo. Si naviga a vista, evitando per fortuna l’orripilante (stile «I-ta-lia, I-ta-liaaa...» di un Mino Reitano di qualche anno fa, roba che comunque entra nella storia del Festival...), ma non riuscendo purtroppo a toccare nemmeno livelli di qualità accettabile che pure a Sanremo, in tutti questi anni, si sono visti e soprattutto sentiti (non dimentichiamo che all’Ariston son passate canzoni come «Almeno tu nell’universo» o «Vita spericolata», giusto per fare solo due esempi...).
Messo dinanzi ai testi di Sanremo 2006 il linguista Giuseppe Antonelli è impietoso e conia l’espressione di «testi domopak». «La prima impressione è che quest'anno -dice il professore - manchi proprio l'acuto (tanto per usare una metafora squisitamente musicale), quel pezzo forte che anche le edizioni più deboli dell'ultimo decennio avevano sempre garantito. Dalla formidabile ”Italia sì, Italia no” di Elio e le Stori tese a ”Salirò” di Daniele Silvestri, dal ”Timido ubriaco” di Max Gazzè a ”Dimmi che non vuoi morire” scritta da Vasco Rossi per Patty Pravo, tanto per limitarsi a qualche esempio».
La sensazione netta è che stavolta più che mai - conclude Antonelli - si tratti in gran parte di testi «scritti all'unico scopo di accompagnare la musica col suono delle parole. Testi domopak prodotti al metro per confezionare melodie che devono scivolare via facili».
A Sanremo si parlerà anche quest’anno, come ogni anno dal 1950 a oggi, d’amore. E questa non è certo una novità. Ma da artisti che pure nella loro produzione possono sfoggiare canzoni di buon e a volte ottimo livello, pur restando nei parametri italiani, forse ci si aspetta sempre qualcosa di più. Pensiamo a Ron, ad Alex Britti, ai grandi Nomadi, allo stesso Gianluca Grignani, alla citata Nicky Nicolai... Sarà la sindrome sanremese, che evidentemente attanaglia gli autori quando sono alle prese con un brano da presentare al Festivalone. O forse per la nostra immarcescibile saga canora vengono riservate proprio quelle composizioni con quel determinato tipo e qualità di ingredienti (non a caso si parla di «brani sanremesi»...).
Poche le eccezioni. La «Tempesta» che Elisa ha scritto per Simona Bencini, ex cantante dei Dirotta su Cuba, di cui scriviamo qui sotto. La filastrocca di Povia, «Vorrei avere il becco», che almeno ha il pregio della freschezza e dell’originalità. L’inquietudine e la voglia di esperienze sempre nuove cantate da Mario Venuti (quello di «Legami», Sanremo 2004) con gli Arancia Sonora. Pochissimo altro. E il resto è notte.

