domenica 23 maggio 2021

BOB DYLAN 80 ANNI / da Articolo 21

 Hey, mister Tambourine, il calendario dice che stavolta le candeline sono ottanta, ma pare che i tempi stiano cambiando un’altra volta, proprio come quand’eri ragazzo. O forse è solo un’impressione. Di certo c’è che Robert Allen Zimmerman (Duluth, Minnesota, 24 maggio 1941, genitori ebrei ucraini, lontane origini turche e lituane, cresciuto nel mito di Woody Guthrie), dopo aver legalmente cambiato il nome in Bob Dylan nell’agosto 1962, in tutti questi decenni ha cambiato anche la storia della musica, della cultura, del costume del Novecento.

Ora avrà anche un suo museo, il Bob Dylan Center con sede a Tulsa, Oklahoma: aprirà i battenti il 10 maggio 2022 e sarà il deposito di oltre 100.000 “tesori culturali esclusivi”, che verranno periodicamente esposti al pubblico. Nella collezione sono incluse registrazioni edite e inedite, film di spettacoli e performance, fotografie e manoscritti.

Il centro sarà situato nel quartiere delle arti di Tulsa, vicino a un’attrazione già popolare, guarda caso il Woody Guthrie Center. Nell’edificio troveranno spazio una sala di proiezione per documentari e concerti, alcuni inediti; uno studio di registrazione in facsimile, “dove i visitatori sperimenteranno com’era essere presenti a una delle storiche sessioni di registrazione di Dylan”; una cronologia multimediale dell’intera vita dell’artista; una mostra a rotazione di materiali d’archivio. Una sezione del museo, la Columbia Records Gallery, sarà dedicata alle “immersioni profonde” in alcune delle sue canzoni più amate. L’archivio di Bob Dylan è stato acquistato nel 2016 dalla fondazione del petroliere George Kaiser che nel 2011 aveva acquistato anche le carte – ci risiamo – di Woody Guthrie.

Di celebrazione in celebrazione, Dylan giunge a un’età che per quasi tutti è quella della pensione, dell’appagamento, dei bilanci, delle pantofole. Non per lui, non per l’eterna anima errante sempre in giro per il mondo, sempre in cerca di un pubblico dinanzi al quale strapazzare vecchi classici fino a renderli a volte irriconoscibili.

Tracce di grandezza, di genialità anche in questa apparentemente incomprensibile bulimia di spettacoli, di genti e luoghi nuovi, di emozioni da far rinascere. Anche perchè Dylan poteva benissimo chiudere baracca e burattini anche vent’anni fa, che il suo segno nella storia della musica e della letteratura del Novecento l’aveva già lasciato.

Per fortuna non è andata così, e altra bellezza è sgorgata dalla sua creatività. Altre canzoni, altri dischi sono arrivati. Alcuni non fondamentali, altri all’altezza del mito. Ci piace sempre ricordare “Modern times”, che al di là della citazione chapliniana dei “tempi moderni” suonava come una garbata presa in giro ma anche una netta presa di distanze dal nostro presente così brutto, volgare e confuso. Come dire: in questo caos, in mezzo a questa follia, l’unica salvezza è il ritorno alla semplicità, alle origini, alle radici.

Mezzo cowboy e mezzo signore del sud degli States, dopo essersi tolto lo sfizio di fare il dj e di pubblicizzare biancheria intima e automobili, Dylan con quel disco si rimise al centro della scena con musiche senza tempo, fra blues e honky tonk, fra jazz e country, fra classici rock’n’roll e ballate, fra valzer e appassionati ritratti della classe operaia e ancora velati messaggi religiosi.

Canzoni ricche di suoni scarni, semplici, essenziali, puliti. Interpretate con quella voce roca che sembra in grado di scolpire la roccia, che da tanto tempo indica la strada, la rotta, canta le nostre contraddizioni, la confusione e il disincanto di questi scassatissimi “tempi moderni”.

