mercoledì 24 novembre 2010

PAOLA MILETICH

C'è una triestina che lavora con Bruno Vespa sin dalla prima puntata di ”Porta a porta”, dunque dal gennaio ’96. E che da cinque anni collabora con il giornalista anche alla stesura dei suoi vendutissimi libri, compreso il recente ”Il cuore e la spada”.</DC> Lei si chiama Paola Miletich, da vent’anni vive a Roma (ma ha ancora casa a Trieste, dove torna spesso d’estate) e lavora alla Rai con contratti di collaborazione.

«Ho cominciato nel ’91 - spiega la giornalista, madre romana e padre lussignano, liceo classico e facoltà di legge frequentati a Trieste -, con il programma ”Il coraggio di vivere”, che veniva realizzato a Napoli per il pomeriggio di Raidue ed era dedicato al disagio sociale. Sono partita come assistente ai programmi, una sorta di factotum. Ora il contratto dice ”programmista regista”, mi sono specializzata negli approfondimenti».

Vespa?

«Mi offrirono di lavorare per quello che doveva essere un esperimento: incrementare la seconda serata di Raiuno (su Raidue andava già in onda Carmen Lasorella) con un programma di approfondimento giornalistico. Il direttore di Raiuno era Brando Giordani. All’inizio eravamo in pochi e avevamo solo due serate per settimana. I mezzi erano talmente ridotti che noi stessi facevamo anche il pubblico in sala. Poi il programma è cresciuto, e siamo ancora qua».

La prima impressione di Vespa?

«Persona di grande cortesia. Veniva dalla direzione del Tg1, all’inizio non riuscivo nemmeno a dargli del tu. Mi rendevo conto che chiedeva cose normali per il Tg1, ma che all’inizio erano fuori dalla nostra portata».

Il suo lavoro in che cosa consiste?

«Preparare dossier e approfondimenti, schede sugli ospiti, interviste, servizi in esterna. E poi le cosiddette sorprese, i servizi sul privato che sono rimasti storici: Amato che gioca a tennis con Panatta, il risotto di D’Alema, il cane di Buttiglione, la canzone della Vanoni che commuove Dini perchè gli ricorda l’incontro con sua moglie...».

Insomma, li ha incrociati tutti.

«Diciamo tanti protagonisti della nostra vita politica e pubblica. Da Prodi (protagonista di quella storica prima puntata del ’96) a Berlusconi, da Andreotti ad Agnelli, da Pavarotti a Valentino, da Terzani al cardinal Martini».

Un aneddoto?

«Mi torna sempre in mente Oriana Fallaci, nel programma ”Il coraggio di vivere”. Ero agli inizi, intimidita dalla fama e dal carattere del personaggio. Dovevo farle firmare una liberatoria, lei chiese una coppa di champagne, si perse del tempo, alla fine lei non firmò».

Come finì?

«Che quando ci trovammo in mano un suo lungo monologo sul Vietnam, che andava per forza di cose tagliato (il programma era registrato), fu intavolata una lunga e complicata trattativa. Nella quale, non avendo firmato ancora nulla, lei ebbe l’ultima parola».

Le pesa il fatto di lavorare dietro le quinte, di non apparire?

«Anzi. Per carattere preferisco così. Fra l’altro all’inizio noi non dovevamo mai apparire nei servizi, né in video né in voce. Era ”lo stile” del programma. La cosa si è un po’ attenuata col tempo. Molti ora appaiono in video. Io sono rimasta forse la sola a non apparire. Ho ceduto solo sulla voce: un tempo io scrivevo testi che altri leggevano. Ora qualche volta me li leggo da sola».

E ora lavora anche ai libri di Vespa.

«È accaduto che nel 2005, ai tempi della malattia e poi della morte di Papa Wojtyla, seguimmo l’evento con varie puntate. Avevo ormai un mio dossier sull’argomento, che fu molto apprezzato da Vespa. Stava lavorando anche a ”Vincitori e vinti”: fu il primo libro a cui ho collaborato».

Nell’ultimo, ”Il cuore e la spada”, c’è molta Trieste.

«Sì, Vespa ha una particolare sensibilità per la storia delle nostre terre. Mi è capitato di intervistare Andreotti sull’argomento: anche lui è convinto che Trieste, alla fine della guerra, non fosse in cima ai pensieri di De Gasperi...».

Molti non amano Vespa.

