martedì 30 agosto 2005

L’ombra di un lampione e di un uomo che cammina in Ponterosso. Il relax ai bagni comunali che profuma di un vecchio film di Ozpetek. Il muso inzaccherato e impertinente di due maialini in Toscana. Soldati timidi e impauriti della breve guerra di Slovenia, nel ’91. Povera gente, carica di figli e borsoni, alla stazione di Opicina...

Sono alcune delle immagini - rigorosamente in bianco e nero - che sbucano fra i «Pupoli» di Massimo Cetin (Emme&Emme, Portfolio 01/2005, distribuzione gratuita, contatto@emmeemme.info). Primo capitolo di quella che vuol essere - nelle intenzioni dell’autore ed editore - «una collana dedicata ai fotografi triestini, un’iniziativa per promuovere e far girare la fotografia...».

Cetin, nato a Trieste nel ’65, è uno dei migliori giovani professionisti dell’immagine emersi negli ultimi anni dalla scena giornalistica ed editoriale del Nordest. Ha cominciato a lavorare nell’84, collaborando a Messaggero Veneto, TriesteOggi, Meridiano, Cronaca del Nordest e Gazzettino. Ma le sue immagini sono apparse anche su Corriere della Sera, Repubblica, Stampa e Giornale. Nel ’92 ha partecipato alla mostra collettiva sulla guerra al Teatro Miela, sue immagini erano presenti in due volumi sulla Barcolana, recentemente ha curato il volume e la mostra «5404-Dodici fotoreporter a Trieste».

Nella prefazione, il giornalista Fausto Biloslavo parla di «un cocktail fotografico che riflette la sua bellezza in un’asciutta ma incisiva semplicità (...). Un biglietto da visita che parla da solo. Da situazioni apparentemente banali, Massimo riesce a fissare nello scatto il particolare o la curiosità trasformando ogni fotografia in una storia».

Ecco allora - per esempio - che le quattro chiacchiere dei detenuti nell’ora d’aria, «rubate» nel cortile del Coroneo nel ’91, o la solitudine di un uomo dietro le sbarre in un’aula di tribunale, sempre a Trieste e sempre nel ’91, forse dicono della condizione carceraria più di tanti articoli e inchieste, sempre alla ricerca del pettegolezzo e dello scandalo che non c’è, spesso privi di interesse oltre che di rispetto.

La collana inaugurata da «Pupoli» ha già in cantiere i prossimi capitoli. Dedicati a Marino Sterle, Giovanni Montenero, Andrea Lasorte, Claudio Ernè, Fabio Parenzan... «Ma vorrei - sottolinea Cetin, con la generosità che ha sempre contraddistinto la sua attività professionale - che tutti i fotografi triestini vi partecipassero. Questa iniziativa è una scatola da riempire. Gli interessati sanno dove trovarmi...».

Potrebbe essere un modo intelligente per far sì che la fotografia, in questi tempi di scatti alla portata di tutti, fra macchine digitali e videotelefonini, rimanga a pieno titolo nei territori dell’arte e dell’informazione. Con la dignità che le compete.
Il Corriere della Sera di ieri. Titolone in cultura: «I capolavori veneti vanno restituiti all’Istria». Sommario: «Oggi sono in mostra a Trieste, ma devono tornare da dove vengono». Lo firma Carlo Bertelli, docente di storia dell’arte, già funzionario delle Belle arti e direttore per tanti anni della Pinacoteca di Brera, a Milano. Si parla ovviamente delle opere esposte al Museo Revoltella nella mostra «Histria»: quadri che stavano nell’Istria italiana e che alla vigilia della Seconda guerra mondiale furono messi al sicuro in virtù della legge «Protezione delle cose d’interesse artistico, storico, bibliografico e culturale dalla distruzione in caso di guerra».

Bertelli sostiene che quelle opere italiane (Paolo Veneziano, Vittore e Benedetto Carpaccio, Alvise Vivarini, Giambattista Tiepolo...) andrebbero restituite a Capodistria, «bellissima città veneziana, che ha una piazza intitolata a Vittore Carpaccio», anche per un problema di convenienza politica. «Da Capodistria emigrarono (sic... - ndr) per l’Italia quasi 8000 cittadini. Eppure vi sussiste ancora una comunità italofona; vi ha avuto successo per anni la Radio Capodistria in lingua, anche, italiana; vi si stampano poesie dialettali e in italiano».

«È opportuno - si chiede il critico - privare questa città di una parte rilevante della sua storia? Sono opportune queste recriminazioni, ora che la Slovenia è entrata nella Comunità europea? C’è un interesse italiano a slavizzare ulteriormente l’Istria o si agisce, anche in questo caso, non già nell’interesse nazionale ma unicamente per avere più voti in patria?»

Bel quesito. «Che parte - osserva Paris Lippi, assessore alla cultura del Comune di Trieste - da un punto di vista e da una volontà teoricamente condivisibili. Bertelli pensa che ci sia la voglia, oltreconfine, di tutelare il patrimonio culturale italiano. A me risulta il contrario. Se idealmente il discorso ha una sua logica, nel concreto no. Una questione difficile, visto come si stanno muovendo, in Croazia ma anche in Slovenia, nei confronti della minoranza italiana».