Nel 2016, dopo l’Oscar, il Pulitzer e svariati Grammy, e dopo varie candidature al Nobel che già erano parse delle provocazioni, gli accademici di Stoccolma finalmente gli assegnano il Premio con l’iniziale maiuscola per la letteratura: apriti cielo, fra proteste e polemiche, infine messe a tacere da un plauso non unanime ma convinto da parte di moltissimi. Che passarono sopra anche alla scelta, giudicata irrispettosa dai più, di non presentarsi alla cerimonia di consegna del premio per ricevere il quale tanti letterati e artisti si farebbero tagliare la mano destra…

Nel dicembre scorso – con il Never Ending Tour fermo causa pandemia, ultimo concerto finora nel 2019 con oltre tremila show dal 1988 in poi – Bob Dylan sottoscrive un accordo con la Universal Music per la vendita dei diritti di oltre trecento sue canzoni.

Ora festeggiamo gli ottant’anni di un artista senza il quale la musica e la cultura e dunque anche il mondo oggi sarebbero diversi. Happy birthday, mister Tambourine. Geniale ed enigmatico come solo i grandissimi.

sabato 22 maggio 2021

ADDIO A GIULIANO SCABIA / da Art21

 La rivoluzione basagliana non sarebbe stata la stessa, senza i colori, la fantasia, l’estro, la genialità di Giuliano Scabia (Padova, 18 luglio 1935 - Firenze, 21 maggio 2021), scomparso a nemmeno 86 anni nella sua casa fiorentina. 

Scrittore, poeta, filosofo, autore teatrale, docente universitario, il suo percorso si incrociò negli anni Settanta con i “matti” del manicomio di San Giovanni, a Trieste, dove Franco Basaglia e altri innovatori visionari come lui stavano scardinando l’istituzione manicomiale. Con loro e per loro inventò e costruì Marco Cavallo, il grande cavallo azzurro di cartapesta che divenne simbolo di libertà, da portare prima per le strade del capoluogo giuliano e poi in giro per l’Italia e il mondo.

Ma Scabia, inventore del Teatro vagante, non fu soltanto “geniale matto fra i matti”. È stato anche uno dei personaggi più importanti della scena teatrale e culturale italiana. Di più: uno dei maestri del nuovo teatro italiano, dal Gruppo 63 in poi, preferendo le strade, le scuole, le fabbriche, le periferie, persino i boschi ai velluti e agli ori dei palcoscenici istituzionali. Sublime cantastorie, uno dei suoi personaggi è stato Nane Oca, protagonista di vari romanzi. Al Dams di Bologna è stato per trent’anni docente di drammaturgia ma anche guida di almeno un paio di generazioni di poeti, scrittori, attori, teatranti, clown...

“La poesia - ricordano la moglie Cristina e la figlia Aurora - è stata sempre l’asse portante del suo operare, volto a indagare, con il “piede”, il ritmo del corpo, il nostro stare sulla terra, l’interrogarci sulle grandi questioni della vita e della morte, con un sorriso, un cavallo di cartapesta e molta delicata ironia, che conosce le seduzioni del mondo e delle ideologie e cerca di tenersi attaccata, nei suoi meravigliosi voli, alla terra e alle persone. Con un cavallo o un albero fiorito di cartapesta ogni anno portava un’inedita Operina dell’Anno Nuovo ai suoi amici”.

Fra questi, lo psichiatra Peppe Dell’Acqua, erede di Basaglia assieme a Franco Rotelli, testimone e protagonista di quegli eroici anni triestini. Che lo ricorda a modo suo, così: “L’altro giorno ho dovuto dire a Marco Cavallo che Giuliano stava proprio male. Cristina e Aurora mi avevano pregato di informarlo e di dirgli che non erano sicure che Giuliano riuscisse a superare la notte. Marco Cavallo ha nitrito di dolore. Un nitrito lamentoso che non avevo mai sentito prima. Ai nitriti di rabbia, di gioia ci sono abituato. Ha cominciato a scalpitare, a girare nervosamente in tondo. “Andrò a Firenze, e devo arrivare in tempo”. Ho cercato di dissuaderlo ma lui, testardo come sempre, ha chiamato il suo amico Ippogrifo per farsi guidare in una rotta, la più breve possibile”.