sabato 25 febbraio 2006

Vorrei la pelle nera, cantava l’italofrancese Nino Ferrer nel 1967, quando Sanremo era veramente Sanremo e i razzisti, se non altro, non stavano al governo. E oggi che comincia l’ennesima edizione di un festivalone che è ormai ridotto solo a un mediocre format televisivo, dinanzi a tanta brutta musica, ma soprattutto dinanzi a tanta stupidità imperante, verrebbe voglia di cantarlo di nuovo, quell’ameno motivetto che, in tempi di rhythm’n’blues e artisti Motown alla conquista del mondo, era anche una piccola e garbata e ironica ammissione di inferiorità musicale della razza bianca nei confronti della grandissima, inarrivabile musica nera. Sono passati quarant’anni, ma anche oggi, spesso, le cose migliori di una scena musicale poverella arrivano da donne e uomini di colore.
È il caso di Prince, genietto della musica nera degli anni Ottanta, che dopo il successo di «Musicology» potrebbe riconquistare il trono della black music con il nuovo album «3121» (Motown Universal), che uscirà il 17 marzo, anticipato dai singoli«Te amo corazon», «Black sweat e «Beautiful, loved and blessed», che l’artista nato a Minneapolis nel ’58 (vero nome Roger Nelson) ha scritto per la sua nuova protetta, Tamar.
Il titolo (si legge «thirtyone-twentyone») potrebbe alludere al numero civico di casa Prince a Los Angeles, o semplicemente essere formato dagli addendi che danno vita al numero 7, il preferito dell'artista che anni fa, nel bel mezzo di una causa con la sua casa discografica, e stufo del nome «principesco», decise di farsi identificare prima con un simbolo e poi con l’acronimo Tafkap, che stava per The artist formerly known as Prince (l’artista precedentemente conosciuto come Prince).
Il disco parte proprio con «3121», un funk classico, e continua con l'orecchiabile «Lolita», gli accenti latini di «Te amo corazon», il tappeto elettro funk ma anche hip hop di «Black sweat» (con tanto di sensuale videoclip), la languida ballata «Incense and candles», il funkettone in puro stile Prince «Love»... Insomma, un grande ritorno al funk, con omaggi alla tradizione soul ma anche frequenti autocitazioni, con un suono fresco e assolutamente contemporaneo. Che potrebbe davvero restituire al genietto di Minneapolis il ruolo che gli compete sulla scena musicale internazionale.
Altra anticipazione. Il 10 marzo esce il secondo album solista di Skin, ex cantante degli Skunk Anansie, intitolato «Fake Chemical State» (Edel), ovvero «Falsa condizione chimica». La ragazza si è tagliata nuovamente i capelli, ritrovando grinta e ispirazione. Col gruppo aveva venduto quattro milioni di album, forse troppi per sopravvivere dopo il terzo album. Fatto sta che nel 2003 le strade si separano e lei debutta da solista con «Fleshwounds», che però non viene premiato dal pubblico. Ora ci riprova, cercando una terza via fra i suoni aggressivi e potenti degli Skunk e quelli più riflessivi del primo disco solista. Gli italiani Marlene Kuntz (che l’avevano voluta in un loro lavoro di alcuni anni fa) sono ospiti in un brano del nuovo disco, «Take me on».
Altra splendida donna di colore, altra splendida voce, altra ex cantante di un gruppo che molla i compagni e tenta la strada solista. Lei è Skye (Edwards di cognome), ex voce dei Morcheeba. Il suo primo disco senza i fratelli Godfrey si intitola «Mind how you go» (più o meno la raccomandazione che la mamma le faceva da piccola...), ha l’inconfondibile timbro di fabbrica delle origini, ma tutti i brani sono firmati dalla ragazza. Disco raffinato, voce sinuosa.


Il suo nome è già scritto nella storia del rock. Da almeno trent’anni. Per esempio da quel 18 novembre 1975, quando all'Hammersmith Odeon di Londra Bruce Springsteen con la sua E Street Band si rivelò all’Europa. Una serata che entrò subito nella leggenda, e che ora è disponibile in un doppio cd, con più di due ore di musica, intitolato «Hammersmith Odeon London '75» (SonyBmg).
I due cd a prezzo speciale arrivano dopo il successo del box set «30th anniversary Born to run», pubblicato a novembre. Un cofanetto che celebrava la ricorrenza dei trent’anni dal disco che impose al mondo il rocker di Freehold, New Jersey, con dentro la riedizione rimasterizzata del capolavoro, completo di libretto fotografico, e due dvd: nel primo il leggendario concerto londinese all’Hammersmith Odeon che fece scoprire il Boss agli inglesi. Il secondo, «Wings for wheels: The making of Born to run», con interviste e filmati d’archivio inediti.
La pubblicazione del doppio album è ora un altro evento storico per ogni fan di Springsteen, essendo il suo primo concerto a essere disponibile integralmente su cd. Due ore e dieci minuti di musica, con sedici classici: da «Thunder road» a «Tenth Avenue Freeze Out», da «Jungleland» alla mitica «Born to run», e molte altre perle come «Kitty's back» e «Rosalita».
La registrazione viene proposta integralmente rispettando la sequenza originale. «Hammersmith Odeon, London '75» è tra l'altro l'unico concerto integralmente pubblicato ad oggi, legato ai primi venticinque anni di carriera di Bruce e della sua E Street Band.
«La E Street Band salì sul palco dell'Hammersmith Odeon armata di una scaletta di pezzi che le giovani band di oggi sognano - ricorda Springsteen -, fu così che divenne una delle nostre performance leggendarie, finora solo nei ricordi, in qualche frammento di nastro illegale e nelle storie della serie ”io c'ero”...».


Non c’è Laura Pausini, seconda italiana dopo Modugno a vincere un Grammy, ma questa raccolta dedicata agli artisti che hanno avuto la nomination per l’edizione 2006 di quelli che sono considerati gli Oscar della musica è comunque un concentrato di grandissimi. Si parte coi Gorillaz e i Green Day, si prosegue con Mariah Carey e Paul McCartney, si prende il volo con U2, Bruce Springsteen, Stevie Wonder, Sheryl Crow, Coldplay, Rolling Stones, Neil Young... E poi, spulciando spulciando, capita di imbattersi anche nei ragguardevoli John Legend, Seal, Foo Fighters, Beck, Franz Ferdinand... Insomma, tanta buona musica in un cd solo. Praticamente da non perdere.