Molto meno diplomatico, come peraltro è suo costume, Vittorio Sgarbi. Che è poi quello che, quand’era sottosegretario ai Beni culturali, ha tirato fuori i dipinti in questione dalle cantine di Palazzo Venezia, dove erano rimasti chiusi per oltre mezzo secolo. «Quelle di Bertelli - spara il critico - sono considerazioni peregrine. È come dire che i Bronzi di Riace vanno restituiti alla Grecia. E poi proprio lui, che è stato direttore della centralistica Pinacoteca di Brera, ricca di capolavori portati via a Napoleone. Perchè non li ha restituiti? Perchè non ha restituito a Urbino la Pala di Piero della Francesca? La verità è che lui fa un ragionamento futuribile, esprime un auspicio. Mentre io opero in nome della legge».

"Le opere d’arte stanno bene nel luogo dove sono nate - osserva Maria Masau Dan, direttrice del Revoltella - ma c’è anche una questione di legittima proprietà. È difficile prendere posizione, ma se la restituzione servisse a rafforzare la presenza italiana in Istria...».

«Il discorso - rilancia Sgarbi - potrebbe avere una sua logica, comunque futuribile, nell’ambito di relazioni e accordi che prevedessero, per esempio, la restituzione delle case abbandonate ai profughi istriani. Ma così...».

Si è mosso anche Massimiliano Lacota, presidente dell’Unione degli Istriani, che ha inviato al «Corriere» una lettera per rilevare alcune imprecisioni dell’articolo. E per dire: «Innumerevoli altri capolavori scomparvero durante la repressione jugoslava in Istria: quadri, manufatti, argenteria, intere biblioteche sottratte a conventi e chiese...».<IP9> Quadri e libri, secondo Lacota, finiti anche in abitazioni private.

«Comunque - conclude Lippi - queste opere sono italiane, a Trieste servono, dunque... La verità è che stiamo cercando il sito più adatto per valorizzarle. C’è il progetto delle Scuderie di Miramare, ma non escludo nemmeno la possibilità dell’ex Pescheria, se non sarà dedicata solo all’arte contemporanea. O, perchè no, anche San Giusto...».

sabato 27 agosto 2005

«Una visione tridimensionale di parole e musica. Il tentativo di scomporre la realtà per armonizzare le esigenze della poesia e della telematica che oggi ci circondano...».

Vola alto Alberto Fortis, per spiegare il senso del suo nuovo disco «Fiori sullo schermo futuro», uscito un paio di mesi fa, che sta portando in giro nel tour che giovedì alle 21 fa tappa in Slovenia, al Perla di Nova Gorica.

Fortis, ma che fine aveva fatto?

«Io veramente sono sempre stato qui - risponde il cantautore nato a Domodossola nel ’55, che ha debuttato nel ’79 e nei primi anni Ottanta ha vissuto il momento di maggior successo - anzi no, ho vissuto e lavorato per lunghi periodi anche negli Stati Uniti. Diciamo che ormai sto un po’ in Italia e un po’ a Los Angeles, o a New York. Comunque ho fatto tredici album in venticinque anni, all’incirca un disco ogni due anni: mi sembra una buona media per mantenere un rapporto con il pubblico...».

In America che fa?

«Sono più di vent’anni che vado avanti e indietro. Già il mio terzo album, ”La grande grotta”, uscito nell’81, era frutto di una vacanza negli States. Poi nella seconda metà degli anni Ottanta ho studiato a New York, mentre nel ’92 ho partecipato a una riunione dei popoli nativi d'America (con circa trentamila tribù) nelle terre fra Arizona, New Mexico, Colorado e Utah, appassionandomi alla storia dei nativi americani. A Los Angeles ho registrato sia ”Dentro il giardino” che ”Angeldom”, usciti nel ’94 e nel 2001...».

Insomma, un Fortis «globalizzato»...

«Io credo che con la globalizzazione noi italiani possiamo esser favoriti. Da un punto di vista creativo facciamo la nostra figura, abbiamo tante idee. L’importante è puntare sempre sull’attualità e sull’autenticità. Certo, agli altissimi livelli dell’industria musicale le differenze di mezzi si fanno sentire. Lì non c’è partita...».

E di questi Stati Uniti versione Bush, che ne pensa?

«Sono assolutamente contrario alla politica guerrafondaia della dinastia Bush. Questa guerra è assurda, lo stanno capendo anche gli americani: doveva combattere il terrorismo, ha finito per espanderlo. La mia generazione aveva sognato un’altra America: quella di Martin Luther King, dei Kennedy, tutto sommato anche quella dignitosissima di Clinton...»

Il nuovo disco?

«È la sintesi degli opposti: i fiori rappresentano la quotidianità, lo schermo futuro è questa nostra epoca che viaggia a velocità supersonica. La sintesi è un compito difficile, quasi una scommessa. Del resto la vita è una continua alternanza di opposti. E il disco è anche il riassunto di venticinque anni di carriera...».

Per il quale ha chiamato a raccolta molti vecchi amici...

