sabato 23 febbraio 2008

LELIO LUTTAZZI DA FAZIO


Ancora grandi vecchi triestini a «Che tempo che fa», da Fabio Fazio, su Raitre. La settimana scorsa lo scrittore Boris Pahor, classe 1913; ieri sera il musicista Lelio Luttazzi, classe 1923. È sabato sera, e il conduttore simbolo della tivù in bianco e nero degli anni Sessanta attacca regalando qualche minuto di grande jazz, al pianoforte, col suo trio.

Ringrazia per l’applauso ma bofonchia: «Ho fatto tre o quattro sbaglietti, del resto il pianoforte non lo suono quasi più...». Cosa ha fatto in tutti questi anni? «Niente, non sono portato per il lavoro. Ho scavalcato il marxismo da sinistra, posso dire che sono contrario politicamente al lavoro. E non è vero che senza il lavoro il mondo si ferma, perchè ci sono sempre quelli che dicono: io senza lavoro non potrei stare. Dunque...».

Fazio ci prova: «Perchè non facciamo qualcosa assieme, in televisione?». Lui lo blocca con un triestinissimo «sta bòn», poi prosegue così: «Devo vedere se sarò ancora vivo, sai, faccio ottantacinque anni ad aprile. E comunque, dopo questo cd (”Lelio Luttazzi Trio - Le mie preferite”, uscito a gennaio - ndr), non voglio fare assolutamente più nulla. È il mio batterista che ogni tanto mi organizza qualcosa, e io sono costretto ad accettare...».

Ancora Fazio: «Ma cosa fai tutto il giorno?». Qui Luttazzi (elegante nell’abito blu, fazzoletto nel taschino, ogni tanto si mangia le parole) tira fuori le doti del vecchio entertainer: «Guardo la tivù fino alle due di notte, poi leggo fino alle quattro, quando mi addormento. Mi alzo alle undici, e fra una cosa e l’altra arrivano le cinque. Ora in cui riaccendo la tivù, ne una bella grande, "al plasmon", è la mia finestra sul mondo, è come stare al cinematografo. L’ascolto in cuffia, perchè sono un po’ sordo. Poi arriva l’ora di cena, si perde un po’ di tempo, e si ricomincia...».

Ti manca il pubblico? «Beh, pare un po’ brutto dirlo, ma per la verità... state pure tranquilli, che io sto lì...». Cosa ti dà fastidio? «Gli applausi finti, quasi disperati. Il pubblico che fa di tutto per farsi inquadrare. Quelle cose lì».

È il momento dei ricordi triestini, de «Il giovanotto matto», recentemente ricantata da Fiorello («il mio favorito, oltre a te...»), la prima canzone scritta quand’era ancora matricola all’università, a giurisprudenza. «Il pianoforte non lo suono mai, giusto se viene qualche amico a cena, mi tocca strimpellare due cose. Del resto non l’ho mai suonato bene. L’ho studiato anche poco. Quattro anni da ragazzo, a Prosecco, vicino Trieste, dove mia madre vedova era stata trasferita per lavoro. L’insegnate era un prete, un certo don Krizman, che mi dava delle gran bacchettate sulle dita. E mi faceva sempre uno stupido scherzo con un finto bicchiere mezzo pieno... Non lo sopportavo più, e chiesi a mia madre di smettere. Per il resto ho sempre suonato a orecchio».

Fazio gli chiede dell’incontro con Louis Armstrong. «Lo vidi a Milano, andammo assieme a cena. Non era un aristocratico, si puliva i denti con le dita. Mi faceva una gran tenerezza...».

Per il conduttore è il crollo di un mito o poco via. E cambia argomento: cos’è lo swing? Luttazzi parte da un esempio: «Quando il pubblico batte le mani fuori tempo, uccidendo il ritmo, o quando fa la ”ola”, mi viene da suicidarmi...». Poi, dopo un esempio di battere e levare, con le mani e con il piede, dice: «Non mi ricordo più la domanda... Ah sì, ecco, questo è lo swing...».

Finale in gloria. Fazio ricorda che sta per uscire un dvd, regia di Pupi Avati, con la storia del musicista e conduttore triestino. Gli rinnova l’invito a tornare. Luttazzi ribadisce: «Se sarò vivo...».

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