Qui i cd sono invece quattro, per ripercorrere le ultime stagioni della black music. Si spazia dal nuovo rhythm’n’blue al rap, dal nu-soul a tutto quello che in questi ultimi anni è stato presentato come «urban culture», la cultura urbana dei neri d’America. Nei quattro cd, in vendita anche separatamente, spiccano gli artisti più rappresentativi della nuova generazione della black music e canzoni che hanno ricevuto il consenso del grande pubblico sia negli Stati Uniti che in Europa: da Toni Braxton a Usher, da Mary J. Blige alle Destiny's Child, da Alicia Keys a D'Angelo, da Erykah Badu ai Fugees, da Angie Stone a R.Kelly, da Babyface a Sean Paul. E non manca «mamma» Aretha Franklin...


 

Strano assai. Mancano poche ore a Sanremo e per ora nessuna polemica. Giusto quella polemicuccia della vigilia, quando l’escluso Al Bano ha denunciato: «Mi volevano solo a patto di ricostituire la coppia canora con Romina Power...». Quisquilie.
E poi quelle due cosette. L’invito a Schwarzenegger, subito ritirato dopo che alcuni - fra cui la stessa Victoria Cabello, da cui ci si aspetta l’unico pepe della maratona - hanno parlato delle «mani sporche di sangue» del governatore della California, terra di esecuzioni capitali e non più da sognare. E quella cosuccia ancor più irrilevante di Anna Oxa, che ha tentato di tener segreto fino all’ultimo il testo della sua canzone «Processo a me stessa», nonchè il nuovo look (rifiutando anche la tradizionale foto di gruppo per la copertina di Sorrisi e Canzoni) cui affida tanta parte delle sue fortune. Nessuno invece si volta per strada per quel «affan...» che infioretta un verso della canzone di Dolcenera, «Com’è straordinaria la vita», già data fra le favorite della vigilia.
Niente, insomma, rispetto alle belle polemiche e a volte anche agli scandali del passato. Sarà che questo 56.o Festival di Sanremo - che comincia domani sera, diretta tivù su Raiuno, nell’abituale cornice del Teatro Ariston - capita nel bel mezzo di una campagna elettorale modello 1948, nonchè in un momento mica da ridere pure a livello internazionale. O sarà che il primo Sanremo affidato alla conduzione di un comico, il ruspante ma innocuo Giorgio Panariello, arriva giusto un anno dopo gli irripetibili ascolti-monstre di quello targato Bonolis. Fatto è che stanno tutti tranquilli, aspettando domani sera.
Quando saranno due donne, Nicky Nicolai e la citata Dolcenera, ad aprire il festivalone. La Nicolai, che l'anno scorso ha vinto nella categoria Gruppi, sarà la prima artista a salire sul palco dell'Ariston, per cantare «Lei ha la notte». Stavolta senza il marito jazzista Stefano Di Battista. Poi tocca all’ormai famigerata Emanuela Trane, ventotto anni, pugliese, che per il nome d’arte si è ispirata nientemeno che a una canzone di De Andrè, «Dolcenera», appunto. Lei ha vinto Sanremo Giovani nel 2003, «Music Farm» nel 2005, e ora torna all’incasso nella città dei fiori. Ce la farà? Forse, comunque un posticino sul podio non glielo leva nessuno...
Dopo le due signore, sarà la volta dei primi due gruppi in gara: i Ragazzi di Scampia con Gigi Finizio e la loro «Musica e speranza» (inseriti non si sa bene a che titolo fra i big) e l’israeliana Noa col milanese Carlo Fava e il Solis String Quartet («Un discorso in generale»). Tocca a due uomini: il vincitore morale - per quanto non in gara - dell’anno scorso Povia (canta una filastrocca il cui titolo è già tutto un programma: «Vorrei avere il becco») e il vincitore di qualche anno fa Ron, con «Noi non possiamo cambiare il mondo».
Completeranno la prima serata Simona Bencini (l’ex cantante dei Dirotta su Cuba propone «Tempesta», scritta da Elisa), Spagna («Noi non possiamo cambiare»), i Sugarfree («Solo lei mi dà»), Mario Venuti con gli Arancia Sonora («Un altro posto nel mondo»), Alex Britti («Solo con te»), Luca Dirisio («Sparirò»), la citata Anna Oxa, Anna Tatangelo («Essere una donna»), i Nomadi («Dove si va»), Zero Assoluto («Svegliarsi la mattina»), Gianluca Grignani («Liberi di sognare») e Michele Zarrillo («L'alfabeto degli amanti»).
Sempre nel corso della prima serata saranno presentati i dodici Giovani in gara: Ameba 4, Andrea Ori, Deasonika, Helena Hellwig, Ivan Segreto, L’Aura, Riccardo Maffoni, Simone Cristicchi (più noto di alcuni presunti big...), Virginio, Antonello, Antonino Tiziano Orecchio e Monia Russo.
Ad aprire martedì la seconda serata, sarà invece Anna Oxa, cui seguiranno Sugarfree, Gianluca Grignani, Anna Tatangelo, mario Venuti & Arancia Sonora, Ron, Nicky Nicolai, I Ragazzi di Scampia di Gigi Finizio e Povia. La parola passerà quindi di nuovo ai Giovani. Dopo la pausa «calcistica» di mercoledì primo marzo, la terza serata di giovedì sarà tenuta a battesimo da Simona Bencini, seguita da Nomadi, Alex Britti, Spagna, Zero Assoluto, Michele Zarrillo, Dolcenera, Noa con Carlo Fava & Solis String Quartet, Luca Dirisio. Sarà poi la volta dei Giovani.
Il meccanismo prevede ogni sera delle eliminazioni in ogni gruppo. Dei sei Uomini, delle sei Donne, dei sei Gruppi e dei dodici Giovani in gara, arriverano alla finalissima di sabato soltanto due per ogni raggruppamento. E teoricamente la vittoria finale potrebbe andare anche a un nome passato attraverso la lunga selezione dei Giovani. Un fatto già successo in passato, per esempio con Tiziana Rivale («Sarà quel che sarà», 1983), con i Jalisse («Fiumi di parole», 1997), con Annalisa Minetti («Senza te o con te», 1998).
Intanto, va segnalata la dichiarazione dell’altra donna del Festival di quest’anno, quella più rassicurante, al secolo Ilary Blasi in Totti: «Il treno di Sanremo passa una sola volta nella vita e io l'ho preso - dice la moglie del Pupone infortunato d’Italia, anche lui atteso in riviera, con tanto di stampelle e prevedibile standing ovation -. Mi ci sono proprio buttata...».
Per Panariello e le due signore<WC1> ci potrebbe essere anche un ingresso al Teatro Ariston su un carro fiorito con una barca a vela al centro, trainato da un trattore guidato dallo stesso comico. Insomma, che il circo cominci. Tanto, circo più circo meno...