«È un grande professionista. Ha inventato un genere: a fine anno i suoi libri sono un riassunto della cronaca politica di dodici mesi, con retroscena che altri non hanno. In una contaminazione fra storia e cronaca politica».

domenica 21 novembre 2010


GIORGIO BOCCA

"Ma lei lo sa per chi sono oggi maggiormente in pena?»

Dica.

«Per i giovani. Per questi giovani che hanno una grande scalogna: crescere in questi anni e in questo Paese, il che non promette nulla di buono. Io sono stato fortunato. Ai tempi della guerra partigiana avevamo grandi speranze. Con il senno di poi, e a guardare i risultati, forse si trattava di illusioni. Ecco, posso dire che ho vissuto di illusioni per gran parte della mia vita. Ma almeno mi hanno aiutato ad andare avanti. Oggi, invece, questi ragazzi...».

Giorgio Bocca riflette dal telefono (fisso) della sua casa milanese. Lo spunto è la pubblicazione del suo nuovo libro ”Fratelli coltelli, 1943-2010 l’Italia che ho conosciuto” (Feltrinelli, pagg.332, euro 19): una raccolta di suoi scritti, pubblicati su libri e giornali, che abbracciano la bellezza di 67 anni di storia. Si parte infatti dalla caduta del fascismo e si arriva ai giorni nostri, dunque alla vigilia - forse - della caduta di Berlusconi. Materiale già edito, dunque, tranne l’ultimo capitolo, intitolato ”Il berlusconismo”.

«Quelle pagine finali - spiega Bocca, novant’anni compiuti l’estate scorsa, lucidissimo decano del giornalismo italiano - le ho scritte per l’occasione. Non perchè non avessi qualcosa di già pronto. Sul ”piccolo Cesare” ho già scritto libri e tantissimi articoli. È che, trattandosi di argomenti di stretta attualità, ho dovuto fare una sintesi».

Nella quale non ci dice se siamo o no a fine impero.

«Penso che Berlusconi se la caverà anche stavolta, supererà questa crisi. Ma i suoi difetti sono talmente grandi che prima o poi sarà costretto ad andarsene. Lo scrivo nelle righe finali: fra Berlusconi e la democrazia parlamentare nata dalla guerra di Liberazione c’è incompatibilità di carattere. E ora di certo una fase è terminata».

Lei ha lavorato nelle sue tv. Poi cos’è successo?

«Ho capito l’uomo. Lui è uno che non perdona chi si mette sulla sua strada. È un bugiardo nato, che crede di risolvere tutto con le promesse, con la menzogna. Ricorda per davvero Mussolini, che almeno era colto. Per lui invece esiste solo il denaro, e col denaro pensa di poter comprare tutto e chiunque. Ma non è così».

L’evoluzione di Fini è sincera?

«Non credo. Tutto è possibile, ma mi sembra strano che l’ex pupillo di Almirante ed ex segretario del Msi diventi di colpo democratico. Stiamo parlando di un signore che, a distanza di pochi anni, prima ha detto che Mussolini è stato un grande statista e poi si è accorto che il fascismo era il male assoluto. C’è qualcosa che non quadra».

E allora cos’è successo?

«Fini è intelligente, ambizioso e arrivista. Ha capito, tardi, che stando dietro Berlusconi il suo turno non sarebbe mai arrivato. Ha capito che la vecchia compagnia non gli avrebbe permesso di fare carriera e... si è messo di traverso. Cosa che l’altro, come si diceva, non sopporta».

Lei all’inizio aveva visto di buon occhio la Lega.

«Perchè avevano eliminato il vecchio Pci e la vecchia Dc, che stavano soffocando la politica italiana. Ai suoi esordi la Lega sembrava quasi una ”nuova sinistra”, e infatti molti del vecchio elettorato del Pci continuano a votarla. Anche ora che si sono dimostrati per quel che sono: modesti e opportunisti. Bossi è uno di mezza tacca, si riempie la bocca di federalismo, ma dietro c’è il nulla. E i suoi puntano ai soldi, alle cariche, alle auto blu. Come tutti gli altri».

Al centrosinistra cosa manca?

«Beh, con tutto il rispetto per Bersani, innanzitutto un leader. Ma forse anche un’intera classe dirigente. Nuova e credibile. Quelli che ci sono adesso stanno lì da troppi anni, e a forza di rincorrere il centro sono diventati simili al berlusconismo. Fra l’altro non capiscono che così continueranno a perdere. Siamo l’unico caso al mondo in cui chi sta al governo è in crisi e il maggior partito dell’opposizione non se ne avvantaggia, anzi. E poi, su ’sta storia di guardare sempre al centro: se uno deve scegliere fra l’originale e la copia, si sa chi sceglie».