Ancora Dell’Acqua: “E così sono partiti, hanno superato l’Appenino e Marco Cavallo per tutta la notte è stato vicino a Giuliano, che sicuramente ha sentito la sua presenza. Quando è venuto il momento, Giuliano, allegro come sempre, è saltato in groppa al cavallo. Il cavallo azzurro, di nuovo è volato in alto, in alto , gioioso e allegro col suo amoroso amico poeta. Ciao, Giuliano Marco Cavallo...”.



martedì 18 maggio 2021

BATTIATO A TRIESTE / da Fegiz Files, forum Corriere

 Ho avuto il privilegio di conoscere Franco Battiato nei primi anni Settanta, a Trieste, quando veniva a suonare nel parco del manicomio di San Giovanni, agli albori della rivoluzione basagliana, e alle marce antimilitariste che i radicali di allora organizzavano da Aviano, base militare statunitense, al capoluogo giuliano. Poi tanti dischi, concerti, incontri, interviste... Sempre incuriosito e affascinato dal suo pensiero, dalla sua arte, dalla sua personalità originalissima. Ha fatto tutto: elettronica e avanguardia, pop e una nuova forma di canzone, e ancora regia, lirica, pittura, meditazione, ma soprattutto sempre grande musica, senza mai perdere di vista il mondo attorno. Mi piace ricordarlo con quei versi de “La cura” che somigliano a una promessa: “Ti salverò da ogni malinconia, perché sei un essere speciale, ed io avrò cura di te. Io sì, che avrò cura di te...”.


GIORNALISTI IN PIAZZA / da newsletter Ordine giornalisti Fvg

 


I giornalisti tornano in piazza. Lo fanno, nel rispetto della normativa anti Covid, giovedì 20 maggio davanti a Montecitorio, a Roma, dove alle 10 del mattino è convocato il Consiglio nazionale della Fnsi.Lo fanno perché, come si è già detto tante volte, la difesa dell'informazione di qualità richiede interventi urgenti sul mercato del lavoro, per contrastare con forza il precariato dilagante, per assicurare una retribuzione dignitosa a migliaia di giornalisti privi di diritti e di tutele. Lo fanno per chiedere la messa in sicurezza dell'Inpgi, l’Istituto nazionale di previdenza dei giornalisti italiani, per il quale si avvicina l’ultimo giro di lancette prima del commissariamento. Lo fanno per chiedere una nuova legge sull'editoria, necessaria per accelerare la transizione al digitale e affrontare le sfide che ciò comporta.

Sono costretti a farlo, verrebbe da dire, e qui la questione si allarga fino ad abbracciare le fondamenta stesse della nostra democrazia, perché tutto tace dal fronte delle istituzioni, del governo, dei partiti. Unica eccezione: il presidente Mattarella, che da mesi richiama tutte le volte che gli è possibile la centralità democratica e costituzionale dell’articolo 21 della nostra carta fondativa.

Vabbè la situazione emergenziale che stiamo vivendo da oltre un anno a causa della pandemia, ma non possiamo non richiamare ancora l’attenzione del governo e delle istituzioni sulle difficoltà strutturali dell’informazione e sull’assenza di politiche per il lavoro.Non è più rinviabile, come segnala la Fnsi, un patto con le istituzioni per dare piena attuazione all’articolo 21 della Costituzione. 

“È necessario - ha scritto la giunta del nostro sindacato unitario - rimettere al centro del dibattito pubblico i temi che riguardano l’informazione nel nostro Paese. Il Piano nazionale di ripresa e resilienza non assegna la giusta attenzione a chi fa informazione, attività essenziale e fondamentale per la tenuta delle istituzioni democratiche e far crescere un’opinione pubblica matura. Nessun segnale concreto dal governo e dal parlamento giunge su questioni fondamentali che riguardano la libertà, i diritti, la dignità del lavoro di chi ogni giorno si sforza di aiutare i cittadini a conoscere e a comprendere”.

