giovedì 28 febbraio 2008

SANREMO / TERZA SERATA


Sanremo, terza serata. Dopo il terremoto degli ascolti in caduta libera, di Baudo che insulta chi ha il torto di non guardarlo più, del plagio con conseguente eclusione della Bertè, Chiambretti rompe il ghiaccio così: «Signori, avremo tanti difetti, ma andando in onda per cinque sere evitiamo che almeno una settimana all’anno vada in onda ”Porta a porta”».

Stavolta i due, il lungo e il corto, si presentano assieme dall’inizio: mano nella mano scendono la scalinata dell’Ariston, presentano l’orchestra, il coro e chi più ne ha più ne metta. Baudo mostra le scarpe nuove a Mike Bongiorno, che ieri sul «Corriere» gli aveva rimproverato di essersi presentato con quelle vecchie. E dice che vuol parlare del caso Bertè. Pierino lo blocca: «C’è un altro caso, il truccatore gay della Tatangelo in realtà non è gay...» Quando Pippuzzo nostro - sempre gentile e amichevole con tutti, tranne quando qualcuno gli taglia la strada o lo critica: allora va in bestia - spiega finalmente quel che è successo e che ormai tutti sanno, l’uomo di «Markette» spara la terza bordata: «Loredana dice comunque che ha un altro brano inedito, s’intitola ”O sole mio”...».

E visto che la cantante calabrese partecipa ugualmente seppur fuori gara (decisione saggia, per evitare guai peggiori: siamo pur sempre a Sanremo, dove qualcuno quarantun anni fa si è ucciso, e la donna ormai è un po’ fuori...), eccola subito, l’ultima diva della nostra canzone, colei che è stata e in parte è ancora una grande voce rock, con quella stessa Spagna con cui era già previsto il duetto. Parte «Musica e parole», che plagio o no, è un gran pezzo. E le due donne, la mora e la bionda, lo eseguono alla grande.

Loredana ha i polsi stretti dalle manette, sempre con gli occhiali scuri, stavolta senza cappuccio ma con una grande e vaporosa gonna nera. Pare che i vestiti se li faccia da sola. Prima del perentorio «Stop!» che chiude il pezzo, legge da un foglio altre frasi più o meno farneticanti, una sorta di invocazione a difesa dei bambini. Poi aggiunge: «Voglio un Festival normale e voglio un premio normale in gara... Pensavo de venì a Sanremo a famme ’na vacanza e invece è successo...». Baudo l’abbraccia e la ferma così: «Non è successo niente».

Si va avanti. Entrano un’altra bionda e un’altra mora, stavolta sono le vallette. È la serata dei duetti. La gara comincia con i Finley, affiancati da Belinda (nome completo: Belinda Peregrìn Schull), la cantante spagnola che è la voce del momento in America Latina. Inconsistenti.

Con Tricarico è salto di qualità. La sua surreale «Vita tranquilla» è stata una delle cose migliori della prima serata. E con la canzone della Bertè - plagio o no - in un Festival normale avrebbe meritato la vittoria. Il brano nasce come risposta indiretta alla «Vita spericolata» di Vasco Rossi, Sanremo 1983. Lui - che è quello che nel 2000 cantava «Io sono Francesco», il brano dell’invettiva «puttana la maestra...» - ha sempre l’aria trasognata ma si dimostra meno «capitato lì per caso» della prima sera. E stona pure di meno. Il virtualissimo duetto lo fa con il Mago Forrest - presenza silenziosa alle sue spalle - e con una sagoma di Steve McQueen. Vita spericolata, appunto...

Superba anche l’interpretazione «a cappella» che Mietta regala della sua «Baciami adesso», grazie alla presenza con lei sul palco dei Neri per caso. Ma, a dimostrazione del fatto che quando lo spettacolo viene lasciato alle canzoni, riducendo al minimo i vari contorni che allungano il brodo, la qualità rimane sempre accettabile e a tratti alta anche con le proposte successive.

«Il solito sesso» di Max Gazzè guadagna dall’apporto di Paola Turci alla chitarra e Marina Rei alla batteria. Fabrizio Moro si fa supportare dall’esperienza di Gaetano Curreri degli Stadio. Ma il top della classe e dell’eleganza arriva con un altro calabrese, Sergio Cammariere: per la sua bossanova arriva la grandissima Gal Costa, che regala anche qualche verso da sola, prima della canzone.

Il rapper torinese Frankie Hi Nrg si mette in giacca e cravatta, chiama il vincitore dell’anno scorso Simone Cristicci, e trasforma la sua «Rivoluzione» in un omaggio cinematografico a Morricone, con la tromba messicana a scandire i mali del nostro Paese. Dove la rivoluzione non si fa. Altro gran pezzo, di quelli che dovrebbero andare sul podio della qualità.

Proprio come il «Grande Sud» di Eugenio Bennato, magica taranta per celebrare tutti i Sud del mondo ma anche gli emigranti di ieri e di oggi, sempre sospesi fra nostalgia e speranza. La speranza antica di una vita migliore. Con lui, la voce mediterranea della sua compagna, Pietra Montecorvino (con abito della triestina Raffaella Pregara).

La serata poi è andata avanti come al solito fino a notte tarda, con gli abituali sbrodolamenti: ospiti, gag, spot, siparietti con Daniele Piombi (avanti i giovani...). Fra la Tatangelo con Michael Bolton, Cutugno con la Minetti, Grignani con i Nomadi, Zarrillo con Paola e Chiara, Little Tony con una delle tante famiglie dei Gipsy Kings. Ha fatto meglio Mario Venuti che per l’occasione ha rimesso assieme i suoi Denovo, bel gruppo della Catania rock degli anni Ottanta. E meglio anche i Tiromancino, che hanno regalato coloriture jazz alla loro «Il rubacuori» con il sax di Stefano Di Battista.

Perchè va detto che sei o sette brani, in questo bistrattato Festival, non sono niente affatto male. Tutto starebbe a tagliare quel che sta attorno. E con le canzoni non c’entra proprio nulla. Buonanotte ai sopravvissuti.

SANREMO / SECONDA SERATA


Seconda serata del Festival di Sanremo nel segno della Bertè incappucciata. Mentre i giovani Ariel, La scelta, Sonhora e Jacopo Troiani raggiungono in finale Giua, Frank Head, Milagro e Valerio Sanzotta. Ma di questo passo, il medley orchestrale che apre ogni serata (ieri spaziava da «Le colline sono in fiore» a «Romantica») rischia di diventare la cosa migliore del Festival: tre minuti che hanno il torto di durare poco, in una kermesse dove invece quasi tutto ha il difetto opposto.