Pisapia?

«Ha vinto le primarie milanesi perchè è un politico di sinistra. Una persona autentica. Gli altri concorrevano per arrivismo politico, o perchè gliel’aveva chiesto qualcuno. Lui ha fatto arrivare alla gente un messaggio di sincerità. Per questo Pisapia e Vendola risultano oggi più credibili, perchè Bersani e i vertici del Pd sono troppo accondiscendenti nei confronti della destra. Hanno solo il senso della convenienza».

Il Paese intanto ha perso il treno della modernizzazione.

«Colpa di una classe dirigente che non è solo quella politica. La destra italiana è priva di etica e di senso dello Stato. Ma pensiamo un attimo a personaggi come Marchionne. Per lui e quelli come lui l’unica cosa che conta è la produzione, il profitto. Nulla per la crescita democratica e civile del Paese. La vicenda Fiat è illuminante: è diventata grande ed è sopravvissuta alle tante crisi con i soldi di tutti gli italiani, e ora che gli fa comodo prende baracca e burattini e se ne va in Serbia o in Polonia. Ma si può?»

Collettivizzare le perdite, privatizzare i guadagni: vecchia storia.

«Certo, ma è singolare che io debba aspettare le parole di Benedetto XVI per sentire che serve una revisione profonda del modello di sviluppo globale, che servono politiche contro la disoccupazione, che la crisi va insomma presa molto sul serio».

Lo stato dell’informazione?

«Pessimo. Abbiamo editori che pensano solo a tagliare. E giornalisti che hanno perso il gusto di questo lavoro. Il risultato sono giornali che, invece di informare il Paese sullo stato dell’economia, della scienza, della ricerca, sono pieni di gossip, spiate dal buco della serratura, scambi di accuse. Con alcuni giornali che sono ormai veri e propri organi di diffamazione, usati per trame di governo e di potere».

Bocca, diceva che da ragazzo aveva grandi speranze...

«Certo, il cammino sembrava in salita, il 25 aprile era per noi l’inizio della nuova democrazia e di un futuro luminoso. Oggi penso davvero che la democrazia sia in pericolo, non perchè rischiamo di tornare al regime, ma perchè questa democrazia non funziona. Abbiamo un ceto politico che si occupa di affari, di sistemarsi, di spendere i soldi della collettività, dello Stato».

Qualche responsabilità l’avremo anche noi che li votiamo.

«Certo. Gli italiani sono pessimi protagonisti da un punto di vista sociale. Silone diceva: gli inglesi possono essere democratici, gli svizzeri anche, gli italiani no. Forse abbiamo alle spalle troppa storia, troppi cambiamenti che ci hanno sempre costretti ad arrangiarci. Siamo scettici sulle cose nuove. Chissà, forse il virus di cui soffre l’Italia è la vecchiaia».

Siamo un paese per vecchi.

«Già. E torniamo alla pena che mi fanno oggi i giovani...».

lunedì 15 novembre 2010

DISCHI  - VASCO BRONDI

E' tornato Vasco Brondi, quello che si cela dietro la sigla Le Luci della Centrale Elettrica. Due anni fa ha sconvolto molti con l’album d’esordio ”Canzoni da spiaggia deturpata” (Premio Tenco per la miglior opera prima). Il suo secondo album - tradizionalmente il più difficile - s’intitola ”Per ora noi la chiameremo felicità” (La Tempesta/Venus) e nasce da un verso di Leo Ferrè: «C'è una sua frase - spiega il ventiseienne cantautore ferrarese - che mi ha colpito. La disperazione è una forma superiore di critica, per ora noi la chiameremo felicità. Ecco... il titolo arriva da lì».

Chi ha amato il primo disco, apprezzerà anche queste dieci nuove canzoni. Sempre visionarie e indignate, ispirate dalla stessa rabbia generazionale, mosse dall’identica urgenza creativa e narrativa. Poesia metropolitana in bilico fra la lezione di Claudio Lolli e quella di Pier Vittorio Tondelli, che Vasco spiega così: «Le canzoni parlano di lavori neri, di licenziamenti di metalmeccanici, di cristi fosforescenti, di tramonti tra le antenne, di guerre fredde, di errori di fabbricazione, dei tuoi miracoli economici, di martedì magri e di lunedì difettosi, di amori e di respingerti in mare, insomma delle solite cose. C'è questa orchestra minima, di quattro persone in una stanza, di archi negli amplificatori, di chitarre distorte, di organi con il delay, di acustiche pesanti e di parole nei megafoni...».