«Sì, ho riunito la famiglia musicale d'origine (Rossana Casale, Claudio Fabi, i Flying Foxes...) perché volevo registrare un album molto istintuale, come "La grande grotta", cercando già in sala d'incisione la genuinità dei suoni tipica delle esecuzioni dal vivo. Erano parecchi anni che non suonavamo insieme, ma abbiamo ritrovato subito il vecchio feeling artistico e nuove emozioni, creando quel magma musicale che è impossibile se non c'è lo stesso affiatamento che ci ha sempre legato nonostante la distanza e gli impegni diversi».

Nel disco ci sono vari riferimenti cinematografici.

«Il cinema mi ha sempre affascinato. "Fiori sullo schermo futuro" potrebbe essere paragonato alla pellicola "Minority Report" di Steven Spielberg per la contaminazione fra l'aspetto poetico e quello telematico, che nella realtà attuale sono in perpetua fusione e mutazione».

E a Los Angeles, la capitale del cinema...

«Qualche anno fa ho scritto la colonna sonora del film ”Cool crime”. Recentemente ho realizzato anche storyboard e colonna sonora di un film che ho proposto alla casa di produzione di Steven Spielberg: sono in attesa di risposta...».

Ma giovedì, a Nova Gorica, «Milano e Vincenzo» la fa?

«Certo, e anche ”La sedia di lillà”, e ”Settembre”, e ”Il duomo di notte”... Quest’ultima è stata inserita da un sondaggio fra le cento migliori canzoni pop-rock. Una grande soddisfazione».

giovedì 25 agosto 2005

Dopo Vasco c’è solo lui: Ligabue, per il popolo dei fan semplicemente «il Liga». Che sabato 10 settembre concluderà la grande estate rock 2005 con un unico megaconcerto al Campovolo (un aeroporto per velivoli privati, che ha già ospitato un concerto degli U2) di Reggio Emilia.

Niente tour, quest’anno per lui. Una data unica: prendere o lasciare. E i fan stanno prendendo. Alla grande. Presenze previste: fra i 200 e i 250 mila spettatori. Una platea sterminata, che pochissimi al mondo possono richiamare in una botta sola.

L’attesa è enorme, se è vero che la prevendita dei biglietti sta viaggiando a gonfie vele: oltre 150 mila tagliandi già staccati. Di questi, oltre seicento biglietti sono stati venduti a Trieste, al Ticket Point («molti anche a giovani sloveni e croati», segnala da Corso Italia Fabrizio Paglici).

E si può prevedere che alla fine - i biglietti si possono acquistare anche su www.ticketone.it - saranno circa duemila gli spettatori del concerto provenienti da Trieste e dall’intero Friuli Venezia Giulia.

Grandi numeri, insomma, per quello che promette di essere un grande evento. Quattro palchi, il più grande di ottanta metri quadrati e il più piccolo di quattordici, collegati da passerelle lunghe novantacinque metri e alte tre, con il Liga che passerà da uno all’altro a seconda delle fasi dello show: il rock degli esordi con la vecchia band dei Clandestino sul «palco vintage», le cose nuove con l’attuale gruppo sul palco principale, la parte acustica da solo con la chitarra, la canzone-teatro con Mauro Pagani.

Giusto per non farsi mancar nulla, fra un palco e l’altro saranno sistemati una decina di megaschermi. E trecento diffusori audio, settemila kw solo per le luci, millecinquecento persone al lavoro fra una cosa e l’altra...

Apertura dei cancelli a mezzogiorno, nove ore complessive di musica (supporter e dj set ovviamente compresi, a partire dalle 14), il rocker padano in scena a partire dalle 21. A ripercorrere i successi di una carriera cominciata discograficamente nel ’90, che sfoggia sei milioni di dischi venduti e poi libri e film di successo. Ma anche a presentare il nuovo attesissimo disco, intitolato «Nome e cognome», che uscirà il 16 settembre e che sarà anticipato il 2 settembre dal singolo «Il giorno dei giorni».

Del nuovo album, che arriva a tre anni e mezzo da «Fuori come va?», giusto per far sapientemente crescere l’attesa è stata per ora diffusa la cosiddetta «track list», che altro non sarebbe - per chi si ostina a parlar italiano - se non la lista dei titoli delle canzoni.

Eccoli: «Intro», «Il giorno dei giorni», «Happy hour»,«L'amore conta», «Cosa vuoi che sia», «Le donne lo sanno», «Lettera a G.», «Vivere a orecchio», «Giorno per giorno», «È più forte di me», «Sono qui per l'amore».

Una previsione facile facile? Sarà il disco più venduto dell’autunno 2005...
Siamo alle solite. Arriva Ferragosto e il tormentone estivo ancora non c’è.

Meglio: ce ne sono diversi, ma anche stavolta sembra mancare il brano, il

titolo, il ritornello, l’artista da collegare a filo doppio all’estate 2005.

Quello che spopola sulle spiagge, nelle radio, nelle suonerie dei

telefonini...