L’annuncio della voce fuori campo («Pippo Baudo...») ci riporta alla dura realtà. Stavolta si presenta lui per davvero, senza Chiambretti né sosia di sorta. Annuncia trionfante: «Siamo rientrati nell’ortodossia». Due parole sugli «spettatori che ci seguono in tutto il mondo in Eurovisione» (sarà vero...?), poi entra l’omino di Markette: abito scuro, solite scarpe tricolori e ovazione del pubblico in sala.

Chiambretti: «Qui si fa già il nome del vincitore, dunque ci vuole un garante per tutti...». Segue siparietto con il cane Rex, protagonista dell’omonima serie televisiva, subito raggiunto da una mezza dozzina di pastori tedeschi («tanti cani così in tivù non li avevo mai visti, neanche al Grande Fratello...»), messi in fuga solo dal filmato di Baudo attore in un film di tanti anni fa.

Dopo la bionda ungherese della prima sera, è il turno della moracciona pugliese. Arriva Bianca Guaccero, che fa la gag di quella che non se la sente e scappa via. E permette a Pierino di sibilare: «È come l’Inter in Champions: entra ed esce...».

Più tardi torna il tormentone politico. Chiambretti dietro una scrivania («Quella di Berlusconi era di ciliegio, questa è di Del Noce...») dice a Baudo che «centrodestra e centrosinistra non hanno programmi, mentre tu ne hai due: ”Domenica In” e Sanremo. Dunque puoi firmare anche tu il contratto con gli italiani...». Con posti di lavoro a migliaia, grazie alla crescita esponenziale del girone dei giovani al prossimo Festival...

Reparto canzoni e cantanti, quello più doloroso, anche se la seconda serata risolleva parzialmente il livello della prima, nella quale si erano salvati in pochi (Tricarico, Eugenio Bennato e Frankie Hi Nrg fra i big; Giua e Frank Head fra i giovani). Qualità allora più dignitosa grazie a Mario Venuti («A ferro e fuoco» è eleganza e classe), grazie al duo da musical Giò Di Tonno e Lola Ponce («Colpo di fulmine», firmata Gianna Nannini, è un pezzo che ha le caratteristiche per vincere), grazie ai Tiromancino («Il rubacuori» parla di lavoro precario, di vita vera, e ha una bella anima rock), grazie a Sergio Cammariere («L’amore non si spiega» è un delicato quadretto malato di saudade).

Ma grazie anche a Loredana Bertè, ultima diva della canzone, matta come un cavallo ma sempre strepitosa. Ieri sera doveva uscire per ultima, ha fatto fuoco e fiamme per anticipare la propria esibizione e alla fine ci è riuscita. «Musica e parole» non è all’altezza delle sue cose di un tempo, ma brilla per versi come «Noi siamo il futuro, con le pezze al culo, di sicuro. Paradiso un corno, stiamo già all’inferno...». Incappucciata e con gli occhiali scuri, stile Guerre Stellari, dopo la canzone ha cominciato a farneticare parole in libertà su «noi artisti ci trattano come saltimbanchi... ci vorrebbe più rispetto... musica e sport affratellano i popoli, sono linguaggi universali...».

Gli altri sedicenti campioni: Amedeo Minghi, Gianluca Grignani, Mietta, Little Tony (con famiglia) e i Finley. Fra i giovani, oltre alla tenerezza per il diciassettenne Jacopo Troiani, bene la freschezza dei La Scelta, dei Sonhora, di Ariel, del figlio d’arte Francesco Rapetti. I redivivi Duran Duran e il cast di «Giulietta e Romeo» con Riccardo Cocciante (salutato da una standing ovation) hanno completato il secondo round.

Intanto, oltre a quello dei favoriti (sempre in testa l’imbarazzante Anna Tatangelo: gran bella figliola, pessima canzone sull’amico gay, scrittale dal fidanzato Gigi D’Alessio), impazza anche il gioco delle somiglianze. Un classico del Festival.

Secondo «Tg2Punto.it», il «Grande Sud» di Bennato ricorda tanto «Funeral de um lavrador» di Chico Buarque de Hollanda; «Un falco chiuso in gabbia» di Cutugno ha lo stesso attacco di «Last Christmas» dei Wham!; «Anna» del giovane Andrea Bonomo somiglia a «Cara droga» di Franco Simone. Secondo altri la canzone dei Milagro sarebbe la copia di «Amore amaro» di Gigi Finizio.

Vedrete che entro sabato sbucheranno fuori altre somiglianze sospette. Un passatempo come un altro, in un Festival dove il tempo non passa mai. Ah, stasera per fortuna si fa pausa: c’è il turno infrasettimanale del calcio di serie A. Lì almeno i giochi si chiudono in novanta minuti...

martedì 26 febbraio 2008

FRANK HEAD Para parà ra rara


http://it.youtube.com/watch?v=__YVHSVM6OA

TRICARICO, Vita tranquilla, Sanremo 2008


http://it.youtube.com/watch?v=Qd8MqfqZVqU

SANREMO / PRIMA SERATA


Piero Chiambretti ha salvato dalla noia la prima serata del 58.o Festival di Sanremo, cominciato ieri sera in diretta su Raiuno. Anche se va detto che Pippo Baudo si è ben guardato dal fare il tanto annunciato passo indietro.

I primi venti minuti, con l’omaggio a Modugno, le gag del Pierino nazionale con lo spilungone siculo a far da spalla, e poche canzoni sono comunque stati quel che si può salvare della serata. Cominciata nel segno del passato e della tradizione. Un medley orchestrale ha subito coniugato la canzone vincitrice dell’anno scorso, «Ti regalerò una rosa» di Simone Cristicchi, a «Grazie dei fior» di Nilla Pizzi, «Come saprei» di Giorgia, «Vorrei incontrarti fra cent’anni» di Ron...

La prima sorpresa è Gianni Morandi che scende dalla scalinata e attacca «Penso che un sogno così non ritorni mai più...». È l’annunciato omaggio ai cinquant’anni di «Nel blu dipinto di blu», conosciuta in tutto il mondo come «Volare». Morandi, emozionato, allarga le braccia anche lui, ma l’effetto non è - né può essere - quello ottenuto da Domenico Modugno il 31 gennaio 1958.

La voce fuori campo annuncia Pippo Baudo, ma si presenta Chiambretti, giacca bianca da gelataio e scarpe tricolori: «Baudo è come Fidel Castro: ha fatto un passo indietro e si è ritirato». Segue gag con l’immancabile direttore di Raiuno Del Noce, assiso in prima fila accanto a una scosciatissima Parietti. E «un doppio applauso perchè ancora vivo» a Pippo Caruso che dirige l’orchestra. Più tardi Pierino fa di peggio, gli affida un mazzo di fiori: «Li metta sulla tomba».