Sono insomma anche stavolta canzoni-non-canzoni dalla scrittura ossessiva, spesso cupe, a tratti apocalittiche, che parlano delle nostre miserie, della realtà che abbiamo attorno: quella vera, devastante, non il racconto edulcorato che ne fa la televisione. Una sorta di frenetico e abrasivo ”reading” musicale sull’Italia in crisi (non solo economica) di questi anni, in un flusso di coscienza animato dalla scommessa ardita di trasformare la disperazione in felicità.

”L’amore ai tempi dei licenziamenti dei metalmeccanici” è già nel titolo la cosa migliore del disco. Aperto da ”Cara catastrofe” e che prosegue con ”Quando tornerai dall'estero”, ”Una guerra fredda”, ”Fuochi artificiali”, ”Anidride carbonica”, ”I nostri corpi celesti”...

Di quello che l’artista ama chiamare ”il collettivo aperto Le Luci della Centrale Elettrica”, stavolta fanno parte Stefano Pilia (dei Massimo Volume), Rodrigo D'Erasmo (degli Afterhours), Enrico Gabrielli (già con Calibro 35, Vinicio Capossela, Mike Patton) e ovviamente Giorgio Canali (già con Pgr e Csi). Copertina e libretto sono firmati da Andrea Bruno, uno dei migliori disegnatori underground italiani.

«Che cosa racconteremo ai figli che non avremo di questi cazzo di anni zero» era uno dei (tanti) versi cult del primo disco. Ora che gli anni zero sono finiti, e gli anni dieci non promettono di essere migliori, Vasco Brondi conclude il nuovo album così: «E se gli alberghi appena costruiti coprono i tramonti, tu non preoccuparti, tu non preoccuparti...» (”Le ragazze kamikaze”). Un segno di speranza? O di rassegnazione...?

BAUSTELLE

I Baustelle sono il miglior gruppo italiano di questi anni. Lo hanno dimostrato con dischi come ”I mistici dell’Occidente” (uscito quest’anno), ”Amen” (del 2008), ma anche ”La malavita” (2005). Quando hanno cominciato, come spesso accade, non se li filava nessuno. A dieci anni dalla sua pubblicazione, torna quindi assai opportunemente nei negozi il primo e ormai introvabile album del gruppo di Montepulciano, ”Sussidiario illustrato della giovinezza”.

Col disco (seguito nel 2003 da ”La moda del lento”) torna anche quell’originale mix fra canzone d'autore francese e italiana, fra elettronica e new wave, fra colonne sonore degli anni Sessanta/Settanta e bossa nova, che aveva attirato l’attenzione dei critici e fatto guadagnare al gruppo il premio Fuori dal Mucchio (patrocinato dalla rivista Mucchio Selvaggio) come miglior debutto indipendente.

Le canzoni parlano dell’amore adolescente, in maniera a tratti cruda e comunque diversa da come il tema viene affrontato abitualmente. E contengono, seppur in maniera ancora acerba, le intuizioni e le suggestioni che successivamente hanno fatto grandi i Baustelle.

Oltre al cd, esce un ”box deluxe” a edizione limitata (mille copie), intitolato ”Il cofanetto illustrato della giovinezza”, che si può acquistare online (www.baustelle.it), e contiene la ristampa in vinile del primo demo in cassetta del '96, un 45 giri con ”Gomma” e ”La canzone del parco”, reincise per l'occasione, la ristampa rimasterizzata del cd originale e, per la prima volta, l'album in vinile, con una differente sequenza dei brani.

«Se ascolto ”Sussidiario” oggi, trovo tante piccole imperfezioni, ma mi rendo anche conto che facemmo davvero un buon lavoro», dice Francesco Bianconi, leader del gruppo. «Sarà pure un album che oggi faccio fatica ad ascoltare, ma devo ammettere che un disco così, nel rock italiano prima di allora, ragazzi, forse non c'era mai stato...». I Baustelle saranno in concerto a dicembre nei club con ”Il tour del sussidiario 2010”.