Fra gli aspiranti tormentoni possiamo segnalare diverse canzoni. L’ironica

«Vorrei cantare come Biagio» di Simone Cristicchi, la martellante «Tanto

tanto tanto» di Jovanotti, la pubblicitaria (nel senso che è usata da uno

spot...) «Parlo di te» di Pago. Ma anche «Marmellata#25» di Cesare

Cremonini, «Beautiful» di James Blunt, «Shiver» di Natalie Imbruglia, «Black

horse and cherry tree» di KT Tunstall. E persino «Welcome to my life» dei

Simply Plan, «Lasciala andare» di Irene Grandi, «Lascia che io sia» di Nek,

«Fotoricordo» dei Gemelli Diversi... Insomma, mettiamoci dentro anche la

sanremese «I bambini fanno oh», di Povia, in pista da mesi, e l’affollato

quadro è completo.

Dicevamo «anche stavolta sembra mancare il brano». Sì, perchè l’estate

scorsa è successa la stessa identica cosa, tanti «tormentini» ma nessun vero

tormentone: «Calma e sangue freddo» di Luca Dirisio, «Fuck it (I don’t want

you back)» di Eamon, «This love» dei Maroon 5, «Come stai» di Vasco Rossi,

«Il grande baboomba» di Zucchero, «Anvedi come balla Nando» di Teo

Mammuccari, e anche «Fuori dal tunnel» di Caparezza, che stava in giro da

mesi ma imperversò anche nella stagione estiva.

Nel 2003 lo scettro se l’erano divisi in due: il popolare Dj Bobo con

«Chihuahua» e i brasiliani Tribalistas con «Ja sei namorar». Prim’ancora, le

cose erano state più semplici: il 2002 era stato senza ombra di dubbio

l’anno di «Aserejè» delle sorelle spagnole Las Ketchup, il 2001 aveva visto

sul trono dell’estate «Solo tre parole» di Valeria Rossi (ma un po’ anche

«Me gustas tu» del movimentista Manu Chao), nel 2000 aveva imperversato «50

Special» dei Lunapop, quella del ’99 era stata l’estate di «Mambo n.5» di

Lou Bega. E c’erano state le stagioni delle lambade e della macarene.

Potremmo continuare a lungo, visto che la tradizione del tormentone estivo

affonda le radici nei gloriosi anni Sessanta. Quando le varianti agli

ingredienti necessari (strofe semplici, ritornello orecchiabile, temi

possibilmente vacanzieri...) erano davvero poche. Ve le ricordate? Le estati

di «Ti amo» con Umberto Tozzi e «Vamos a la playa» dei Righeira, di

«Un’estate al mare» con Giuni Russo e «Una rotonda sul mare» di Fred

Bongusto, di «Legata a un granello di sabbia» (Nico Fidenco),

«Abbronzatissima» (Edoardo Vianello), «Sapore di sale» (Gino Paoli)...

Sull’argomento quest’anno è uscito anche un libro, intitolato non a caso

«Legata a un granello di sabbia»: una ricerca di Enzo Gentile sul fenomeno

della canzone balneare italiana, sulle cosiddette colonne sonore

dell’estate. Un saggio fra cronaca e costume, ma anche un’indagine

trasversale che ricostruisce i cambiamenti della società italiana negli

ultimi quaranta e più anni.

Perchè ieri c’erano i 45 giri, i juke box, il Cantagiro, il Disco per

l’estate (il Festivalbar, quello c’era ma c’è ancora...). Tutti pronti a

celebrare «la canzone dell’estate». Oggi ci sono le suonerie dei telefonini,

le canzoni scaricate da Internet, gli «i-pod» per portarsi appresso tutta la

discoteca... E forse in questa offerta musicale assolutamente sterminata si

è ormai persa per strada anche la possibilità di identificare un’estate con

una sola canzone. Il tormentone, appunto.

 
TRIESTE Quest’anno Trieste ricorda Lucio Battisti con quasi un mese

d’anticipo sulla data dell’anniversario della morte. Sabato alle 21, in

piazza Unità, saranno ancora una volta i Dik Dik a proporre un

concerto-tributo in ricordo del cantante e autore morto il 9 settembre del

’98.

Gruppo storico degli anni Sessanta, i Dik Dik sono ormai da anni un trio

(Pietro «Pietruccio» Montalbetti, Erminio «Pepe» Salvaderi, Giancarlo

«Lallo» Sbriziolo) e portano avanti tuttora un’intensa attività

concertistica. Basti pensare che dopo il concerto triestino di sabato,

saranno domenica a Subiaco (Roma), lunedì e martedì in due centri in

provincia di Bari, mercoledì 17 di nuovo nella nostra regione, all’Arena

Alpe Adria di Lignano Sabbiadoro, e proseguiranno fino a settembre così, di

sera in sera, in giro per la penisola.

Dei vari gruppi e artisti che hanno legato il proprio nome a Battisti, i Dik

Dik sono forse - con la Formula 3 - quelli che hanno maggior titolo a

proporre un ricordo dell’artista scomparso. Non foss’altro perchè le loro

carriere sono cominciate praticamente assieme, e il loro sodalizio è durato

ben sette anni, durante i quali molti successi discografici del gruppo

(«Sognando la California», «Il mondo è con noi», «Guardo te e vedo mio

figlio», «Il vento», «Vendo casa», «Dolce di giorno», «Se io fossi un

falegname», «Io mi fermo qui», «Il primo giorno di primavera», «Senza

luce»...) portavano la firma Mogol-Battisti o quella del solo Mogol, assieme

agli autori del brano originale, nel caso delle cover.