Va dunque riattivato subito il tavolo politico per salvare l’Inpgi, che si è fatto carico negli anni - oltre che dei trattamenti pensionistici - anche degli ammortizzatori sociali dei giornalisti, sostenendo il settore dell’editoria nella crisi più profonda che abbia mai attraversato. L’Inpgi (ultimo bilancio, meno 242 milioni) oggi ha una riserva tecnica per pagare due annualità delle attuali pensioni - avverte il cda dell’istituto- e una liquidità che si sta velocemente consumando. E altri prepensionamenti sarebbero in arrivo, con la conseguenza di diminuire ancora le entrate e aumentare le uscite: meno contributi versati, più pensioni da pagare.

Ma non c’è soltanto la drammatica situazione dell’Inpgi. I temi del rafforzamento del mercato del lavoro, dell’equo compenso per gli autonomi, del contrasto alla precarietà dilagante sembrano scomparsi dal dibattito e dall’agenda politica. Le proposte di legge sulla cancellazione del carcere per i giornalisti e per il contrasto alle querele bavaglio sono ferme in parlamento. E non sembra esserci alcuna volontà di procedere alla riforma della Rai, sottraendone finalmente la governance al controllo del potere esecutivo. Per tutti questi e probabilmente tanti altri motivi, i giornalisti italiani scendono di nuovo in piazza, giovedì davanti alla Camera, per far sentire la propria voce. Prima che sia troppo tardi.

Carlo Muscatello, presidente Assostampa Friuli Venezia Giulia

ADDIO FRANCO BATTIATO / da Articolo 21

 di Carlo Muscatello

Se n’è andato Franco Battiato. L’artista siciliano si è spento nella sua residenza di Milo. Era malato da tempo. Nato a Jonia (Riposto) il 23 marzo del 1945, aveva 76 anni. Oltre mezzo secolo di carriera, dall’arrivo a Milano dove lo aiutò Giorgio Gaber al debutto a un Disco per l’estate del 1969 (“Bella ragazza”) e all’avanguardia elettronica dei primi anni Settanta (“Fetus”, “Pollution”...), dalle tentazioni contemporanee (“Clic”, “M.lle le gladiator”) a quel tris di album che, a cavallo fra i Settanta e l’alba degli Ottanta, lo riporta al pop e quasi inventa una nuova forma di canzone: “L’era del cinghiale bianco”, “Patriots” e soprattutto “La voce del padrone”, primo album italiano a vendere nel 1981 più di un milione di copie.

Poi, in questi quarant’anni, non si è fatto mancare nulla: regia, lirica, pittura, meditazione, ma soprattutto sempre grande musica, senza mai perdere di vista il mondo attorno.

Nel 1991, alla vigilia della stagione di Mani pulite e delle stragi mafiose, scrive “Povera patria" («schiacciata dagli abusi del potere, di gente infame che non sa cos'è il pudore... tra i governanti, quanti perfetti e inutili buffoni...»). In anni drammatici la parte sana del Paese si aggrappava alla speranza di un cambiamento. E l'artista scrisse quella splendida - e al tempo stesso dolente - invettiva contro l'arroganza del malgoverno, che si sperava non avesse bisogno di un seguito.

Il seguito - purtroppo e per fortuna - è arrivato. Purtroppo perchè è il segno che la situazione è, se possibile, ancora peggiore di quella che vivevamo all'alba degli anni Novanta. Per fortuna perchè almeno una sdegnata voce si è sempre levata, fra i cosiddetti artisti, per denunciare la decadenza della vita pubblica. Con la complicità dei tanti che preferiscono un silenzio indifferente.

Anni dopo cantò: «Uno dice che male c'è a organizzare feste private con delle belle ragazze per allietare primari e servitori dello stato? Non ci siamo capiti: e perché mai dovremmo pagare anche gli extra a dei rincoglioniti...?». 
Ancora: «Che cosa possono le leggi dove regna soltanto il denaro? La giustizia non è altro che una pubblica merce. Di cosa vivrebbero ciarlatani e truffatori se non avessero moneta sonante da gettare come ami fra la gente...». 
Versi quanto mai espliciti da "
Inneres auge" (qualcosa come "l'occhio interiore" in tedesco), brano che dava il titolo a un album del 2009, atto d'accusa contro una società malata, dove morale ed etica sono valori ormai fuori moda, dove il denaro è l'unico metro di giudizio. Situazione che Battiato aveva lucidamente previsto in tempi non sospetti. Ricordate "Bandiera bianca" (da "La voce del padrone", dell'81)...? Ammoniva: «siamo figli delle stelle e pronipoti di sua maestà il denaro, per fortuna il mio razzismo non mi fa guardare quei programmi demenziali con tribune elettorali...». Insomma, gli anni passano ma il quadro non cambia. Semmai peggiora.