La seconda sorpresa sono dodici sosia di Baudo, ognuno con la sua brava maschera, che assediano il folletto piemontese: «Rappresentano i suoi dodici Festival, dal ’68 fino all’anno scorso». Finalmente, si fa per dire, all’annuncio di «Pippo tredicesimo», il nostro emerge da una botola dicendo «Che buffonata...».

Due battute sul clima elettorale, sulla par condicio (tema che poi tornerà più volte), sul «Festival etichettato comunista», con l’immagine di Pippuzzo vestito da soldato russo, con la scritta «Circolo Falce e Militello». Che poi ammicca: «Non faccio casini ma sono clemente...». Chiambretti ci dà un taglio: «Se non cominciamo subito la prima serata finisce sabato...».

È il turno della valletta, ieri sera toccava alla bionda ungherese Andrea Osvart, introdotta da un minifilmato con James Bond che dice «Dobbiamo salvarla da Marzullo. Riusciamo a portarla all’Ariston?». Lei è emozionata fino alle lacrime e spiega che sul permesso di soggiorno ha ancora scritto «domestica», primo lavoro grazie al quale è arrivata in Italia. Pierino osserva: «Somiglia a una Ricciarelli magra, per questo l’hai presa...». Baudo lo fulmina con un’occhiataccia.

Ci sarebbero anche cantanti e canzoni. Il melodico Paolo Meneguzzi («Grande» non lascia traccia) e la pacifista L’Aura («Basta» ha un bell’impatto) aprono la sfilza dei big. Seguono un redivivo Toto Cutugno («Un falco chiuso in gabbia», 14.a presenza al Festival), Frankie («Rivoluzione», dove si spiega che anche i ribelli tengono famiglia), Fabrizio Moro («Eppure mi hai cambiato la vita»: una canzone d’amore dopo l’orazione antimafia dell’anno scorso)...

Fra i Giovani aprono i Milagro (due cantanti chitarristi emiliani, cantano «Domani»), Andrea Bonomo («Anna», torna l’amore per la mamma), i Frank Head (quelli di uno spot della Tim Tribù, «Papa Parà Ra Rara»). E poi i quattro giovanissimi Melody Fall, Daniele Battaglia (figlio di Dodi dei Pooh, e si vede e si sente), Valerio Sanzotta (un po’ datato) e Giua («Tanto non vengo», delicata presenza cantautorale, forse la cosa migliore fra i Giovani).

Ancora i sedicenti Campioni. La statuaria Anna Tatangelo sarà anche favorita, ma la sua canzone sull’amico gay è al di là del bene e del male. Impresentabile. Meglio Zarrillo, Gazzè e Tricarico. E molto meglio Eugenio Bennato, pizzicato dalla taranta con la sua storia di emigranti di ieri e di oggi. Ma lui non vince di sicuro.

Il resto è Carlo Verdone: a Sanremo per presentare il nuovo film, regala poco più che un promo. Quando poi arriva Lenny Kravitz, non ce n’è più per nessuno. Il rocker newyorkese è un gigante in mezzo ai nani. E Baudo dimostra tutti, ma proprio tutti i suoi settantadue anni...

domenica 24 febbraio 2008

SANREMO


Sanremo, si riparte. Per la sopravvivenza affidiamoci a Chiambretti, cui l’astuto ma immarcescibile Baudo (72 anni a giugno, tredicesimo Festival) dice di voler dare, bontà sua, più spazio. «Il Festival di quest'anno - ha detto il conduttore e direttore artistico - avrà due chiavi di racconto: quella mia tradizionale e quella di Chiambretti più eterodossa. Piero combinerà una serie di diavolerie per le quali ha chiesto aiuto anche alle scenografie di Gaetano Castelli e alle soluzioni sceniche del trasformista Arturo Brachetti. Insomma, se ci ritroveremo sotto il palco perchè crollerà tutto, sarà colpa sua».

Il folletto piemontese è dotato di una dose sufficiente di ironia e autoironia per neutralizzare la solita messa cantata baudesca. Rito vecchio, stantio, anacronistico, impresentabile già nei tempi: solo Baudo e i capi di Raiuno possono infatti pensare, nel mondo della televisione e dello spettacolo del 2008, di allestire e proporre una maratona che dovrebbe tener incollati davanti ai teleschermi per cinque serate - si parte oggi, si chiude sabato notte, saltando solo la serata di mercoledì - che minacciano di non finire mai prima di mezzanotte o l’una.

Soltanto un pubblico formato da coetanei del conduttore siculo può mettere in preventivo di passare una settimana intera davanti all’elettrodomestico favorito. Ma anche quel pubblico - oltre a subire il rischio appisolamento - è dotato di telecomando e sa che sono finiti i tempi in cui la concorrenza deponeva le armi nei giorni di Sanremo: quest’anno, come l’anno scorso, su Mediaset e altrove c’è una controprogrammazione in piena regola. Gli ascolti ne saranno fortemente condizionati: stasera, forse, benino, ma da domani il rischio si chiama caduta libera...

Poi ci sono i cantanti e le canzoni, teoricamente protagonisti del Festival. Da qualche anno, per sopravvivere, Sanremo ha smesso di essere un mondo a parte. Intendiamoci, i migliori qui di solito continuano a marcare visita. Oppure vengono a inizio carriera, o al massimo come ospiti. Ed è ancora raro che le canzoni e i dischi lanciati dal palco dell’Ariston siano fra le cose memorabili dell’annata canora di casa nostra.

Ciononostante, l’anno scorso è capitato che fra i sedicenti campioni vincesse una storia delicata che parlava di matti («Ti regalerò una rosa», Simone Cristicchi), che fra i giovani vincesse un invito quasi rap a reagire alla cultura mafiosa («Pensa», Fabrizio Moro), che fra i brani in gara ce ne fosse uno che parlava di mondo del lavoro e precarietà («Oltre il giardino», Fabio Concato). E che fra una lungaggine e l’altra sbucassero cose dignitose con Paolo Rossi, Amalia Grè, Daniele Silvestri, Antonella Ruggiero... Riuscendo nell’impresa di mettere assieme comunque un buon Festival.

Quest’anno l’impressione è che si tenti di continuare su quella strada. Che ci aspetti insomma un’altra macedonia canora in cui Baudo - con la commissione selezionatrice si cui è il deus ex machina - ha infilato più roba possibile. Nella speranza di accontentare tutti e con il rischio di scontentare ognuno.

