mercoledì 27 settembre 2006

Bruce Springsteen ritorna in Italia. E per la prima volta il suo tour fa tappa anche nel Friuli Venezia Giulia. Evento da non perdere, insomma, visto che il Boss (così lo chiama il suo popolo...) è uno di quelli che hanno scritto la storia della musica rock.

Dunque innanzitutto la conferma delle date: domenica primo ottobre a Bologna, lunedì 2 a Torino, mercoledì 4 a Villa Manin di Passariano, Codroipo (prima regionale e seconda volta nell’intero Triveneto dopo lo stadio Bentegodi di Verona nella primavera ’93). E poi il 5 all’Arena di Verona, il 7 a Perugia, l’8 a Caserta (dove è in corso una polemica sulla concessione della Reggia per il concerto), il 10 gran finale a Roma. Il tour è quello con i 17 della «Seeger Sessions Band».

Ma si diceva che Bruce è uno dei pochi protagonisti di primissimo piano dell’intera storia del rock. Quattro, cinque, sei...? Gli altri nomi metteteli voi, a seconda dei gusti e delle sensibilità. Ma sappiamo tutti che un posto spetta di diritto a lui, assoluto numero uno degli ultimi trent’anni di questa (relativamente) giovane vicenda culturale e sociale.

La sua storia comincia il 23 settembre del ’49 a Freehold, New Jersey. Douglas Springsteen (origini irlandesi, classe ’24, morirà nel ’98) e Adele Zirilli (chiaramente italiana, il Boss le fece fare una comparsata nei suoi concerti italiani nel ’99) danno al primo figlio il nome Bruce Frederick. Poi arriveranno le sorelle Virginia e Pamela.

A sette anni, nel ’56, il ragazzino vede alla tivù Elvis Presley all’Ed Sullivan Show: la leggenda vuole che subito dopo dica alla madre «io voglio essere come lui» e si faccia comprare la prima chitarra. La seconda, quella vera, l’avrà per diciotto dollari, di seconda mano, nel ’63. E comincia a suonarla seriamente, attratto dal rock e dal soul che ascolta alla radio.

Nel ’65 entra in un gruppo locale chiamato The Castiles: due chitarre, basso e batteria, in linea con la dilagante Beatlemania. Poi incontra Steve Van Zandt (il futuro Little Steven) e Danny Federici, con cui nel ’69 forma gli Steel Me. Qualche anno dopo, i due saranno con lui nella E Street Band. Segue la solita trafila, serate e audizioni fra una costa e l’altra degli States. Fino al giugno ’72, quando il ventitreenne Springsteen firma con la Columbia Records un contratto per dieci album.

Il primo esce nel gennaio ’73, s’intitola «Greetings from Asbury Park, New Jersey». A novembre dello stesso anno fa già il bis con «The wild, the innocent & The E Street Shuffle». Accoglienza buona, popolarità crescente. Ormai si aspetta solo il botto. Un giorno il critico John Landau (suo futuro produttore) scrive su un giornale la memorabile frase «Ho visto il futuro del rock’n’roll: il suo nome è Bruce Springsteen».

E il botto arriva col terzo album: esce nel ’75, s’intitola «Born to run», un milione di copie piazzate in pochi mesi. «Time» e «Newsweek» dedicano le copertine al nuovo «re del rock’n’roll».

Il resto è storia. Nel ’78 «Darkness on the edge of town», nell’80 il doppio «The river», nell’82 la parentesi acustica di «Nebraska», nell’84 la consacrazione come superstar mondiale di «Born in the Usa»... Un percorso costellato di galoppate d</IP>al vivo (con i suoi memorabili concerti di quattro ore e passa, come a San Siro nell’85...) e nuove perle musicali, fino alla suggestioni di «The ballad of Tom Joad» e a quel monumento discografico che è «Tracks»: cofanetto di quattro cd uscito nel ’98, nel quale il Boss ha inserito brani inediti scartati in occasione delle registrazioni dei precedenti album, e rivelatisi di livello eccellente.

Ancora dischi, ancora tour. Nel 2002 Springsteen pubblica «The Rising», il cui tema è la rinascita di un paese dopo l’attacco alle Twin Towers, senza scadere in tematiche patriottiche e comunque rimanendo sempre a distanza da Bush e dalla sua scelta guerrafondaia. Nel 2005 l’album acustico «Devils & Dust» parla anche delle sensazioni di un soldato statunitense in guerra.