Nonostante questa storia comune, da qualche tempo i Dik Dik vengono

«ostacolati» dalla vedova di Battisti, Grazia Letizia Veronese. Tempo fa

quest’ultima li ha costretti per via legale a cambiare il titolo di un loro

spettacolo, che originariamente s’intitolava «Da Lucio a Battisti», in «Quel

gran genio del mio amico». Più recentemente la signora ha impedito loro,

sempre per via legale, di inserire il brano «Vendo casa» nel loro nuovo cd.

«È incredibile - dice Pietruccio Montalbetti - che noi non si possa inserire

nel disco nè il testo né l’esecuzione dal vivo di una canzone che cantiamo

da 35 anni e che fra l’altro Mogol e Battisti hanno scritto apposta per

noi...».

Fin qui la polemica. Che certo non troverà spazio nel ricordo che i Dik Dik

e tanti altri cantanti proporranno nell’anniversario della scomparsa del

grande Battisti. Fra le varie iniziative, da segnalare quella organizzata

per sabato 10 settembre a mezzogiorno. S’intitola «BandaBattisti». Sette

anni e un giorno dopo la morte dell’artista che ha segnato la canzone e il

costume italiani dagli anni Sessanta in poi, tante bande musicali suoneranno

in vari paesi e città - «perfettamente sincronizzati» - un classico come «La

canzone del sole».

L’invito a partecipare è stato inviato dagli organizzatori a 8200 comuni.

Pare che finora abbiano risposto in 2500, e quasi duecento gruppi e bande

musicali abbiano aderito. A Poggio Bustone, il paese in provincia di Rieti

dove è nato Battisti, e dove una banda non l’avevano, l’hanno messa assieme

per l’occasione...

 

lunedì 8 agosto 2005

Lo scorso fine settimana quelli del Tim Tour erano a Cagliari.
Solita adunata oceanica in piazza dei Centomila. Oggi e domani invece

arrivano - per la terza volta in cinque edizioni - a Trieste, in piazza

Unità. E il pienone, c’è da starne certi, si ripeterà. Per un cast di tutto

rispetto.

Questa sera, presentati dal dj Linus, si alterneranno infatti sul palco

Gemelli Diversi, Velvet, Nicky Nicolai & Stefano Di Battista Jazz Quartet,

Marina Rei, Alex Britti, Niccolò Agliardi. Domani, presentati da Fabio

Canino e Rossella Brescia, suoneranno il triestino Dennis, il giamaicano

Sean Paul e i redivivi Chic (campioni della disco degli anni Ottanta)

capitanati da Nile Rodgers; ha dato invece forfait all’ultimo minuto Pago.

Dopo la tappa a Trieste, il Tim Tour sarà a San Benedetto del Tronto, Lecce,

Reggio Calabria, Napoli, fino al gran finale del 16 e 17 settembre a Torino.

Insomma, a fine stagione la carovana canora sponsorizzata dalla compagnia

dei telefonini si confermerà con ogni probabilità l’appuntamento musicale

più seguito dal pubblico italiano. L’anno scorso si è calcolato un totale di

due milioni di presenze.

È un dato di fatto che ormai le piazze italiane si riempiono solo quando la

musica è gratis. E la musica può essere gratuita (per il pubblico, of

course) solo quando c’è qualcun altro a pagare: un megasponsor (Tim, la

birra Heinekn, il cornetto Algida...), una rete televisiva (Mtv, o anche

Italia 1 con il Festivalbar...), un’amministrazione pubblica. Anche a

Trieste, nel nostro piccolo, è così: il megaevento di metà luglio con Mtv,

il festival rock finito ieri sera e finanziato coi soldi pubblici, ora il

ritorno a furor di popolo - e di sponsor - del Tim Tour.

Poche, pochissime le eccezioni. A pagamento, oggi in Italia riempiono gli

stadi soltanto Vasco Rossi, le grandi star internazionali come Bruce

Springsteen e gli U2, Ligabue (un solo concerto per lui, a settembre, allo

stadio di Reggio Emilia: venduti già oltre centomila biglietti), forse

pochissimi altri. Per loro, i ragazzi mettono mano al portafogli. Per tutti

gli altri no: se è gratis va bene, altrimenti ciccia. È un dato di fatto con

cui ormai gli organizzatori devono fare i conti.

Ma torniamo al doppio appuntamento di oggi e domani in piazza Unità. Ad

aprire le due serate, alle 18.30, i giovani che partecipano al 16.o Festival

di San Marino e al Rock Tv Contest (in palio il contratto per un cd,

presentano Francesco Randazzo e Alessandra Barzaghi).