Risultato: a Sanremo quest’anno si canta di licenziamenti di massa («Il rubacuori», Federico Zampaglione/Tiromancino), di amici gay («Il mio amico», Anna Tatangelo) e di amori al femminile («Ore ed ore», Valeria Vaglio, in gara fra i Giovani), di emigrazione meridionale di ieri e di oggi («Grande Sud», Eugenio Bennato), di politica e antipolitica («Rivoluzione», Frankie Hi-Nrg Mc), persino di Moro e di Berlinguer, di piazza Fontana e di Guido Rossa («Novecento», Valerio Sanzotta, in gara fra i Giovani).

Potremmo continuare, ma è meglio per ora fermarsi qui. E ascoltare le canzoni, che da anni tentano di ritrovare uno spazio in quello che dovrebbe essere il loro festival e invece è diventato soltanto un brutto show televisivo.

Come in ogni Sanremo che si rispetti, ci sono i favoriti. Non più le vittorie annunciate, come negli anni Ottanta e Novanta, ma almeno i favoriti sì. Gli scommettitori danno sul podio la Tatangelo, seguita da Mietta («Baciami adesso»), Giò Di Tonno con Lola Ponce («Colpo di fulmine»), Sergio Cammariere («L’amore non si spiega») e Zampaglione/Tiromancino. Un sondaggio fra 2.600 ragazzi fra i 12 e i 18 anni incorona invece i Finley («Ricordi»), seguiti da Tatangelo, Paolo Meneguzzi («Grande») e Fabrizio Moro («Eppure mi hai cambiato la vita»). Ma i ragazzi di solito non guardano, né votano per Sanremo...

sabato 23 febbraio 2008

LELIO LUTTAZZI DA FAZIO


Ancora grandi vecchi triestini a «Che tempo che fa», da Fabio Fazio, su Raitre. La settimana scorsa lo scrittore Boris Pahor, classe 1913; ieri sera il musicista Lelio Luttazzi, classe 1923. È sabato sera, e il conduttore simbolo della tivù in bianco e nero degli anni Sessanta attacca regalando qualche minuto di grande jazz, al pianoforte, col suo trio.

Ringrazia per l’applauso ma bofonchia: «Ho fatto tre o quattro sbaglietti, del resto il pianoforte non lo suono quasi più...». Cosa ha fatto in tutti questi anni? «Niente, non sono portato per il lavoro. Ho scavalcato il marxismo da sinistra, posso dire che sono contrario politicamente al lavoro. E non è vero che senza il lavoro il mondo si ferma, perchè ci sono sempre quelli che dicono: io senza lavoro non potrei stare. Dunque...».

Fazio ci prova: «Perchè non facciamo qualcosa assieme, in televisione?». Lui lo blocca con un triestinissimo «sta bòn», poi prosegue così: «Devo vedere se sarò ancora vivo, sai, faccio ottantacinque anni ad aprile. E comunque, dopo questo cd (”Lelio Luttazzi Trio - Le mie preferite”, uscito a gennaio - ndr), non voglio fare assolutamente più nulla. È il mio batterista che ogni tanto mi organizza qualcosa, e io sono costretto ad accettare...».

Ancora Fazio: «Ma cosa fai tutto il giorno?». Qui Luttazzi (elegante nell’abito blu, fazzoletto nel taschino, ogni tanto si mangia le parole) tira fuori le doti del vecchio entertainer: «Guardo la tivù fino alle due di notte, poi leggo fino alle quattro, quando mi addormento. Mi alzo alle undici, e fra una cosa e l’altra arrivano le cinque. Ora in cui riaccendo la tivù, ne una bella grande, "al plasmon", è la mia finestra sul mondo, è come stare al cinematografo. L’ascolto in cuffia, perchè sono un po’ sordo. Poi arriva l’ora di cena, si perde un po’ di tempo, e si ricomincia...».

Ti manca il pubblico? «Beh, pare un po’ brutto dirlo, ma per la verità... state pure tranquilli, che io sto lì...». Cosa ti dà fastidio? «Gli applausi finti, quasi disperati. Il pubblico che fa di tutto per farsi inquadrare. Quelle cose lì».

È il momento dei ricordi triestini, de «Il giovanotto matto», recentemente ricantata da Fiorello («il mio favorito, oltre a te...»), la prima canzone scritta quand’era ancora matricola all’università, a giurisprudenza. «Il pianoforte non lo suono mai, giusto se viene qualche amico a cena, mi tocca strimpellare due cose. Del resto non l’ho mai suonato bene. L’ho studiato anche poco. Quattro anni da ragazzo, a Prosecco, vicino Trieste, dove mia madre vedova era stata trasferita per lavoro. L’insegnate era un prete, un certo don Krizman, che mi dava delle gran bacchettate sulle dita. E mi faceva sempre uno stupido scherzo con un finto bicchiere mezzo pieno... Non lo sopportavo più, e chiesi a mia madre di smettere. Per il resto ho sempre suonato a orecchio».

Fazio gli chiede dell’incontro con Louis Armstrong. «Lo vidi a Milano, andammo assieme a cena. Non era un aristocratico, si puliva i denti con le dita. Mi faceva una gran tenerezza...».

Per il conduttore è il crollo di un mito o poco via. E cambia argomento: cos’è lo swing? Luttazzi parte da un esempio: «Quando il pubblico batte le mani fuori tempo, uccidendo il ritmo, o quando fa la ”ola”, mi viene da suicidarmi...». Poi, dopo un esempio di battere e levare, con le mani e con il piede, dice: «Non mi ricordo più la domanda... Ah sì, ecco, questo è lo swing...».

Finale in gloria. Fazio ricorda che sta per uscire un dvd, regia di Pupi Avati, con la storia del musicista e conduttore triestino. Gli rinnova l’invito a tornare. Luttazzi ribadisce: «Se sarò vivo...».

giovedì 21 febbraio 2008

BORIS PAHOR DA FAZIO


Forse c’è voluto Fabio Fazio, ieri sera su Raitre, nel suo «Che tempo che fa», per sdoganare definitivamente anche in Italia il triestino di lingua slovena Boris Pahor. Per riparare a un torto, a un’ingiustizia, forse più semplicemente a un’ottusità: quella di chi ha permesso - nella nostra città prim’ancora che nel nostro paese - che uno scrittore come Pahor, classe 1913, fosse sconosciuto a casa sua. A casa sua, ma non nel resto del mondo. Dove è tradotto e apprezzato da almeno vent’anni.