BRYAN FERRY

La classe non è acqua. E non invecchia. Era il ’73, quando uscì ”For your pleasure”, primo album dei Roxy Music. Ora Bryan Ferry è tornato in studio con i vecchi soci Phil Manzanera, Andy Mackay e Brian Eno. Il risultato è un album che arriva a tre anni di distanza dall'ultimo lavoro ”Dylanesque” e rappresenta un punto di svolta e una nuova sfida, anche grazie all'apporto di ospiti di grande spessore. Come David Gilmour dei Pink Floyd, Nile Rodgers degli Chic, Oliver Thompson, Marcus Miller, Flea dei Red Hot Chili Peppers, gli Scissor Sisters. L'album contiene otto brani inediti, a cui si aggiungono una commovente rilettura di ”Song to the siren” di Tim Buckley e una versione di ”No face, no name, no number” dei Traffic. Tutte le canzoni sono prodotte da Bryan Ferry e Rhett Davies, già produttore di alcuni album dei Roxy Music (fra cui ”Avalon”, dell’82) e di vari lavori solisti del nostro.

MALGIOGLIO

Ormai è più noto come personaggio televisivo (con ciuffo bicolore e chiacchiere in libertà...) che come cantante e autore, ma Malgioglio ha firmato alcuni capolavori per Mina, come ”L'importante è finire” e ”Ancora ancora ancora”. Lo ricorda nel suo nuovo album, che comprende undici canzoni, più la versione in spagnolo di una di esse, ”Carne viva”, più ancora un successo non suo, che avrebbe voluto scrivere per Mina, ”Sognando”, più infine un brano che gli piacerebbe sentir cantare dalla tigre di Cremona: ”Fragile fortissimo”. «Possiamo dire - scrive Maurizio Costanzo nelle note - che è stato un incontro felice tra un autore sensibile e un’interprete d'eccezione. Da qualche tempo Mina dice che ci consegnerà a breve il suo ultimo disco ma a noi piace pensare che non sarà così. Come sono convinto che Malgioglio scriverà ancora bellissime canzoni che Mina interpreterà». Dal canto suo, Malgioglio rivolge una preghiera ai suoi ammiratori: «Ascoltate, ma per favore non fate confronti...». Perchè di confronti assai impietosi si tratterebbe.











martedì 9 novembre 2010

PARTO DELLE NUVOLE PESANTI

La Calabria povera (e disperata) di oggi, la Magna Grecia ricca e fertilissima di oltre duemila anni fa. E calabresi che girano il mondo, anche per raccontare la storia della loro terra. Stiamo parlando del Parto delle Nuvole Pesanti, il gruppo che ha ereditato il nome dal ”collettivo musicale” formato nei primi anni Novanta a Bologna da una dozzina di studenti calabresi fuorisede, cresciuti nell’orgoglio del loro dialetto e delle loro radici. Mescolando rock e tradizioni musicali popolari.

La settimana scorsa erano in concerto a Budapest, domani alle 18 tengono uno ”showcase” di presentazione dell’album ”Magnagrecia” alla Feltrinelli di Udine, venerdì alle 21 sono in concerto a Trieste, al Teatro Miela. A fine novembre vanno addirittura in Brasile.

Al Miela tornano a cinque anni di distanza dal debutto triestino nello stesso teatro. Quella volta era da poco uscito il loro sesto album, intitolato ”Il parto”, che aveva imposto il gruppo all’attenzione di un pubblico più ampio rispetto all'ambiente folk-rock nel quale aveva mosso i primi passi. Ora, dopo varie esperienze anche teatrali (la piéce ”Slum” nel 2008) e cinematografiche (il film ”I colori dell’abbandono” nel 2009), sono freschi dalla pubblicazione dell’album ”Magnagrecia”, decimo capitolo della loro ormai ricca discografia.

«È un titolo - spiega Salvatore De Siena, componente originario del gruppo - al tempo stesso ironico e triste. Gli dei non ci sono più, cantiamo nel brano, ma sono stati sostituiti indegnamente dagli uomini. La Calabria di oggi è la Magna Grecia di ieri, una civiltà importantissima che è stata spazzata via. Ma ha lasciato un segno nella storia. Per questo speriamo non ci sia rassegnazione ma speranza di riscatto».

Ancora De Siena: «Nei vari brani affrontiamo temi come lo spopolamento dei piccoli centri con la dispersione delle comunità e culture destinate a scomparire. Ma parliamo anche di mafia, ambiente, viaggio, diritto alla terra e alla vita. I testi raccontano storie di paesi abbandonati. Fra suoni elettrici e acustici. Ma soprattutto rovine, gente povera, naufraghi, profughi, emarginati, emigranti e immigrati...».

Attualmente il gruppo è composto da Mimmo Crudo (basso e voce), Manuel Franco (batteria), Salvatore De Siena (grancassa, tamburello, chit elettrica, voce), Amerigo Siriani (mandolino, chitarra elettrica, voce), Antonio Rimedio (fisarmonica e tastiere). E la violinista ungherese Zita Petho, unica componente ”non calabrese” nel gruppo, la cui presenza ha offerto lo spunto per il citato concerto a Budapest.