Domani, prima della musica, sul palco andrà in scena «Calcio in piazza»,

talk show sui temi caldi dell’estate calcistica, condotto da Mario Mattioli

e Claudia Tuccelli, ospiti Italo Cucci, Bruno Pizzul, Enrico Maida, il

direttore di «Tuttosport» Giancarlo Padovan e alcuni giocatori della

Triestina (il tutto si rivede domenica in tivù, su Raidue, nella «Domenica

Sportiva»). Speciali realizzati nella tappa triestina saranno inoltre

trasmessi su Radio DeeJay e da un network di televisioni private.

Ma si diceva degli sponsor che pagano. E dunque vogliono i loro spazi. Come

l’anno scorso, l’area attorno a piazza Unità è stata trasformata in una

sorta di «villaggio del divertimento» (come lo chiamano gli

organizzatori...), aperto già dal mattino e completo di un’area fitness e

giochi. Con particolare attenzione a tutto quello che riguarda - in chiave

musicale - il prodotto venduto dallo sponsor, e cioè telefonini e telefonia,

non a caso l’unico settore in cui gli italiani continuano a spendere senza

badare alla crisi.

E quindi sotto con il servizio «i.music store», che permette di «trasformare

il telefonino in un jukebox portatile per ascoltare fino a 350 mila brani

musicali completi, vedere le immagini e ascoltare le suonerie degli artisti

del momento...». Ma anche con un vero e proprio casting («Tim Mms

Superstar»), per «la ricerca di nuovi volti da inserire nel mondo dello

spettacolo»...

 
Con questa mostra, in fondo, ci piace pensare che è come se Giorgio Gaber

tornasse ancora una volta a Trieste. Nella città a cui era legato da

particolare affetto, se non altro perchè vi era nato suo padre, Guido

Gaberscik, gran suonatore di fisarmonica che gli trasmise l’amore per la

musica. Nella città dove aveva portato quasi tutti i suoi spettacoli, al

Rossetti, dove respirava aria di casa, di radici, e dove il pubblico gli

riservava sempre un’accoglienza un po’ particolare.

Com’era successo anche quella volta, nel novembre del ’98, la sua ultima

volta a Trieste, con lo spettacolo «Un’idiozia conquistata a fatica». Era

già da tempo malato, glielo vedevi in faccia. Non era più l’eterno ragazzo

col maglione blue e le Clarks, che dopo gli esordi mezzo rock’n’roll e mezzo

canzonettari si era inventato - con il teatro canzone - quel ruolo di

cantore saggio del nosto eterno disagio esistenziale.

Stava già male, aveva la faccia gonfia, si muoveva a fatica, ma nel «suo»

Rossetti, anche quella volta, alla fine dello spettacolo, sudato e

visibilmente affaticato, Gaber era felice. Felice del fatto che la gente

cantasse in coro le sue vecchie canzoni, quelle che non faceva quasi mai

mancare fra i bis: «La ballata del Cerutti» e «Porta romana», «Torpedo blu»

e «Barbera e champagne»... Da solo in scena, con la chitarra a tracolla,

vicinissimo al pubblico ormai in piedi. E quando fu il turno di «Non

arrossire», fra un verso e l’altro infilo l’agrodolce considerazione:

«Questa è del ’60. E non era nemmeno la prima...».

Una straordinaria storia artistica, quella di Giorgio Gaber. Nato a Milano

nel ’39, comincia a suonare la chitarra a otto anni, per emulare il fratello

maggiore ma anche per esercitare quella mano sinistra ferita dalla

poliomelite. Ascolta jazz e studia ragioneria, nella Milano del dopoguerra,

dove la sua famiglia si era trasferita da Trieste pochi anni dopo la sua

nascita. Comincia con un gruppetto jazz in cui suonava anche Luigi Tenco, ma

nel frattempo esplode il rock’n’roll. Con Enzo Jannacci - con cui poi fonda

il duo «I due corsari» - accompagna Celentano nelle sue prime esibizioni.

Negli anni Sessanta arriva il grande successo, anche televisivo: Sanremo, il

Festival di Napoli, Canzonissima, il matrimonio con Ombretta Colli

(all’epoca cantante, femminista e di sinistra).

Nel ’69 e nel ’70 le tournèe teatrali (con tappa anche a Trieste) assieme a

Mina. Fu lì, confessò molti anni dopo, che maturò la scelta della sua

«seconda vita artistica». Erano anni particolari, di cambiamenti, di

riflessione, di impegno politico. «Il signor G» nasce nel ’70: sarà solo il

primo di una lunga serie di spettacoli di teatro canzone, con cui l’artista

scandaglierà umane debolezze, tic, timori, speranze, ideali, fallimenti.

Fustigando costumi e criticando sempre il consumismo, l’omogeneizzazione

della cultura, la massificazione dei gusti.

A Trieste, quell’ultima volta, Gaber ci disse: «Nei miei spettacoli, a parte

alcuni rari ed espliciti accenni, la politica non viene mai affrontata in

modo diretto. Sollecitano invece la mia indignazione, che si traduce poi in

violente invettive o in dolorose riflessioni ironiche, gli appiattimenti

culturali, l’assenza di pensiero, il conformismo, le ingiustizie, i soprusi,

le prevaricazioni di ogni tipo, sempre legate alla stupidità degli individui

che non finiscono mai di stupirmi per il loro egoismo e per il loro livello

di coscienza infinitamente basso».