Il suo «Necropoli» (per Le Monde «un libro sconvolgente, la visita a un campo della morte e il riaffiorare di immagini intollerabili descritte con una precisione allucinata e una eccezionale finezza di analisi...») è uscito nel ’67. In questi quarant’anni ha avuto traduzioni nelle lingue di mezzo mondo, ma in Italia è stato pubblicato per la prima volta (a parte un’edizione locale nell’Isontino) solo pochi mesi fa da Fazi Editore. In Francia gli hanno assegnato la Legion d’Onore. E premi sono arrivati persino dagli Stati Uniti.

Quando Fazio gli chiede come tutto ciò possa essere accaduto, lui risponde pacato: «Lo ha spiegato bene Paolo Rumiz su Repubblica: ”Per troppo tempo ha fatto comodo non si sapesse che nella città italianissima c´era un grande capace di scrivere in un’altra lingua - la stessa che il fascismo aveva negato a suon di manganello, sputi e olio di ricino - e mettere con i suoi capolavori il dito sulla piaga...”».

Poi Boris Pahor - elegante nel doppiopetto grigio e tonico nei suoi vitalissimi novantacinque anni - ha raccontato del nostro martoriato confine orientale. «Gli anni Venti sono stati il periodo più brutto per Trieste, sotto l’Austria eravamo una città ricca, poi gli uomini di cultura e anche i sacerdoti sloveni sono stati mandati via. Nel 1920 hanno cominciato a bruciare le case di cultura slovene, quando il fascismo è andato al governo ci hanno tolto la lingua, hanno bruciato i nostri libri, ci hanno cambiato nomi e cognomi. Una vera e propria pulizia etnica ”romana”, perchè sloveni e croati dell’Istria dovevano diventare italiani...».

Ancora Pahor: «Lo hanno detto loro stessi: la rivoluzione fascista è nata a Trieste, quando abbiamo cominciato a ripulire la città...». Poi lo scrittore racconta la tragedia nel campo di concentramento, il lavoro prima come interprete e poi da infermiere, il contatto diretto con la morte. E infine quel viaggio vent’anni dopo, negli anni Sessanta, che ispirò il racconto di «Necropoli».

C’è il tempo per una riflessione: «Credo ancora nell’umanità dell’uomo, ma il problema è come fare che la bontà si affermi. Oggi molti hanno tanto. Ma dove lo trovi un cristiano che magari ha tre automobili che ne regali una a chi ne ha bisogno...». Poi il saluto in sloveno, sollecitato dal conduttore. E il pensiero finale «a quelli che non sono tornati».

Dopo gli articoli su Repubblica, sul Corriere della Sera, su tanti altri giornali, possiamo dire che fra le 20.30 e le 21 di ieri sera, grazie all’intervista televisiva, l’Italia ha scoperto Boris Pahor. Che negli anni scorsi è stato più volte candidato al Premio Nobel per la letteratura. Sarebbe stato imperdonabile, nel caso di una vittoria che potrebbe ancora arrivare, che qualcuno, a Trieste e in Italia, dovesse dire ”Boris chi...?».

Chissà, forse il futuro di questa città e di questo paese potrebbe partire anche da piccoli grandi gesti come questo: restituire al triestino sloveno Boris Pahor il posto che gli compete nella storia della letteratura. E nella storia delle nostre terre.


domenica 17 febbraio 2008

Album in bilico fra pop e canzone d'autore, fra cultura alta e popolare, con

citazioni letterarie e cinematografiche




BAUSTELLE, IL MIGLIOR ROCK ITALIANO IN UN «AMEN»




Il tour del gruppo di Montepulciano comincia venerdì 29 febbraio da

Pordenone



di Carlo Muscatello

Si chiamano Baustelle, vengono da Montepulciano e possono essere tranquillamente considerati come il gruppo più creativo, originale e stimolante della scena rock italiana. Lo si era già intuito tre anni fa, all'ascolto di «La malavita», il loro terzo album, che metteva ordine alle tante buone idee presenti nei primi due dischi («Sussidiario illustrato della giovinezza» del 2000, «La moda del lento» del 2003). Ora la conferma arriva da «Amen» (Warner), anticipato dal singolo «Charlie fa surf»: un album sontuoso, in bilico fra pop e canzone d'autore, fra cultura alta e popolare, fra cronaca e citazioni letterarie e cinematografiche, senza dimenticare qualche dichiarazione d'amore all'elettronica e alla new wave. Un disco vivo, che cattura l'ascoltatore al primo ascolto.

Si parte con la magia del pianoforte di Mulatu Astatke: «È così sia» sono venti secondi sospesi fra echi africani e reminiscenze jazz. Ma è solo l'avvio, il segnale convenuto. Tre, due, uno... le chitarre elettriche di «Colombo» fanno partire le danze. «Siamo architetti ricchi di Bel Air, e vecchie dive del noir, abbiamo ville, abbiamo cadillac, ed uccidiamo per soldi come te...». La voce di Francesco Bianconi (un po' Garbo, un po' persino De Andrè) si alterna a quella di Rachele Bastreghi, i cui occhi magnetici troneggiano in copertina (il terzo Baustelle è Claudio Brasini).

La metafora imperniata sul Tenente Colombo, che punisce i ricchi e cattivi, schiavi del potere e della violenza, lascia il posto a «Charlie fa surf» ( http://www.youtube.com/watch?v=g0JlEbgJf8o ). L'ispirazione nasce da un'installazione di Maurizio Cattelan, ma prim'ancora al vecchio «Apocalipse Now». «Vorrei morire a quest'età, vorrei star fermo mentre il mondo va, ho quindici anni. Programmo la mia drum machine e suono la chitarra elettrica: vi spacco il culo...». Manifesto di ribellione adolescenziale, contro famiglia, scuola, religione, istituzioni... Praticamente contro tutto.

«Il liberismo ha i giorni contati» vira su un'atmosfera onirica, almeno nelle prime battute. Anna ha sepolto sogni e ideali e ora spera solo nella catastrofe definitiva. Quella da porre a suggello del fallimento di una

società regolata soltanto dal denaro, dall'economia, dalle leggi del mercato.

«L'aeroplano» è la disillusione di chi ha cercato un senso all'esistenza; «Baudelaire» spiega che l'unico motivo per restare in vita è scrivere, affrontare la vita come fosse una poesia; «L.» è una canzone d'amore sospesa nello spazio («sui monitor: segnali di Laura dovunque...»). «Antropophagus» nasce dall'osservazione del piazzale della stazione centrale di Milano, in una domenica di sole. Un ghetto di extracomunitari (poveracci dell'Est, africani, ma anche barboni italiani) che mangiano i rifiuti dell'opulenta

società occidentale. Ma poi finiscono per mangiarsi l'uno con l'altro. Antropofagi, appunti.