mercoledì 22 febbraio 2006

Sarà una primavera a tutta musica italiana, quella che aspetta il capoluogo giuliano. Che si consolerà così, dopo essersi persa la possibilità di ospitare la tappa regionale del tour di Lou Reed di cui parliamo qui a sinistra. Prima di decidere per Pordenone, infatti, è stata molto concreta la possibilità di portare l’ex leader dei Velvet Underground al Rossetti. Poi, per motivi probabilmente di maggiore centralità geografica rispetto all’area del Triveneto, la scelta è caduta sulla città friulana.
Ma vediamo quali sono i nomi che arrivano a Trieste. Innanzitutto Nek, che torna sabato 8 aprile, al PalaTrieste, sull’onda del successo dell’album «Una parte di me». Prima dell’idolo delle giovanissime, riflettori sugli artisti che Cooperativa Bonawentura e Teatro Miela hanno chiamato per la seconda edizione della rassegna «Ritratti italiani». Si parte venerdì 3 marzo, in concomitanza col sedicesimo compleanno del Miela, con la proiezione del film «Craj - Domani», di Davide Marengo, con Teresa De Sio e Giovanni Lindo Ferretti. Lo stesso Lindo Ferretti, già leader dei Cccp e poi dei Csi e poi ancora dei Pgr (scusate questa ubriacatura di acronimi, ma tant’è...), sarà protagonista domenica 5 marzo, stavolta in carne e ossa, dello spettacolo «Pascolare parole, allevare pensieri».
Sempre al Miela, venerdì 17 marzo, arrivano gli emiliani Offlaga Disco Pax, in tour dopo l’uscita del primo album, intitolato «Socialismo tascabile (prove tecniche di trasmissione)». Pochi giorni dopo, martedì 21 marzo, è il turno dei sardi Andhira, anche loro reduci dal primo album «Soto il vento e le vele», interessante operazione sul grande patrimonio artistico lasciatoci da Fabrizio De Andrè. Venerdì 31 marzo serata dedicata al progetto di beneficenza Snait, con i gruppi regionali Kosovni Odpadki, Arbe Garbe e Kraski Ovkarji, e i bergamaschi Jabberwocky.
Ultimi tre appuntamenti della rassegna: venerdì 7 aprile i Quintorigo (visti a Sanremo qualche anno fa, appena usciti con l’album «Il cannone»), venerdì 14 aprile il napoletano Marco Parente, venerdì 28 aprile il monologo «Oscillazioni», regia di Vitaliano Trevisan, con Fulvio Falzarano e Roberto Dani.