Quest’anno è uscito «We Shall Overcome: The Seeger Sessions», ventunesimo album ufficiale e lavoro in qualche modo anomalo, composto com’è da cover di brani della tradizione americana accomunati dal fatto di essere stati tutti interpretati da Pete Seeger, padre con Woody Guthrie della tradizione folk americana, ma anche della canzone sociale e politica.

«Molto di quello che scrivo - ha riconosciuto Springsteen - soprattutto quando compongo in modo acustico, attinge direttamente dalla tradizione folk. Realizzare quest’album ha rappresentato per me un cammino liberatorio a livello creativo, perché tutte le diverse sonorità delle origini mi appassionano... hanno il dono di riuscire a rievocare un intero universo con semplici note e poche parole».

E Jon Landau, il suo storico manager: «Il disco è attraversato da un senso di spensieratezza, di grande serenità e di incontaminata gioia che lo rendono speciale dall’inizio alla fine. Bruce ha raccolto l’anima del repertorio classico americano ed è riuscito a dare ad ognuno di questi brani un’interpretazione personale di grande energia, modernità e intensità...».

Springsteen ha registrato il disco con Sam Bardfeld al violino, Art Baron alla tuba, Frank Bruno alla chitarra, Jeremy Chatzy al basso, Mark Clifford al banjo, Larry Eagle (batteria e percussioni), Charles Giordano (organo, piano e fisarmonica). E ancora Ed Manion al sax, Mark Pender alla tromba, Richie Rosenberg al trombone, Soozie Tyrell al violino e le voci di Lisa Powell e Patti Scialfa. I titoli: «Old Dan Tucker», «Jessie James», «Mrs. McGrath», «Oh, Mary, don't you weep», «John Henry», «Erie Canal», «Jacob's ladder», «My Oklahoma home», «Eyes on the prize», «Shenandoah», «Pay me my money down», «We shall overcome», «Froggie went a-courtin'».

Anche rileggendo le sue radici Springsteen continua dunque a cantare l’altra faccia dell’America e del sogno americano: quella dei perdenti e degli umili, della provincia e delle periferie, del rock - e più in generale della musica popolare - come ultima ciambella di salvataggio per vite altrimenti smarrite.

Per gli amanti del gossip Bruce è sposato in seconde nozze dal ’91 con Patti Scialfa, voce della E Street Band, dopo il breve matrimonio con la modella Julianne Phillips. Da lei ha avuto tre figli: Evan, Sam e Jessica. Quest’estate si è parlato di crisi fra i due, ma poi la cosa è stata smentita.

Il concerto del 4 ottobre a Villa Manin comincia alle 21.15. Novemila biglietti sono stati già venduti, altri sono ancora disponibili nell’abituale circuito di prevendite (a Trieste al Ticketpoint di Corso Italia 6/c). Altre informazioni su www.azalea.it

DYLAN Fra artisti che quando azzeccano anche il secondo disco c’è da gridare al miracolo, e dischi nei quali salvare una e magari due canzoni è impresa da mettere a referto, a volte avvengono fatti che scaldano il cuore. Prendete la vicenda umana e artistica di Bob Dylan, signore che alla bella età di sessantacinque anni, dopo aver lasciato come pochissimi altri il segno nella storia della musica e forse della letteratura del Novecento, al 44° album ufficiale in carriera se ne esce con un disco bello, vibrante, ricco, emozionante come «Modern times». È uscito già da tre settimane, ha fatto già in tempo a scalare le classifiche di vendita (cosa che al nostro non succedeva da un po’...), ma davvero non possiamo non parlarne alla ripresa di questa pagina dopo la pausa estiva.  Mister Zimmerman non faceva un disco in studio dal 2001, da quel «Love and theft» che aveva lasciato perplesso più d’uno. Anni passati sempre in giro per il mondo con il suo «Never ending tour», a strapazzare e rendere irriconoscibili anche antichi cavalli di battaglia.

La scelta di intitolare il nuovo disco «Tempi moderni», al di là della citazione chapliniana, ha il sapore da un lato di una garbata presa in giro (Dylan è un signore d’altri tempi, geniale ma d’altri tempi), dall’altro di una netta presa di distanze dal nostro presente così confuso. A tratti sembra dire: in questo caos, in mezzo a questa follia, l’unica salvezza è il ritorno alla semplicità, alle origini, alle radici...