«Panico!» è una «preghiera contro l'inquietudine», una preghiera per combattere il panico e abbandonarsi alla vita; «Alfredo» è l'agghiacciante, ultima, immaginaria confessione di Alfredino Rampi, il bambino morto nel pozzo di Vermicino nel, in diretta televisiva, a soli sei anni; «Dark room» ci porta in una discoteca, con una donna in cerca di incontri sessuali. Le scenario cambia con «L'uomo del secolo»: il '43, un nonno che era stato comunista e che un giorno disertò. «La vita va» e «Andarsene così»

concludono quello che finora (ma siamo solo a febbraio...) è il miglior disco italiano dell'anno.


 

venerdì 15 febbraio 2008

CONVEGNO SU CRISI POLITICA


TRIESTE La gente non sopporta più la politica. O almeno questa politica. Ma se stiamo parlando dell’arte di risolvere i problemi, di trovare soluzione ai problemi collettivi, dice Alessandro Maran (deputato del Partito Democratico), «allora è proprio da lì che dovremmo ricominciare, dai problemi concreti della gente».

Interrogarsi sulla crisi della politica mentre stiamo precipitando nel vivo dell’ennesima campagna elettorale potrà sembrar esercizio bizzarro. Ma il neonato Laboratorio Democratico Bruno Pincherle (pediatra epurato durante il fascismo perché ebreo, intellettuale antifascista di grande cultura e rigore morale, scomparso nel ’69) aveva pensato al convegno «Crisi della politica. Quali pericoli? Quali vie d’uscita?», svoltosi ieri alla Stazione Marittima, prima che un magistrato di Santa Maria Capua Vetere mettesse agli arresti domiciliari la signora Mastella, con tutto quel che in rapida successione ne è conseguito. «Una giurisdizione così malmessa - ha fatto notare Renato Romano, dirigente della Corte d’Appello - è stata capace di essere l’innesco per una crisi di governo che ha portato alle elezioni anticipate». Anche se questa crisi, come ha notato più d’uno, è più ampia di una semplice crisi di governo.

Ma andiamo per ordine. «Il punto di partenza di questa crisi della politica - secondo Gabriele Pastrello, docente universitario, che ha coordinato il convegno, aperto dal presidente dell’associazione, Piero Alzetta - va ricercato nella modernizzazione monca degli anni Ottanta». Mentre comincia la rivoluzione tecnologica l’Italia punta sul mondo delle piccole e medie imprese. Nasce anche da lì una crisi di rappresentanza, domande che non trovano risposte, vecchi partiti che vanno in crisi mentre crescono i localismi e la frammentazione. La società dei coriandoli, come ha detto qualcuno.

Sbaglia chi pensa sia un problema solo italiano. «Ma da noi - dice Paolo Segatti, docente di sociologia - la debolezza dello stato si sposa a un eccesso della politica. I partiti controllano ambiti decisionali troppo vasti, a nord come a sud». Bisognerebbe allora limitare l’intervento della politica. E la stessa vicenda della legge regionale sulla lingua friulana si inserisce in questo contesto: assenza di discussione e autonomia decisionale della classe politica.

Maran, che è stata una delle voci più decise nel centrosinistra contro quella legge voluta dalla sua maggioranza, evita di affondare il colpo. Segnala invece che il malcontento nei confronti della politica non è un fatto solo italiano: è diffuso, e forse è figlio di un miglioramento delle condizioni di vita delle persone. «Per la gente oggi conta di più la qualità della vita che la crescita economica. Manca un modello condiviso della società italiana: ciò ha eroso anche l’efficacia delle riforme». Per la scuola, per la giustizia l’Italia spende molto ma ottiene meno di paesi dove i fondi a disposizione sono inferiori.

La giustizia, un nervo scoperto. Questa crisi - secondo Romano - «è il confronto fra due debolezze: quella della politica e quella della giurisdizione, in un paese dove c’è la tendenza a considerare le regole un impaccio, dove c’è un’insofferenza nei confronti delle regole che fa da sfondo al conflitto fra i poteri». Sì, perchè anche in passato è successo che ogni potere tentasse di sconfinare nel terreno di un altro potere. L’esecutivo con i decreti legge, i pretori d’assalto con certe sentenze particolarmente innovative. Poi si è affermata, già prima del ’92, la volontà di perseguire la moralizzazione della politica attraverso la giustizia. E i politici hanno cominciato a pensare che l’azione della magistratura fosse dettata da fini politici. «Ciò - secondo il dirigente della Corte d’Appello - ha eroso l’autorità dell’azione giurisdizionale, minando il consenso civile nei confronti della magistratura». Eccesso di politica, allora? No, eccesso di cattiva politica. E la crisi di quest’ultima si inserisce nella crisi complessiva delle classi dirigenti di questo paese.

<IP9>In questo contesto è nato il Partito Democratico, «in una fase di emergenza - sottolinea Francesco Russo, già dirigente della Margherita - e nella consapevolezza dei nostri vecchi partiti dell’esaurimento delle rispettive spinte propulsive. Oggi i partiti sono simulacri, rispetto a quel che erano in passato. Ma hanno molto più potere a livello, per esempio, delle nomine di secondo livello...».

Nostalgia dei vecchi partiti di massa, nelle cui sezioni poteva capitare che anche il parlamentare si trovasse a rispondere alle domande del semplice iscritto? Forse. Ma rimane il fatto che ieri i partiti interpretavano la società del Novecento, mentre oggi le domande di rappresentanza rimangono inevase. «E i partiti - conclude Russo - devono tornare a essere contendibili. In Italia un Barack Obama non riuscirebbe a emergere...».

lunedì 11 febbraio 2008

GRAMMY AWARDS


Cinque Grammy Awards per Amy Winehouse, l’altra notte allo Staples Center di Los Angeles. Ma la talentuosa cantante ventiquattrenne non era presente, perchè le era stato negato il visto d’ingresso negli Stati Uniti per i suoi sbandierati abusi di alcol e droga. Amy ha dunque partecipato alla serata in collegamento via satellite da uno studio londinese. In realtà il visto alla fine le era stato concesso. Ma quasi fuori tempo massimo, e la cantante inglese, da poco uscita da una clinica per trattamenti di disintossicazione, non è potuta partire per gli States.