domenica 12 febbraio 2006

Le quota rosa nel rock ci stanno da un pezzo. Senza bisogno di nessuna legge, di nessun compromesso, di nessun intrallazzo di potere. Le quota rosa nel rock hanno diritto di cittadinanza almeno da quando l’universo femminile è stato capace di evadere dal triste ruolo delle «groupies», quelle ragazze che negli anni Sessanta seguivano le tournèe dei loro idoli, rigorosamente maschi, e dopo aver fatto un po’ di fila fuori dai camerini allietavano le loro altrimenti ruvide serate... Troppo poco, per l’altra metà del cielo. E così sono nate artiste come Joan Baez, Janis Joplin, Joni Mitchell, Carole King, Tina Turner... Sorelle maggiori - o madri - delle affollate generazioni successive: Madonna, ma anche Pat Benatar, Tracy Chapman, Chrissie Hynde, Alanis Morissette, Sheryl Crow, Lauryn Hill, Anastacia...


In Italia, se parliamo di rock al femminile, il discorso parte storicamente da Gianna Nannini. La quarantanovenne artista senese, trent’anni di carriera alle spalle (il primo album uscì per l’appunto nel ’76), non ha fatto in tempo a pubblicare il suo nuovo lavoro, intitolato «Grazie» (Universal), che se l’è visto schizzare al primo posto delle classifiche di vendita. Segno di un’attesa forte da parte del suo pubblico, cui non era evidentemente bastata, due anni fa, con «Perle», la rilettura in chiave acustica dei suoi classici.
«Questo album segna un cambiamento radicale nella mia vita e nella mia musica: dentro c'è tutta l'emozione di una nuova partenza», ha detto la Nannini. Che per l’occasione ha messo da parte elettronica e suoni finti, cercando l’emozione di suonare con un’orchestra. «Sei nell’anima» è stato il singolo apripista (con videoclip ambientato a Bratislava) ed è anche il primo brano del disco. Che vive di poca rabbia (anche se un brano s’intitola «Mi fai incazzare») e molta melodia, molte aperture orchestrali. Dal 19 febbraio in tour, prima data Firenze.
Cambio geografico e generazionale. Lei si chiama Katie Melua, è nata nell’84 in Georgia (ex Unione Sovietica) anche se poi è cresciuta in Irlanda, a Belfast. Ha pubblicato un disco intitolato «Piece by piece» (Edel), che la sta imponendo anche in Italia, dopo che l’album di debutto, «Call off the search», due anni fa ne aveva fatto un piccolo grande fenomeno. Tanto che è stata chiamata «la nuova Norah Jones». Grande voce, che sa passare dai toni forti a quelli vellutati. Suoni raffinati. Buone atmosfere jazz-blues. E bella la cover di «Just like heaven», dei Cure.
A proposito di «nuove Norah Jones». La terza segnalazione al femminile mette in pista il secondo disco di Amalia Grè, intitolato «Per te» (Emi). Nata quarant’anni fa a Ostuni, cresciuta prima a Perugia e poi musicalmente a New York, questa interprete è oggi la punta di diamante del canto jazz di casa nostra. Classica e al tempo stesso moderna, elegante e versatile, la signora usa le parole delle sue canzoni per fare grande musica, il che è privilegio di pochi e per pochi. Una manciata di piccole perle in forma di canzone, fra cui si fanno notare il gioco swing di «Peonia», una ballad fascinosa come «Angel my love», la versione scarna ma originalissima di «Quanto ti ho amato», già sentita nella versione di Roberto Benigni, che ne è anche autore con Nicola Piovani e Vincenzo Cerami...


