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giovedì 20 marzo 2014
domani a Trieste ZAVOLI e DELL'ACQUA su libro Piccione: COSTITUZIONE E BASAGLIA
La chiusura dei manicomi fu un fatto di civiltà, le cui radici si trovano nella Costituzione. Una conquista che oggi va difesa in questo clima quasi da controriforma. Ne scrive Daniele Piccione nel libro “Il pensiero lungo, Franco Basaglia e la Costituzione”. Se ne parlerà domani alle 18 a Trieste, all’Auditorium del Revoltella, con Sergio Zavoli - giornalista, scrittore, senatore da quattro legislature, che firma l’introduzione del volume - e lo psichiatra Peppe Dell’Acqua.
Senatore, che rapporto c’è fra la Costituzione e la “rivoluzione basagliana”?
«La chiusura dei manicomi - risponde Zavoli, nato a Ravenna, classe 1923 - rappresentò un passo in avanti di civiltà; il superamento di un’istituzione violenta e opprimente, assoluta nel confinare le vite in ambiti ristretti, isolati e poveri. I malati appassivano negli ospedali psichiatrici; le loro vite si consumavano in modo struggente nell’inseguire domande che non trovavano risposta: quando esco, perchè mi hanno abbandonato...».
La Costituzione, invece...
«La Costituzione si prefigge di non lasciare indietro nessuno, di rimuovere le esclusioni e gli abbandoni. Nel limitare i poteri assoluti, la nostra Carta protegge e riafferma il valore dell’individuo e non soltanto nella materialità dei suoi beni e della condizione in cui vive, ma anche, perchè no, in quanto c’è di spiritualità e idealità in ognuno di noi. E così si spiega quella tacita, forte, implicita alleanza tra l’opera di Basaglia e l’apertura dei manicomi, il loro superamento come istituzione di sopraffazione e oppressione dei singoli, dei diversi, confinati nell’etichetta speso frettolosa e incongrua dei folli pericolosi».
Quali sono gli articoli sui quali si è in qualche modo innestato il lavoro di Basaglia?
«Tendo a credere - e il libro di Piccione non manca di illustrarlo - che il lavoro a Gorizia e Trieste di Basaglia si ponesse in sintonia con lo spirito della Carta del 1948. Credo si possa parlare di un’unitarietà di afflato umanitario che i Costituenti seppero far confluire nella nostra Costituzione. La centralità dell’individuo, delle sue aspettative, dei diritti inalienabili si incarna in molte disposizioni, a cominciare dall’articolo 2».
Il merito di Basaglia?
«Comprendere che questi valori, questi concetti venati di alta idealità potevano fare breccia nei muri dei manicomi. Ma la sua opera non sarebbe giunta a compimento senza una pratica quotidiana della liberazione del malato dall’etichetta del diverso che ci spaventa e da cui proteggerci. Un’intuizione che poi originava dalla curiosità dell’uomo Basaglia, dalla sua capacità di comprendere i fenomeni, concreti e reali che incidono sulla vita delle persone che soffrono di disturbi mentali. Torna alla mente quel suo riferimento a un proverbio calabrese, una citazione che mostra come ogni aspetto del singolo nella società fosse, per lui, oggetto di comprensione, analisi, riflessione critica: chi non ha non è, amava ripetere».
Povertà e miseria emarginano...
«E immergono il singolo in un cono d’ombra, lo escludono dalla vista. Sapeva che la strada per superare il manicomio come risposta opprimente consisteva nel credere nell’assistenza a chi soffre, nella tutela della persona, nei suoi bisogni. Insomma, vincere la domanda di bisogni reali, la miseria».
Quando nel ’67 ha realizzato “I giardini di Abele”, a che punto era quel processo?