Amy Winehouse ha vinto i premi per le categorie miglior registrazione, miglior canzone (entrambi per «Rehab», dove lei canta «hanno provato a farmi andare in riabilitazione ma io ho detto no, no, no...»), artista rivelazione, miglior performance pop vocale femminile e miglior album pop vocale («Back to black», cinque milioni di copie vendute in tutto il mondo).

Cinque dei sei premi cui era candidata: non le è riuscito l’en plein, perchè la sorpresa della cinquantesima edizione degli Oscar della musica, maggior evento dell'industria musicale mondiale, è stato Herbie Hancock, il pianista statunitense che, contro tutti i pronostici, ha conquistato il premio più importante, quello per il miglior disco dell'anno: l'omaggio a Joni Mitchell intitolato «River: The Joni letters».

L’album del jazzista - che ha suonato assieme al pianista asiatico Lang Lang il classico di Gershwin «Rhapsody in Blue», salutato da una standing ovation - è stato preferito a «Back to Black» della Winehouse e «Graduation» di Kanye West (star dell’hip hop statunitense, otto nomination ma solo quattro premi), che avevano sbancato le classifiche ed erano considerati gli album da battere.

La vicenda di Amy Winehouse rischia di riportare il mondo del rock ai drammatici mesi che all’inizio degli anni Settanta si portarono via in meno di un anno Jimi Hendrix, Janis Joplin e Jim Morrison, morti per droga rispettivamente nel settembre ’70, nell’ottobre ’70 e nel luglio ’71. Le persone vicine alla cantante nata a Enfield, nel Middlesex, e cresciuta a Southgate (Londra), dicono che i suoi problemi nascono da disordini di tipo alimentare (è passata negli anni scorsi dalla bulimia all’anoressia alle psicosi maniaco-depressive), proseguono con «un’insicurezza cronica che rende parossistica la sua fragilità», ma si aggravano col fatto di avere un marito tossico, tale Blake Fielder-Civil, in carcere da tre mesi per aver aggredito un barman con il quale stava contrattando l'acquisto di droga.

La stessa Winehouse (nel cui sangue sono stati trovate tracce di alcol, eroian, cocaina, ecstasy, ketamina...) è stata arrestata nell’ottobre scorso in Norvegia per possesso di marijuana, poi rilasciata dietro pagamento di una cauzione. A novembre, in occasione degli Mtv Europe Music Awards, per due volte la cantante è salita sul palco in apparente stato confusionale. Per gli stessi motivi, nelle stesse settimane, il suo tour inglese è stato interrotto.

Un mese fa Scotland Yard viene in possesso di un video di diciannove minuti (lo scoop è del giornale The Sun) nel quale si vede la cantante nella sua casa londinese che fuma crack e ammette di avere preso «sei valium per calmarsi». Una vita, prim’ancora di una carriera, che rischia dunque di schiantarsi a soli ventiquattro anni lungo una china autodistruttiva.

A Los Angeles, l’altra notte, premi anche a Justin Timberlake, Foo Fighters (miglior album rock), Chaka Khan, Beastie Boys, Michael Bublè, Bruce Springsteen (miglior canzone rock, «Radio Nowhere»), White Stripes, Alejandro Sanz (miglior album di pop latino), Rihanna.

Un grammofono d’oro anche ad Alicia Keys, miglior canzone r’n’b e miglior performance r’n’b con «No one», protagonista di un duetto virtuale con Frank Sinatra nella celebrazione del cinquantennale che ha aperto la serata. Delusione per Beyoncè, rimasta a bocca asciutta, che si è consolata con un duetto assieme a Tina Turner. Un premio anche ai Beatles, rappresentati da Ringo Starr e Yoko Ono, per le canzoni dello spettacolo del Cirque du Soleil. A Los Angeles l’unico italiano presente era Andrea Bocelli.

domenica 10 febbraio 2008

 


YES, WE CAN


E' stato un credo, scritto dai padri fondatori, che dichiararono il destino di una nazione.

Sì, noi possiamo.



È stato sussurrato da schiavi e abolizionisti, che tracciarono un sentiero verso la libertà.

Sì, noi possiamo.



È stata cantata da immigrati catturati da lidi lontani e pionieri, spinti verso ovest in uno spietato deserto.

Sì, noi possiamo.



È stata la chiamata di lavoratori che si sono organizzati; donne che hanno ottenuto il diritto di voto; di un Presidente che ha scelto la luna come nuova frontiera; e un Re, che ci ha condotto alla vetta e indicato la strada per la Terra Promessa.



Sì, noi possiamo per la giustizia e l'uguaglianza.

Sì, noi possiamo per la prosperità e l'opportunità.

Sì, noi possiamo guarire questa nazione.

Sì, noi possiamo riparare il mondo.

Sì, noi possiamo.



Sappiamo che la battaglia sarà lunga, ma dobbimo ricordare che non importa quali ostacoli incontreremo nel nostro cammino, nulla può frapporsi al potere di milioni di voci chiedono il cambiamento.



È stato detto che non possiamo farlo da un coro di cinici... saranno solo più forti e stonati... Ci hanno chiesto di fermarci e guardare realtà. Siamo già in guardia contro chi offre al popolo di questa nazione false speranze.



Ma nella strana storia che è l'America, non vi è mai stato nulla di falso nella speranza.



Ora le speranze della bambina che va a scuola in un sobborgo di Dillon, sono gli stessi sogni del ragazzo che studia per le strade di Los Angeles; noi ci ricorderemo che qualcosa è successo in America; che noi non siamo così divisi come ci suggerisce la politica; che siamo un unico popolo; una nazione; e, insieme, inizieremo il prossimo grande capitolo della storia americana con tre parole che risuoneranno da costa a costa, dal mare al mare splendente:



Sì, noi possiamo.


 

 


 


...YES, WE CAN...


 


http://canali.libero.it/affaritaliani/videoobamacanzone040208.html


 


 

SHEL / Shel Shapiro è nato a Londra nel ’43 e vive in Italia dal ’63, quando con i suoi Rokes (gruppo inglese attivo fra il ’61 e il ’70) capitò per caso nel nostro Paese. I quattro ragazzoni - oltre a Shel: Mike, Bob e Johnny - erano arrivati come gruppo del cantante Colin Hicks, che però si ammalò l’ultimo giorno della tournèe. Finì che sul palco ci andarono da soli, che Shel sostituì il cantante e che il successo fu immediato e travolgente. Seguirono un contratto discografico con la Rca e una sfilza di successi a 45 giri: da «Piangi con me» a «Bisogna saper perdere» (Sanremo ’67), da «Eccola di nuovo» a «E la pioggia che va», fino all’indimenticata «Che colpa abbiamo noi». Erano spesso cover di brani inglesi o americani, ma fecero dei Rokes uno dei gruppi protagonisti del beat italiano. Shel, come si diceva, è rimasto in Italia. Ha proseguito la sua carriera come autore, arrangiatore e produttore, lavorando fra gli altri con Mina, Patty Pravo, Gianni Morandi, Mia Martini, Enrico Ruggeri, Riccardo Cocciante... Ha realizzato anche alcuni album solisti. E dopo oltre quarant’anni parla ancora quel caratteristico italiano con accento inglese che fu il marchio di fabbrica vocale dei suoi Rokes.