Peppe Barra è la storia della canzone napoletana moderna. Il suo nuovo album «Matina» (RaiTrade) parte dall’omaggio alla madre Concetta, passa attraverso gli anni con la Nuova Compagnia di Canto Popolare, arriva alla maturità da solista. Mezzo secolo di carriera, sublimato in dieci canzoni. Apertura con «Lisbona», dedicata a chi vuol fuggire dalla martoriata Napoli. Chiusura con una personalissima versione swing di «Pigliate ‘na pastiglia», suonata dal vivo alcuni anni fa proprio durante la serata in ricordo di Renato Carosone. In mezzo i suoni, i colori, la magia ma anche la povertà della capitale del nostro Sud.
«Dolci frutti tropicali» (Edel) è il nuovo disco di Pacifico, che alla terza prova discografica ormai non è più una sorpresa, ma una bella realtà della canzone italiana. Passato dal Premio Tenco nel 2002 alla partecipazione al Festival di Sanremo nel 2004. Ora esce con questi dieci brani, in qualche modo ispirati dal mare d’inverno, «che suscita - dice - una serie di pensieri e in cui la scrittura diventa compagnia». Canzoni vestite di arrangiamenti a tratti scarni ed essenziali, a tratti addirittura imponenti, nelle quali spicca l’attenzione alla ricerca musicale ma anche linguistica. Fra gli ospiti, Samuele Bersani (duetto in «Da qui») e Roy Paci (tromba in «L’altalena»).
Ultima segnalazione per Alberto Traversi Quartet, con il disco «The art of swing - Adventures of Supermodels, Rockstars and old Loungers» (Ar Production). Grandi cover di Cole Porter e di tanti altri maestri del jazz e dello swing, canzoni indimenticabili come «Night and day», «My funny Valentine», «The lady is a tramp», «Fly me to the moon»... La voce di Traversi si muove con sicurezza in mezzo a tutto questo bendiddio. La sua band lo segue nella maniera giusta.


Il concerto che il musicista siciliano ha tenuto nel febbraio 2005 a Firenze, al Nelson Mandela Forum, rivive in questo cd e dvd. Apertura con l’inedita «Come away death», frammento di Shakespeare musicato dal compositore inglese Quilter Roger. Una piccola perla che Battiato propone con approccio ispirato e stile finissimo. Il resto - trattandosi di un concerto del tour seguito alla pubblicazione del disco «Dieci stratagemmi» - ricalca le ultime proposte dal vivo dell’artista. Colpiscono gli accenti orientali di «Le aquile non volano a stormi», l’inquietudine di «Auto da fé», l’omaggio alla Pfm con «Impressioni di settembre», ma soprattutto la magia assoluta di «La cura». Fra autoritratto e monumento...


Pochi sanno che l’inglese James Blunt, una delle rivelazioni pop dell’anno scorso, si trovò nel ’99 a combattere come ufficiale nella guerra in Kosovo. Cose che succedono a chi nasce in una famiglia dalla lunghissima tradizione militare, studia ingegneria per sbaglio, ma poi riesce a... salvarsi la vita grazie alla musica (ha lasciato l’esercito nel 2002). Il dvd propone il meglio delle performance dal vivo dell'ex soldato, un bonus video e un cd registrato dal vivo in Irlanda. Non mancano ovviamente «You’re beutiful» e «High», i suoi brani più noti con «Goodbye my lover» e «Wisemen». È buona musica pop, ben scritta e interpretata con intensità.