«Era in corso, nel senso che Basaglia a Gorizia e Trieste sviluppò un’esperienza sul campo di straordinaria importanza. Non saprei dire se l’idea di una legislazione nazionale fosse solo un anelito, uno spunto in cui credeva, oppure fosse un orizzonte realistico di cui intuiva in anticipo la praticabilità. Certo il clima che si viveva durante la realizzazione del reportage era di novità, di attenzione all’essere umano che soffre. Si apprezzava, tuttavia, l’atmosfera di naturalezza. Come se quello che si stava compiendo nei fatti fosse dirompente e ineluttabile ma, ancora una volta, in un certo modo semplice. Una verità che viene alla luce. E questa verità era che chi soffre per la malattia mentale va ascoltato e non rinchiuso».
Che ricordi ha di Basaglia? Che uomo era?
«Un uomo consapevole dei problemi, di quelle persone che rifuggono le semplificazioni. Forse - ma non l’ho conosciuto abbastanza per parlarne in termini tanto diretti - il suo fascino aveva a che fare con la vulnerabilità, con la capacità di accettare che il disturbo mentale è arduo da comprendere, pretende un atteggiamento umile, non classificatorio o diagnostico. Però rispetto al modo in cui si trattavano le persone che soffrivano, su quello era determinato, forte, sicuro di quello che occorreva disfare e di quanto era necessario compiere».
La “180” è stata - ed è - una legge molto contestata e avversata. Perchè?
«L’immaginario collettivo è stato assalito dall’allarmismo, dal mito della pericolosità sociale e poi dalla litania per cui la legge ha abbandonato famiglie e malati. In Italia si incorre spesso in questi equivoci tra giudicare le leggi e la loro qualità, e accettare che i limiti sono quasi sempre connessi con l’attuazione, con il seguito da dare alle grandi pagine di legislazione sociale. Per la legge 180 tutto questo è stato amplificato dalle ideologie imperanti e contrapposte, dal riflusso nel privato. Sicuramente è stata una pagina parlamentare - se ne parla a fondo, nel libro - di assoluto valore. Ma richiedeva da parte di operatori e classi sociali un mutamento di prospettiva e di approccio culturale non banale e anche, in certa misura, scomodo».
Trentasei anni dopo la “180” (e 34 dopo la morte di Basaglia) rischiamo di tornare indietro?
«Penso lo si debba impedire. In tanti modi. In primo luogo dobbiamo chiederci - non di rado ce ne dimentichiamo - cosa significa tornare indietro. Per esempio, torniamo indietro quando immaginiamo nuovi luoghi di internamento, di esclusione. Regrediamo anche quando smarriamo la capacità di ascolto; quando non porgiamo la debita attenzione ai bisogni da soddisfare. Talvolta imboccare le scorciatoie può apparire comodo, ma poi si rivela controproducente. In fondo, le Costituzioni - è scritto nel libro - aiutano appunto a guardare lungo, allo sguardo presbite, come scriveva un grande giurista, Piero Calamandrei. Soggiungo che su tutti noi grava il compito di preservare le acquisizioni sociali, anche quelle sofferte e difficili. Per esempio, quella per cui un malato di mente non è una persona cui si può offrire risposte con l’internamento e l’abbandono».
Che cosa l’ha colpita del libro di Daniele Piccione?
«La curiosità verso questa sintonia implicita, questa alleanza silenziosa tra la Carta e un fenomeno sociale così particolare e importante, ma in apparenza estraneo al mondo del diritto, come il movimento antimanicomiale. Una sintonia che ha radici personali nella storia dell’autore, certo. Non di rado questi spunti innescano ricordi, emozioni, sentimenti. A tratti nel libro riecheggia, sullo sfondo, la mia curiosità quando varcai i cancelli di quell’ospedale psichiatrico e mossi qualche passo nei “giardini di Abele”. Curiosità e sensibilità che pervadono il libro coincidono anche un po’ con la riscoperta di pagine di vita personale intense».
«È un libro - conclude Zavoli - che evoca e suggerisce, non pretende di imporre certezze e giudizi assoluti. Il che capita di rado, purtroppo».
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