Ora esce un suo nuovo album, intitolato «Acoustic Circus» (Promo Music/Egea), registrato dal vivo nel maggio scorso al Teatro Comunale di Modena. Il disco viene pubblicato in contemporanea col libro «Storie, sogni e rock’n roll» di Edmondo Berselli, con cui il musicista ha firmato anche lo spettacolo/concerto «Sarà una bella società», che ha debuttato l’estate scorsa al Mittelfest di Cividale.

Riascoltiamo in versione acustica vecchi successi («Che colpa abbiamo noi», «È la pioggia che va», «C’è una strana espressione nei tuoi occhi», «Bisogna saper perdere»...) assieme a nuove/vecchie canzoni. Come «Eldorado», che apre l’album; «Quante volte», scritta anni fa a quattro mani con Mia Martini; le cover di Bob Dylan «Master of war» (che in italiano diventa «L’uomo che sa», con ospite Fabio Treves all’armonica), dei Beatles «Eleaonor Rigby», di Cat Stevens «Wild world», dei Rem «Losing my religion». E poi c’è «Fiume Sand Creek», di Fabrizio De André, che in inglese diventa «River Sand Creek» («nasce un paio di anni fa - spiega Shel - dalla richiesta di Dori Ghezzi di adattare tre canzoni di Fabrizio in inglese per Patti Smith molto interessata alla sua musica...»). E anche «Per amore della musica», che dava il titolo a un album dell’87.

«Non è un’operazione nostalgia — dice ancora Shapiro — ma il ritorno indietro lungo un decennio che si sarebbe definito molto tempo dopo ”gli anni Sessanta”, quando i sognatori si sarebbero trovati ad accettare il posto in banca...».

Ascoltando canzoni vecchie e nuove, si ha la conferma del fatto che non si tratta di patetico revival. Anzi, sembra di respirare nuovamente, oggi come allora, l’urgenza del cambiamento, l’insurrezione contro il conformismo, contro le convenzioni, contro una società che è cambiata non ancora abbastanza e forse non nella direzione sperata.

Shel Shapiro «continua - come si legge in copertina - a sperimentare e cercare il presente nel dialogo con la Storia, quale manifestazione del contemporaneo». Un modo intelligente di ricordare musicalmente il demonizzato Sessantotto, giusto quarant’anni dopo.


POOH / Negli anni di Shel Shapiro e dei Rokes c’era il beat. E i Pooh erano uno dei tanti complessi - i gruppi si chiamavano così, allora - che sgomitavano in una scena vitalissima. Sono passati quarant’anni, la quasi totalità di quei complessi non c’è più, ma i vecchi Pooh sono ancora in campo. Trasformati in un’efficace azienda (disco, tour, nuovo disco, nuovo tour...) della musica leggera italiana.

Il loro nuovo album, «Beat ReGeneration» (Atlantic Warner), è un omaggio a quegli anni, a quei protagonisti, a quell’epoca. I quattro rileggono dodici canzoni del miglior beat italiano, rigenerandole. Erano quasi tutte cover di pezzi inglesi o americani, dunque i Pooh fanno... le cover delle cover. Ma l’operazione funziona, in certi casi addirittura meglio dell’originale. Si va da «È la pioggia che va» e «Che colpa abbiamo noi» (Rokes, ’66) a «La casa del sole» (Bisonti, ’65), da «Pugni chiusi» (Ribelli, ’67) a «Un ragazzo di strada» (Corvi, ’66), da «29 settembre» (Equipe 84, ’67) a «Eppur mi son scordato di te» (Formula 3, ’71), con alla fine un’incursione nell’allora nascente pop italiano: «Gioco di bimba» (Orme, ’72).

«Abbiamo voluto scegliere quei testi - spiegano i Pooh - che sono stati importanti per una generazione che cantava a una sola voce la stessa canzone. Era la generazione del cambiamento. Abbiamo scelto queste canzoni per affetto in mezzo a migliaia. Tanto è vero che questo è stato un disco difficile, o forse il più difficile dei Pooh, dato che ci sono voluti tre mesi di sala di incisione e molta preproduzione: era necessario capire come farlo, anche se l'idea c'era già da più di un anno e mezzo, alcuni singoli erano talmente perfetti che abbiamo deciso di non riproporli, saremmo caduti sul già fatto...».

Dal 29 marzo «Beat ReGeneration» è in tour. Partenza da Mantova. Il 2 aprile al PalaTrieste.


DALLA / Un doppio cd e un doppio dvd registrati a Bologna nel novembre scorso, durante una tappa del trionfale tour teatrale «Il contrario di me». Un tour che ha fatto registrare in oltre 40 teatri italiani il tutto esaurito e che, a detta di molti, ha portato in giro «il più bel concerto di Dalla e senza dubbio il più affacinante». Con lui: Ricky Portera e Bruno Mariani alle chitarre, Fabio Coppini alle tastiere, Roberto Costa al basso, Maurizio Dei Lazzaretti alla batteria, Gionata Colaprisca alla percussioni, la corista Iskra Menarini e l’attore Marco Alemanno che ha interpretato alcuni momenti di recitazione. Nel cd e nel dvd (regia: Ambrogio Lo Giudice), tutti i grandi classici del cantautore bolognese.


SPOT / Esistono musiche che sono diventate notissime grazie a uno spot pubblicitario. Ecco allora questa prima raccolta di musiche per la pubblicità realizzate da Ferdinando Arnò. Un disco che «trova il sound, l’accento che dà corpo a un’idea visiva, a un racconto - spiega l’autore –. La musica, infatti, può lavorare per empatia, per contrasto, per sottrazione, perché non esiste un brano perfetto, ma un’idea musicale che esalta l’impatto espressivo del commercial...». Al progetto hanno collaborato Malika Ayane (che canta anche il brano di apertura «Soul weaver», pubblicità della Saab), Jon Kenzie, Sandy Chambers, Luca Colombo e Marco Guerzoni