Il Teatro Verdi è sempre più nella bufera. E la città, come da sua consolidata tradizione, sonnecchia. Guarda da un’altra parte. Non si rende conto, forse, che l’attuale crisi - economica, gestionale, di immagine - è molto più grave di quelle passate. Perchè stavolta, in gioco, c’è la stessa sopravvivenza di una programmazione lirica degna di questo nome. Il problema dei tagli ai fondi pubblici per lo spettacolo è ovviamente nazionale. Ma produce effetti diversi nelle varie realtà. «Attualmente sto lavorando alla Fenice ne ”I quattro rusteghi” - fa notare il cantante triestino Nicolò Ceriani - e devo dire che qui a Venezia tutta la città si è stretta attorno al suo teatro. Comune, Provincia e Regione hanno integrato le risorse mancanti dopo i tagli al Fus. Ma c’è stata anche una sottoscrizione pubblica attraverso il Gazzettino. A Trieste sembra invece che la crisi non interessi a nessuno. Gli abbonati, molti dei quali anziani, non si rendono conto della situazione...».
«Peccato - conclude Ceriani - perchè il Verdi era fra i migliori teatri italiani. E ora siamo al punto che a qualcuno viene chiesto il ”favore personale” di cantare gratis, pur di far sopravvivere il Festival dell’Operetta...».
«I finanziamenti pubblici sono necessari alla sopravvivenza di un teatro lirico - dice Alessandro Pace, musicista e docente -, e se vengono tagliati bisogna aver l’intelligenza di guardare altrove, al privato, agli sponsor. Di certo è difficile pensare a un’attività ridotta. Meglio una gestione più attenta delle risorse, perchè nomi come quello di Oren portano prestigio, ma anche costi molto alti...».
«Penso che il Verdi soffra di un’eccessiva burocratizzazione - aggiunge Maria Rosa Pozzi, anche lei musicista e docente -, col passare degli anni è diventata una struttura troppo grande, quasi elefantiaca, senza un equilibrio, dove i pareri artistici si intrecciano a quelli tecnici, mentre ognuno dovrebbe fare solo la sua parte. Oren e Pacitti? Si può fare senza...».
Un altro che approva la recente decisione di licenziare direttore musicale e direttore artistico è il compositore Giampaolo Coral: «In un clima di zizzania non si può lavorare. Troppe scelte in questi anni sono state dettate dalla politica. I cui esponenti non capiscono che non basta riempire il teatro: sono necessarie scelte più coraggiose, e invece manca il rinnovamento. Le scelte più recenti non sono all’altezza della grande tradizione del Verdi, che merita una mentalità più moderna...».
Da Milano interviene il critico d’arte Gillo Dorfles: «Sono un vecchio loggionista del Verdi, dove negli anni Trenta non mi perdevo un’opera di Wagner. Soffro per le difficoltà del teatro, che ha una storia da difendere e speravo rilanciato dopo il coraggioso restauro. Sono gravi questi tagli alla cultura, che sembra l’ultima preoccupazione dei nostri governatori e amministratori. E invece la cultura è un settore che potrebbe essere anche redditizio, come sanno bene in Spagna, da dove sono appena tornato...».
«Ma nella lirica non si può pretendere che i conti tornino - fa notare lo scrittore e regista Furio Bordon -, è chiaramente un’attività antieconomica, coperta all’80 o 90 per cento dai sovvenzionamenti pubblici. Basti pensare che una poltrona al Verdi, a prezzo di mercato, senza sovvenzionamenti, dovrebbe costare 500 euro. E una al Rossetti almeno cento. Però una città, un paese hanno bisogno della cultura, senza investimenti culturali una comunità non cresce. È una scelta che va fatta...».
«La crisi è generale - ricorda da Roma il critico cinematografico Callisto Cosulich - i tagli hanno colpito tutti i settori dello spettacolo. Certo che i teatri lirici ne soffrono maggiormente, perchè vivono quasi interamente sui contributi pubblici. E al Verdi, con tutta quella rotazione di sovrintendenti e direttori artistici e musicali, non hanno di certo migliorato la situazione. Ma il teatro lirico è una grande tradizione italiana, amata ed esportata all’estero. È una delle manifestazioni più tipiche dell’arte italiana, che andrebbe curata come le statue di Michelangelo o le rovine di Pompei, e potrebbe avere anche dei ritorni in chiave turistica...».
Una voce dall’interno del teatro è quella di Giulio Ciabatti, direttore di scena e assistente alla regia. «Lavoro al Verdi da vent’anni. Quando ho cominciato c’era la metà dei dipendenti attuali ma si facevano dodici opere per stagione. Oggi vedo un teatro investito da mille polemiche, dove non c’è dialogo e ci si parla per vie legali. Certo, la crisi è nazionale e investe anche gli altri teatri. Ma i tagli potrebbero finalmente portare a una redistribuzione delle risorse, a una riprogrammazione sulla base delle risorse disponibili. In Italia operano tante realtà teatrali, anche piccole, che dovrebbero essere messe nelle condizione di produrre, oltre che ospitare le produzioni altrui».
Secondo Ciabatti, al Verdi ci sono stati troppi cambi ai vertici, è mancata una linea di indirizzo certa. «Ieri c’era il Verdi, oggi c’è il teatro di questo o di quello. C’è troppo desiderio di protagonismo, troppi proclami. Il discorso sulla Mitteleuropa, per esempio, non è mai stato calato nella realtà. Siamo andati in tournèe in Giappone, ma in Slovenia, Croazia, Austria abbiamo avuto solo delle presenze episodiche. È necessario un dialogo col pubblico, con le realtà vicine, serve un rilancio regionale. Confrontarsi con il passato del teatro non significa solo ricordarne le antiche glorie, ma anche l’organizzazione che c’era fino a quindici anni fa...».
«Le figure carismatiche - conclude Ciabatti - non risolvono i problemi di un teatro, che è fatto del lavoro quotidiano di tanta gente e non di singoli eventi. In un teatro serve un manager che sappia fare i conti e un direttore artistico attento a ciò che avviene nel mondo, magari alla ricerca costante di voci nuove, di nuovi talenti. E poi si può rinascere. Guardiamo la Scala: con l’uscita di Muti sono stati risolti molti problemi. Quest’anno sono in crescita di attività e di abbonati...».
L’ultima parola a Claudio Magris: «Premesso che ogni opinione deve fondarsi su una valutazione globale di dati tecnici, che io non possiedo - ignoro ad esempio se e quali tagli siano stati inflitti ad altri teatri italiani, dalla Scala ad altri più modesti ma sempre essenziali nella vita di un Paese - e premesso dunque che la mia opinione è quella irrilevante di un non competente, sono dolorosamente colpito e preoccupato di queste misure».
«C'è una diffusa mania - conclude lo scrittore - di operare tagli finanziari nel campo della cultura, dissennata in generale e non solo per il Teatro Verdi. Sembra sia scattato una sorta di delirio autopunitivo nel tagliare tutto ciò che non pare avere un'utilità immediata. Il Teatro Verdi è un'istituzione centrale di Trieste. L'idea che possa chiudere o essere di fatto smantellato è un disastro».