Ho avuto la fortuna di conoscere Franco Battiato nei primi anni Settanta, a Trieste, quando veniva alle marce antimilitariste che i radicali di allora organizzavano da Aviano, base militare statunitense, al capoluogo giuliano. Poi tanti dischi, concerti, interviste... Sempre incuriosito e affascinato dal suo pensiero, dalla sua arte, dalla sua personalità originalissima. Mi piace ricordarlo con quei versi de “La cura” che somigliano a una promessa: “Ti salverò da ogni malinconia, perché sei un essere speciale, ed io avrò cura di te. Io sì, che avrò cura di te...”.



venerdì 7 maggio 2021

IN PIAZZA PER SALVARE L’INFORMAZIONE

 Si riapre una stagione di lotta per porre al centro dell’agenda politica l’informazione, intesa come lavoro dignitoso dentro e fuori le redazioni e tutela della sua autonomia e indipendenza, che passa attraverso la messa in sicurezza degli enti di categoria, a partire dall’Inpgi.

Il primo appuntamento è fissato giovedì 20 maggio, alle 10, in piazza Montecitorio, a Roma, nel rispetto delle norme sul distanziamento e di prevenzione del Covid, con la convocazione del Consiglio nazionale della Fnsi: giornalisti in piazza dunque per richiamare l’attenzione del Governo e delle istituzioni sulle difficoltà strutturali dell’informazione e sull’assenza di politiche per il lavoro.

La Giunta esecutiva della Fnsi, riunitasi ieri, considera ineludibile un patto con le istituzioni per dare piena attuazione all’articolo 21 della Costituzione. È necessario rimettere al centro del dibattito pubblico i temi che riguardano l’informazione nel nostro Paese.

L’impostazione che sta prendendo corpo è inaccettabile perché rischia di trasformare il passaggio al digitale in una fase di indebolimento e marginalizzazione dell’informazione di qualità e di distruzione di posti di lavoro. A questa prospettiva i giornalisti italiani hanno il dovere di opporsi, chiamando il Governo, a cominciare dal suo presidente, Mario Draghi, a una presa di coscienza e a un confronto serrato, esattamente come avvenuto per altri settori, che restituisca all’informazione e al lavoro di chi fa informazione la centralità e il ruolo previsti dalla Costituzione.

Il Piano nazionale di ripresa e resilienza non assegna la giusta attenzione a chi fa informazione, attività essenziale e fondamentale per la tenuta delle istituzioni democratiche e far crescere un’opinione pubblica matura. Nessun segnale concreto dal Governo e dal Parlamento giunge su questioni fondamentali che riguardano la libertà, i diritti, la dignità del lavoro di chi ogni giorno si sforza di aiutare i cittadini a conoscere e a comprendere.

Le proposte di legge sulla cancellazione del carcere per i giornalisti e per il contrasto alle querele bavaglio sono ferme. I temi del rafforzamento del mercato del lavoro, dell’equo compenso per gli autonomi e del contrasto alla precarietà dilagante sono scomparsi dal dibattito e dall’agenda politica. Non c’è alcuna volontà di mettere mano alla riforma della Rai, sottraendone la governance al controllo del potere esecutivo.

Nel frattempo, il Governo si prepara a destinare altre risorse pubbliche al sostegno del pensionamento anticipato dei giornalisti, aggravando ulteriormente la situazione finanziaria dell’Inpgi senza adottare gli interventi e le misure strutturali necessarie per la messa in sicurezza dell’Istituto.

L’informazione italiana ha bisogno di una nuova legge di sistema per affrontare in maniera compiuta la delicata fase di transizione digitale, valorizzando il lavoro di quanti oggi svolgono la propria attività su una molteplicità di piattaforme.