Nel nuovo album sono ospiti fra gli altri Claudio Lolli (con il quale anni fa il gruppo aveva riletto la storica ”Ho visto anche degli zingari felici” del cantautore bolognese), il trombettista Roy Paci, la cantante iraniana Sepideh Raissadat, la cantautrice statunitense Amy Denio e la Banda di Fiati di Delianuova.

«Anche attraverso queste presenze - conclude De Siena - vogliamo proporre un nuovo modo di guardare il mondo. In un progetto che segna un’evoluzione della band dallo stile che è stato chiamato ”etno-autorale” a quello “rock world music”. Guardiamo alle periferie del mondo con attenzione e interesse, convinti come siamo che la povertà economica non debba assolutamente corrispondere a una povertà culturale. Anzi».

Il concerto triestino è inserito nella rassegna "Spaesati - Eventi sul tema delle migrazioni" e sarà preceduto nel pomeriggio da incontri e proiezioni di documentari, tra cui il ”docuclip” «Magnagrecia».

domenica 7 novembre 2010

STING CLASSICO A ZAGABRIA

Dopo il ”reunion tour” di tre anni fa con i Police, Sting - il cui tour con la Royal Philharmonic Concert Orchestra fa tappa stasera alle 20 all’Arena di Zagabria - ha smesso forse definitivamente i panni della rockstar. Sir Gordon Matthew Thomas Sumner <WC>è oggi un colto e ricchissimo gentiluomo quasi sessantenne (è nato il 2 ottobre ’51 a Newcastle), che a differenza di tanti suoi colleghi rifiuta il restare imprigionato nella gabbia dorata del suo stesso successo. «Non voglio essere condannato a rifare gli stessi brani nella stessa maniera e con lo stesso gruppo per il resto della mia vita», ha detto l’altra settimana su Raitre, intervistato da Fabio Fazio a ”Che tempo che fa”.

Ecco allora l’idea di questo lungo tour con l’orchestra londinese, diretta da quello stesso Steven Mercurio che aveva guidato i Tre Tenori, con il supporto di un quartetto composto da Dominic Miller alle chitarre, David Cossin alle percussioni, Ira Coleman al basso e dalla vocalist australiana Jo Lawry. Tutti assieme, musicisti classici e rock, per rileggere i grandi classici del ”pungiglione”: quelli con i vecchi soci dei Police, Andy Summers e Stewart Copeland, e quelli da solista.

«Reinventare le canzoni - dice Sting, che vive buona parte dell’anno nella sua tenuta a Figline Valdarno, in Toscana - che sono state i cardini della mia carriera musicale, dal vivo e in studio è, stato molto divertente. Il mio desiderio più vero è che quest'esperienza mi porti ora a scrivere nuove canzoni in collaborazione con l'orchestra sinfonica. È la mia ambizione e ci sto già provando».

In occasione di questo tour, cominciato in giugno in Canada e ripartito dopo la pausa estiva da Oslo, e che mercoledì è a Roma, quarta tappa italiana dopo quelle di Firenze, Milano e Torino, quest'estate l'etichetta Deutsche Grammophon ha anche pubblicato il cd ”Symphonicities”. Quasi una celebrazione dell'esperienza del concerto portato in tour lungo tutto il 2010, lanciato dal singolo "Every little thing she does is magic", e con dentro i brani dal suo grande repertorio, con e senza Police: "Roxanne" e "Next to you", "Englishman in New York" e "I burn for you", "Why should I cry for you" e "She's too good for me", ”Every breath you take” e ”Desert rose”, ”Russians” e ”If I ever lose my faith in you”, ”Fields of gold” e ”Fragile”, che di solito chiude il concerto (ventisei brani in scaletta, per quasi tre ore di musica).

«Ho sempre avuto affinità con la musica classica - prosegue l’artista, che due anni fa aveva già incrociato la sua strada con quella della leggendaria Chicago Symphony Orchestra -. Da giovane ho studiato molto del repertorio per chitarra classica e faccio ancora pratica giornaliera, suonando alcuni brani di Johann Sebastian Bach, pezzi dalle suite per violoncello, gli spartiti per violino e, ovviamente, le suite per liuto. Lo faccio solamente per mio divertimento personale. Sedersi ai piedi di un maestro musicale come Bach, leggere a interpretare le sue note sulle pagine, guardare e ascoltare le straordinarie scelte che prese come compositore, è molto vicino alla devozione religiosa».