E ancora: «Quando dicevo ”mi fa male il mondo”, era un modo di dire che le

cose non andavano tanto bene ovunque. E allora elencavo le cose che mi

facevano male. Sono ancora valide, però ora il discorso è più globale.

Prendo atto dello scadimento generalizzato della qualità delle persone.

Quindi diventa difficile anche non sentirsi coinvolti in questa idiozia».

«Sia chiaro: non sto parlando di qualcuno in particolare, anche se ci sono

quelli più e meno idioti, ma proprio di uno scadimento generale delle

coscienze. Con il mio coautore Sandro Luporini colleghiamo questo fenomeno

all’espansione del mercato, al consumo. Il mercato condiziona la nostra vita

e in tal senso annienta la consapevolezza e la coscienza. Nello spettacolo

c’è dunque una parte dedicata ai danni causati dal mercato, senza scordare

che è anche quello che garantisce la ricchezza, il benessere».

Poco prima di morire, nel gennaio del 2003, Gaber pubblicò il disco «La mia

generazione ha perso», nel quale molti hanno letto una sorta di testamento

di un uomo che, con la sua acuta indagine sui disagi esistenziali della

nostra epoca, ha lasciato un’impronta importante nello spettacolo e nella

cultura italiana del Novecento.

A Viareggio, un paio di settimane fa, al Festival Teatro Canzone che si

svolge ogni estate per onorare la memoria di Giorgio Gaber, fra artisti suoi

coetanei e altri che potrebbero essere stati suoi figli, si è avuto però la

riprova che in fondo quella frase-slogan non rispondeva al vero. No, quella

generazione non ha perso, se ha prodotto un artista come Giorgio Gaber. La

cui opera continua a emozionare giovani e meno giovani di ieri e di oggi.

 
Ci sarà anche Pago, autore del tormentone estivo «Parlo di te», fra
i protagonisti della due giorni triestina del Tim Tour. La carovana della

manifestazione musicale si insedierà in piazza Unità venerdì e sabato,

dunque subito dopo la conclusione del festival rock cominciato ieri sera. E

se Animals, Banco e compagnia suonante richiamano soprattutto un pubblico di

ex ragazzi, non c’è dubbio che il cast proposto dal Tim Tour nella doppia

tappa triestina (Gemelli Diversi, Alex Britti, Velvet, Sean Paul, Marina

Rei, Nicky Nicolai...) non mancherà di attirare i giovanissimi.

Giovanissimi che in queste settimane estive sono stati stregati dalla

canzone che deve gran parte della sua popolarità al fatto di essere stata

scelta per uno spot televisivo. Lui, l’autore, si fa chiamare Pago ma il suo

vero none è Pacifico Settembre, ha trent’anni, è nato a Cagliari ed è

sposato con la soubrette ed ex velina Miriana Trevisan. Cui la

canzone-tormentone è fra l’altro dedicata.

«Su questa canzone - confessa Pago - all’inizio non contavo molto. Solo in

un secondo tempo ho scoperto l’immediatezza del testo e del ritornello. È

nata come quasi tutte le altre: alla scrivania, con la chitarra fra le

ginocchia, pensando al mondo e alle persone che mi circondano. Come sempre

una delle prime persone cui l’ho fatta ascoltare è mia moglie. A lei chiedo

sempre consiglio. Di solito la risposta è ”bella!”, quella volta invece mi

ha detto ”bellissima”...».

Con questo singolo, che staziona da alcune settimane nelle zone alte delle

classifiche di vendita ed è uno dei più programmati dalle radio, Pago è

all'esordio discografico dopo una vita trascorsa in Europa e in America

Latina a suonare in qualsiasi posto lo portasse la sua musica. Una gavetta

dunque lunga, la sua, che ricorda un po’ quella di Alex Britti (altro

protagonista del Tim Tour a Trieste nel prossimo fine settimana), cui lo

accomuna anche la bravura nel suonare la chitarra.

In giro per il mondo, oltre alla chitarra, Pago si portava dietro anche la

racchetta da tennis. «Come McEnroe - scherza il cantautore, che a settembre

pubblicherà il primo album -, da ragazzo ero una piccola promessa del tenni,

sono stato anche campione regionale, ma se poi ho scelto la musica».

Il soprannome, che ha scelto per la carriera musicale, se lo porta dietro da

quando aveva tredici anni. E la musica era solo una passione, un sogno,

mille miglia lontano dal momento magico che sta vivendo in questa estate

2005, con una canzone nelle orecchie di tutti...

Ma la terza volta triestina (dopo il 2002 e il 2004) del Tim Tour non vivrà

soltanto di Pago e del suo tormentone. Come si diceva ci saranno fra gli

altri i Gemelli Diversi (quelli di «Mary», a Trieste con il Tim Tour per il

secondo anno consecutivo), la Marina Rei ammirata a Sanremo, la jazz singer

Nicky Nicolai con lo Stefano Di Battista Quartet (rivelazione dell’ultimo

Sanremo, che torna a Trieste dopo il Barcolana Festival), il cantautore

milanese esordiente Niccolò Agliardi («Mi manca da vicino» è il titolo del

suo singolo), i Velvet (anche loro reduci dall’ultimo festivalone, che

presenteranno il nuovo singolo «Il mondo è fuori»).