Il concetto di tempo torna spesso in Dylan, dalla leggendaria «The times they are a-changin'» del ’64 fino al «Time out of mind» del ’97, passando per tanti brani. Il tempo che scorre, il tempo di ieri che non torna più, quello di domani che è un punto interrogativo in fondo a un tunnel sempre più oscuro...

Mezzo cowboy e mezzo signore del sud degli Stati Uniti, dopo essersi tolto lo sfizio di fare il dj e di pubblicizzare biancheria intima (...!), Bob Dylan si rimette al centro della scena con un disco senza tempo, fra blues e honky tonk, fra jazz e country, fra classici rock’n’roll («Thunder on the mountain», esplicito omaggio a «Johnny B. Goode», all’epopea di Chuck Berry, ma anche - un po’ a sorpresa - ad Alicia Keys...) e ballate, fra valzer («When the deal goes down») e appassionati ritratti della classe operaia («Workingman’s blues #2»), fra velati messaggi religiosi e riferimenti alla catastrofe che un anno fa mise in ginocchio New Orleans o magari a un’inondazione di chissà quanti anni fa («The levee’s gonna break», l’argine sta per cadere)...

Dieci canzoni senza tempo, che potevano essere apprezzate dieci o vent’anni fa, ma che saranno amate anche fra dieci o vent’anni. Dieci canzoni ricche di suoni scarni, semplici, essenziali, puliti. E interpretate con quella voce roca che sembra in grado di scolpire la roccia, che da tanto tempo indica la strada, la rotta, canta le nostre contraddizioni, la confusione e il disincanto di questi imbarazzanti «tempi moderni»... Tradizione e leggerezza, classe e godibilità, stile e genialità.

«Non sto parlando, sto solo camminando, per questo mondo vago e misterioso, col cuore bruciante, ancora struggente, camminando attraverso le città malate, in mano alla speculazione...», canta Bob nella traccia di commiato, «Ain’t talkin’».

Capolavoro. Da ascoltare mille volte e poi serbare - iPod permettendo - fra i dischi più cari.


ZUCCHERO Cinque anni di silenzio (l’ultimo disco era «Shake») sono tanti, per tutti ma soprattutto per un artista come Zucchero. Che fra l’altro proprio oggi compie cinquantuno anni. C’era dunque molta attesa per questo «Fly» (sottotitolo: «Come possiamo volare con le aquile se siamo contornati da tacchini»), uscito nei giorni scorsi per Universal.

Prima curiosità: chi sono i tacchini? Risposta: «Le radio, le case discografiche, che per risparmiare stampano male i dischi, gli americani con l'ossessione di aiutare tutti, il politically correct, i cattocomunisti...».

Polemiche e sassolini nelle scarpe a parte, il disco non delude attese e aspettative. Musicalmente ricco, realizzato sotto la regia del grande Don Was (che ha chiamato a raccolta sessionman straordinari come Randy Jackson, Jim Keltner, Pino Palladino, Waddy Wachtel, Kenny Aronof...), il lavoro brilla di un suono che profuma di radici, che privilegia il feeling sulla tecnica.

Canzoni ricche di belle melodie, che spaziano su armonie solide, figlie di atmosfere nere ma anche di richiami anni Sessanta/Settanta a grandi padri come Procol Harum, Vanilla Fudge, Mamas and Papas...

Nel disco ci sono anche due canzoni, una scritta con Jovanotti - «Troppa fedeltà» - e un’altra con Ivano Fossati, «È delicato». Ma c’è anche il grande Brian Auger, chiamato a suonare il vecchio organo Hammond «perchè volevo tornare ai suoni veri, allontanarmi dall’elettronica...».

Il primo singolo s’intitola «Bacco perbacco», «Let it shine» è un omaggio a New Orleans devastata dall’uragano Katrina, «Cuba libre» è una dichiarazione d'amore «al mito di Cuba», «Occhi» ha una melodia dolce che rapisce, «Quanti anni ho» è dedicata al figlioletto Blu...

Dal 15 febbraio Zucchero è in tour. Assieme alla figlia, la giovanissima Irene Fornaciari, già lanciata sulle orme dell’illustre genitore.