Ancora Sting: «Per la canzone "Russians", che ho scritto nel 1985 sulla guerra fredda, ho preso in prestito la bellissima melodia sull'amore di "Lieutenant Kije" di Sergei Prokofiev. E oggi mi sento onorato di dividere i diritti per quella canzone con il celebre compositore russo. L'arrangiatore Vince Mendoza andò ancora più lontano, prendendo in prestito l'apertura del balletto di Prokofiev "Romeo e Giulietta", come emozionante preludio alla canzone».

giovedì 4 novembre 2010

SANREMO: BELLA CIAO E GIOVINEZZA / 2

"Bella ciao" e "Giovinezza"? Sono uguali. Dunque va detto no a entrambi. Perlomeno al Festival di Sanremo. Lo ha salomonicamente deciso il consiglio di amministrazione della Rai. L’inno della Resistenza da cui è nata la Repubblica e il canto delle squadracce fasciste vanno messi sullo stesso piano, sono ”canzoni politiche”, e la politica - si sa - deve far finta di restar fuori da Sanremo. È questo l’eccellente risultato della querelle scatenatasi nelle ultime quarantott’ore con la scusa del Festival.

Tutto è partito da uno scambio di battute fra Gianni Morandi e il direttore artistico Gianmarco Mazzi. Il cantante, chiamato a condurre la rassegna (quest’anno dal 15 al 19 febbraio), l’altra mattina in conferenza stampa spiegava che la serata di giovedì 17 sarà dedicata ai 150 anni dell’Unità d’Italia. Ognuno dei 14 big in gara proporrà un brano storico, legato alle vicende di questo secolo e mezzo. In assoluta buona fede, ma con una certa dose di ingenuità, considerati i tempi e l’aria che tira in Rai e nel Paese, da uomo di sinistra ha poi buttato lì: «Mi piacerebbe che venisse cantata anche ”Bella ciao”...».

Mazzi, uomo di destra, in una sorta di folle par condicio ha rilanciato: «Certo, ma allora anche ”Giovinezza”, che in fondo nasceva come inno della goliardia». Lasciando Morandi con un palmo di naso («Ma dai, Gianmarco...») e dando la stura a tutta una serie di reazioni del cosiddetto mondo politico.

Il cantante si è poi detto sorpreso per quanto accaduto: «Non immaginavo - ha sostenuto - che quel mio auspicio, legato al canto delle mondine poi adottato dai partigiani, divenisse elemento di polemica politica».

Ieri, come si diceva, la questione è approdata in cda. Che ha approvato un documento nel quale, oltre a dire no a entrambe le canzoni, vengono mossi rilievi a Mazzi e anche al direttore di Raiuno, Mauro Mazza, che si era detto non contrario all'idea che tra le canzoni proposte ce ne potesse essere qualcuna che rimandava a una fase storica dell'Italia ben definita.

Intervistato un po’ da tutti, il figlio del ciabattino comunista di Monghidoro ha poi peggiorato - se possibile - la situazione. «Non facciamo e non vogliamo fare politica - ha infatti detto Morandi -. Si devono fidare di noi, perchè le nostre scelte terranno conto della sensibilità di tutti. ”Giovinezza” è stata eseguita in tv svariate volte e non è mai successo qualcosa di così clamoroso».

Ancora: «Non mi aspettavo queste polemiche per canzoni che hanno più di cento anni e sono legate alla storia del Paese. La Rai ci è vicina: abbiamo aperto un sondaggio su internet dove gli stessi telespettatori potranno votare la canzone che vorranno vedere esibita come omaggio alla storia. Noi rivendichiamo la libertà artistica di costruire una serata che ricordi attraverso la musica 150 anni dell'unità d'Italia: ci sono anni meravigliosi e anni bui, ma questa è la nostra storia. La musica dovrebbe unire non dividere».

Concludendo così: «I problemi del Paese sono altri, quelli economici e quelli della disoccupazione. La musica non deve fare paura».

Ma la frittata è fatta. Il revisionismo storico, nell’Italia di fine impero del 2010, ormai passa anche attraverso le canzonette. E apprendere che il Festival verrà aperto - alla faccia di Bossi - dall’esecuzione dell’inno di Mameli non basta a migliorare la situazione. Anzi.

mercoledì 3 novembre 2010

SANREMO: BELLA CIAO e GIOVINEZZA

"Bella ciao" al Festival di Sanremo? E allora, come in una sorta di automatica ma anche un po’ stupida par condicio, sul palco dell’Ariston va cantata anche «Giovinezza». Come se l’antico e nobile canto di lavoro delle mondine, poi diventato inno della Resistenza da cui è nata la Repubblica italiana, potesse essere messo sullo stesso piano dell’indimenticata solfa delle squadracce fasciste.