E soprattutto il campione del reggae Sean Paul e i redivivi Chic, quelli

della celeberrima «Le Freak», rimessi assieme dal rinnovato entusiasmo del

fondatore Nile Rodgers, in questi anni produttore di serie A. Venerdì la

serata è affidata alle cure di Linus (voce storica nonchè direttore di Radio

Deejay), sabato a quelle di Fabio Canino e Rossella Brescia.

Ma il Tim Tour riserva da sempre uno spazio anche per i giovani emergenti e

debuttanti. Anche a Trieste ci sarà infatti spazio per i gruppi emergenti

del 16.o Festival di San Marino e il Rock Tv Contest, in gara per

conquistare la produzione di un cd. Presenteranno il comico Francesco

Randazzo e dall’attrice Alessandra Barzaghi, già visti in vari programmi

tivù.

 
C’è chi è convinto che il miglior rock di sempre è quello che è stato

sfornato fra la fine degli anni Sessanta e il decennio dei Settanta. Finchè

lo dicono i ragazzi di allora - ormai padri o addirittura nonni - non ci

sarebbe di che meravigliarsi: ogni generazione ama infatti la musica dei

propri anni ruggenti, che nel ricordo diventa colonna sonora di una gioventù

sempre rimpianta. Ma quando il giudizio viene confermato anche da una parte

dei ragazzi di oggi, nati quando quegli artisti e gruppi erano già in pista

da un bel pezzo, o magari erano già considerati «vecchi» rispetto ai

colleghi dell’ondata successiva, beh, allora il dubbio comincia ad

affiorare. Vuoi vedere che in quegli anni di grande creatività, di ideali,

di speranze, di «buone vibrazioni», è stato pensato e suonato anche il

miglior rock che orecchie ricordino?

Il festival che comincia stasera a Trieste - giunto alla seconda edizione -

vuol essere un piccolo tributo alla musica e ai protagonisti di quegli anni.

Si parte dagli Animals, pionieri della fusione fra musica bianca e blues dei

neri, nonchè protagonisti del rhythm and blues inglese degli anni Sessanta e

Settanta. Con la loro foga ribelle anticiparono mezza storia del rock,

compresa l’ondata punk. Nelle loro mani i classici del blues diventavano

inni della sofferenza, non della razza afroamericana, ma dei giovani

britannici. E la straordinaria voce di Eric Burdon faceva il resto. Tanto

che pensare oggi agli Animals senza di lui...

Dopo tanti cambiamenti, l'attuale formazione - non a caso si presentano come

«Animals and Friends» - comprende un solo componente originario del gruppo:

John Steel alle percussioni. Con lui Mickey Gallagher (che entrò nel gruppo

in un secondo tempo) alle tastiere. Mentre gli «amici» sono Pete Barton alla

chitarra, Jim Rodford al basso, John Williamson alle chitarre.

Nell’immaginario del rock la batteria ha una parte primaria. E il ruolo

ricoperto nel festival dell’anno scorso da Carl Palmer (già nello storico

trio con Keith Emerson e Greg Lake) in questa edizione del 2005 è affidato a

Ian Paice, già batterista dei Deep Purple. Domani sera, alle 18.30, terrà un

seminario di un’ora aperto a tutti gli interessati. Dopo le 21, con il suo

nuovo gruppo, riproporrà alcuni dei brani dello storico gruppo «hard rock»

(l’antenato dell’«heavy metal»). Anche se - come ha detto una volta lo

stesso Paice - «ciò che più mi dispiace è vedere oggi il nostro nome

associato esclusivamente all'ambiente metal. Noi in realtà ci muovevamo in

un campo senza confini precisi, la nostra musica andava dai Black Sabbath a

Marc Bolan, e nel mezzo ci mettevamo di tutto...».

E siamo alla serata di giovedì, dedicata al Banco del Mutuo Soccorso.

Diciamo subito che della formazione originaria sono rimasti soltanto in due:

il cantante Francesco «Big» Di Giacomo e il tastierista Vittorio Nocenzi.

Che nella formazione che comprendeva fra gli altri anche il fratello di

quest’ultimo, il pianista Gianni Nocenzi, debuttarono discograficamente nel

’72 con un album omonimo (con la storica copertina a forma di salvadanaio)

destinato a diventare una pietra miliare nella nascente scena del rock

italiano, con brani già passati alla storia come «R.I.P. (Requiescant In

Pace)», «Il giardino del mago», «Metamorfosi»... Negli stessi anni, album

come «Darwin!» e «Io sono nato libero» confermarono gli allora ragazzi del

Banco come una delle formazioni più originali della nostra musica moderna.

Fin qui i protagonisti del Trieste Rock Festival di quest’anno. Quello che

forse non sanno gli appassionati che per tre sere affolleranno piazza Unità,

è che il cast poteva essere più ricco. Gli organizzatori erano riusciti

infatti a mettere le mani su una data del tour italiano degli appena

ricostituiti Van der Graaf Generator. Ma costavano troppo e così...