FOSSATI Gran lavoro di «remastering» (soprattutto per i brani più vecchi) per questo triplo cd che raccoglie per la prima volta le più belle canzoni dell’artista genovese, da «La casa del serpente» del ’77 fino alla recentissima «Cara Democrazia». Il titolo scelto è quello una delle sue ultime canzoni, «Ho sognato una strada», compresa ne «L’Arcangelo», l’album pubblicato lo scorso febbraio. Quarantadue canzoni fra impegno civile («Mio fratello che guardi il mondo», «Sigonella», «Pane e coraggio», «Il disertore» di Boris Vian...) e canzoni d'amore, fra rock e introspezione psicologica. Insomma, il miglior Fossati...


BENNATO Reduce da un’estate in cui ha co-firmato uno dei tormentoni più azzeccati («Notte di mezza estate», con Alex Britti), il cantautore napoletano pubblica un triplo cofanetto che in 41 canzoni e tre ore di musica racconta una grande storia di successo cominciata nel ’73 con «Non farti cadere le braccia». Nella copertina di quell’album ci stava un «ultimo fiammifero», quasi a simboleggiare - si diceva all’epoca - l’ultima possibilità che la discografia dava a Bennato. In realtà, fu solo l’inizio di una lunga strada che non è ancora finita. Canzoni e rock, fiabe e piccoli apologhi... Riascoltiamo «Mangiafuoco», «Il gatto e la volpe», «Sono solo canzonette», «Ogni favola è un gioco», «Viva la mamma», «Le ragazze fanno grandi sogni»...


 

mercoledì 13 settembre 2006

Giovedì 5 ottobre gli Afterhours, venerdì 6 Giuliano Palma & The BlueBeaters (più i triestini Ripidi), sabato 7 gran finale con Elisa. Sono questi i protagonisti del «Vodafone Barcolana Music», l’edizione 2006 del festival a ingresso gratuito che si terrà in piazza Unità e che è ormai diventato la tradizionale introduzione musicale della regata velica più affollata del mondo, che si svolge nel Golfo di Trieste la seconda domenica di ottobre.

Un cast di qualità, dunque, anche se piuttosto ridotto nel numero dei partecipanti rispetto alle edizioni degli anni passati, durante le quali salivano sul palco tre o quattro artisti per sera. E se si parla del passato il pensiero non può che tornare innanzitutto all’edizione dell’anno scorso, funestata dalla pioggia e dal freddo, che ha visto esibirsi fra gli altri i Negramaro, Paola Turci, Frankie Hi Nrg, i Negrita...

Nella speranza dunque che le condizioni atmosferiche permettano la buona riuscita di questa grande festa musicale all’aperto (a proposito, la sera prima, mercoledì 4, a Villa Manin, dunque in un’altra splendida situazione en plein air, è atteso nientemeno che il Boss, Bruce Springsteen...), torniamo ai protagonisti del festival di quest’anno, che ha <IP9>cambiato organizzatori e può contare su un nuovo sponsor ma anche sulla collaborazione dell’emittente nazionale Play Radio.

I milanesi Afterhours, capitanati dal carismatico Manuel Agnelli, sono da tempo una delle più belle realtà del nuovo rock italiano. «Ballads for little hyenas», versione in inglese di «Ballate per piccole iene», è il titolo dell’ultimo album del gruppo, reduce da un lungo tour negli Stati Uniti. Il disco sta per essere pubblicato anche in Inghilterra.

Giuliano Palma (ex Casino Royale) è con i suoi BlueBeaters fra i maestri delle rivisitazioni dei classici dello ska, del reggae e del rhythm’n’blues. Per il cantante si tratta di un ritorno al festival, visto che era stato fra i protagonisti dell’edizione del ’99. In regione, invece, la loro è una presenza quasi fissa del Rototom Sunsplash, il festival reggae di Osoppo.

Gran finale, come si diceva, con la monfalconese Elisa. Che ha suonato tante volte a Trieste, in vari luoghi, all’aperto e al chiuso, ma mai nel salotto cittadino di piazza Unità. Per lei, e per il suo pubblico, sarà dunque una prima volta.

Reduce da un concerto nell’ambito della Notte bianca romana, la popstar regionale sta per uscire a metà ottobre con un nuovo singolo, che farà da apripista per il nuovo album, atteso entro la fine dell’anno. Probabile dunque che il concerto triestino diventi l’occasione per la presentazione in anteprima almeno di alcune delle sue nuove canzoni.