Sono tempi da fine impero. Sanremo - e la Rai - ovviamente non fanno eccezione. E lo si capisce anche da questi piccoli episodi. Alla presentazione del regolamento della 51.a edizione del Festival, che si svolgerà dal 15 al 19 febbraio, ieri c’era attesa per le norme che dovrebbero ridimensionare il peso preponderante che il televoto - già padre padrone di tanti programmi televisivi che hanno mandato troppi cervelli all’ammasso - ha avuto negli ultimi anni.

Ma è bastata una proposta del conduttore Gianni Morandi («Vorrei che si cantasse ”Bella ciao”, secondo me bisogna farlo e lo faremo»: ha detto riferendosi alla serata evento dedicata ai 150 anni dell’unità d’Italia), per provocare subito una reazione da parte del direttore artistico Gianmarco Mazzi. Che non ha perso occasione per sollecitare l’esecuzione sul palco dell’Ariston anche di ”Giovinezza”, «che è passata alla storia come inno del fascismo ma nacque come canzone della goliardia toscana (in realtà di quella piemontese - ndr) nei primi del '900».

Il parto del Festival di Sanremo, tradizionalmente lungo e difficile, quest’anno è stato ancor più complicato. Tanto che qualche settimana fa Morandi stava per rinunciare all’incarico. Poi le cose si sono messe a posto all’italiana, e fra una Belen Rodriguez che la Rai spera di veder arrivare nella città dei fiori senza l’ingombrante fidanzato Corona e una Elisabetta Canalis che ha già fatto sapere che il suo bel Clooney non ci pensa nemmeno a sedersi in platea, è nata anche quest’idea della serata di giovedì 17 febbraio dedicata ai 150 anni dell’unità del Paese, con le canzoni che hanno fatto da colonna sonora alla storia d’Italia, interpretate dai 14 big in gara.

Morandi, figlio di un ciabattino analfabeta di Monghidoro che la domenica vendeva l’Unità porta a porta, ci ha subito messo dentro una canzone che fa parte del patrimonio della nostra musica popolare e che per un uomo di sinistra è anche parte della storia migliore di questo Paese. Non poteva immaginare che Mazzi, uomo di destra come il direttore di Raiuno Mazza, rilanciasse con l’inno delle camicie nere. Ma tant’è.

Scontate le critiche da sinistra. Bersani è incredulo: «Non ci credo, non è possibile, se fosse vero dovrebbero vedersela con noi». Il ministro La Russa: «Basta con le code di paglia, ”Giovinezza” la cantavano milioni di italiani». Storace: «È così bella, sarebbe un tonificante anche per l’Auditel». Ma persino la Lega Nord prende le distanze, anche se col fine di sponsorizzare ”Va pensiero”. «”Giovinezza” è una canzoncina - ha detto il senatore Giuseppe Leoni, fra i fondatori della Lega - che ricorda un periodo buio della storia di questo Paese. Non entriamo nel merito di ”Bella ciao”, ma con il motivo del ventennio si giustifica un momento che agli italiani ha dato solo sofferenze e sangue. Si canti piuttosto ”Va pensiero”, bello da ascoltare, che trasmette emozione e commozione».

E siamo a quella che doveva essere la notizia, ma che dinanzi a questi colpi d’ingegno viene derubricata. Dopo che nelle ultime due edizioni il Festival era stato vinto da Marco Carta e Valerio Scanu, trionfatori di ”Amici”, che dal ”talent show” di Maria De Filippi si erano portati in dote legioni di giovani e giovanissimi televotanti, gli organizzatori hanno capito che il meccanismo del televoto andava attenuato. Alla richiesta dell’Antitrust di eliminare dal voto le utenze business (non si potranno dunque comprare pacchetti di voti ingaggiando i call center), si aggiunge da quest’anno ”uno strumento correttivo”, una sorta di ”golden share” della sala stampa dell'Ariston, valida solo nella serata finale, che potrà bilanciare il televoto del pubblico a casa. Al Codacons non basta: chiede l’eliminazione totale del televoto.

Il voto della sala stampa (e per la categoria Giovani della giuria radio) sarà dunque la novità di quest’anno. Canti politici a parte. Basterà per dare ossigeno al Festival? Chi può dirlo...