giovedì 9 febbraio 2006

Le prime parole dopo il trionfo? «È la più grande emozione della mia vita, è stata una lunga corsa durata tredici anni. Ho vinto il mio campionato del mondo partendo dalla panchina. Dedico questo premio al mio Paese, al mio pubblico, alla mia famiglia. Non pensavo di poter provare una gioia così profonda: quando me lo hanno detto, mi sono mancate le ginocchia...».
Laura Pausini, trentadue anni a maggio, seconda italiana dopo Domenico Modugno, premiato nel lontano 1958, a vincere il Grammy Award, si gode il meritato trionfo a quelli che tutti considerano gli Oscar della musica. Il suo «Escucha», versione per il mercato latinoamericano dell’album «Resta in ascolto», pubblicato in quaranta paesi, in italiano e in spagnolo, è stato considerato il miglior album latino pop. Una consacrazione che arriva pochi mesi dopo il premio per il migliore album pop di un'artista femminile ai Grammy latini.
Sincera e per nulla scaramantica, l’interprete nata a Solarolo, provincia di Ravenna, prima di partire per gli States aveva detto: «Vado a Los Angeles per vincere». E così è stato.
Una carriera che somiglia a una fiaba, la sua, cominciata tredici anni fa, di questi giorni, sul palcoscenico del Festival di Sanremo. Con lei nemmeno diciannovenne, sorridente e commossa, dopo il trionfo fra i Giovani con «La solitudine»...
«Ricordo bene quel momento - ci diceva un anno fa, alla vigilia di un concerto al PalaTrieste che poi fu purtroppo annullato -, era un sogno che cominciava a diventare realtà. Ma allora, anche nella più rosea delle aspettative, non mi aspettavo tutto quello che ho avuto. Tante volte mi sono chiesta se ero all’altezza, se me lo meritavo...».
«Quando ero piccola non sognavo nemmeno di fare la cantante. Sono sempre stata abituata a credere nelle mie emozioni, ai miei desideri, ma sono sempre stata molto realista. Poi ho sognato di andare a Sanremo e il sogno non si è mai spinto oltre a quello. Poi ho vinto, poi mi hanno chiamato in Olanda, poi tre mesi dopo ero prima in classifica in molti Paesi d'Europa. Faccio ancora molta fatica a definire tutto questo e a spiegarmi perchè sia accaduto proprio a me...».
Ieri, da Los Angeles: «La dedica è per la mia amata Italia, questo è un Grammy vinto per la mia terra. Vedo questa vittoria come un'occasione per sdebitarmi, per rendere loro, agli italiani, in parte quello che loro hanno regalato a me. Questa per me è anche una rivincita, un momento di orgoglio e di grande soddisfazione personale, considerato il fatto che ho appena finito un disco importante con un nuovo team ed è un momento in cui mi viene anche da pensare a quelle persone che agli inizi scommettevano che la mia carriera sarebbe finita dopo il secondo Sanremo. Invece eccomi qui...».
Fra i mille messaggi di congratulazioni, ieri a Laura Pausini è arrivato anche quello del Presidente Ciampi: «Ho accolto con soddisfazione la notizia della sua vittoria ai Grammy Awards. Questo riconoscimento testimonia il valore della musica leggera italiana e di una delle sue più giovani e rappresentative interpreti».