lunedì 8 agosto 2005

Con questa mostra, in fondo, ci piace pensare che è come se Giorgio Gaber

tornasse ancora una volta a Trieste. Nella città a cui era legato da

particolare affetto, se non altro perchè vi era nato suo padre, Guido

Gaberscik, gran suonatore di fisarmonica che gli trasmise l’amore per la

musica. Nella città dove aveva portato quasi tutti i suoi spettacoli, al

Rossetti, dove respirava aria di casa, di radici, e dove il pubblico gli

riservava sempre un’accoglienza un po’ particolare.

Com’era successo anche quella volta, nel novembre del ’98, la sua ultima

volta a Trieste, con lo spettacolo «Un’idiozia conquistata a fatica». Era

già da tempo malato, glielo vedevi in faccia. Non era più l’eterno ragazzo

col maglione blue e le Clarks, che dopo gli esordi mezzo rock’n’roll e mezzo

canzonettari si era inventato - con il teatro canzone - quel ruolo di

cantore saggio del nosto eterno disagio esistenziale.

Stava già male, aveva la faccia gonfia, si muoveva a fatica, ma nel «suo»

Rossetti, anche quella volta, alla fine dello spettacolo, sudato e

visibilmente affaticato, Gaber era felice. Felice del fatto che la gente

cantasse in coro le sue vecchie canzoni, quelle che non faceva quasi mai

mancare fra i bis: «La ballata del Cerutti» e «Porta romana», «Torpedo blu»

e «Barbera e champagne»... Da solo in scena, con la chitarra a tracolla,

vicinissimo al pubblico ormai in piedi. E quando fu il turno di «Non

arrossire», fra un verso e l’altro infilo l’agrodolce considerazione:

«Questa è del ’60. E non era nemmeno la prima...».

Una straordinaria storia artistica, quella di Giorgio Gaber. Nato a Milano

nel ’39, comincia a suonare la chitarra a otto anni, per emulare il fratello

maggiore ma anche per esercitare quella mano sinistra ferita dalla

poliomelite. Ascolta jazz e studia ragioneria, nella Milano del dopoguerra,

dove la sua famiglia si era trasferita da Trieste pochi anni dopo la sua

nascita. Comincia con un gruppetto jazz in cui suonava anche Luigi Tenco, ma

nel frattempo esplode il rock’n’roll. Con Enzo Jannacci - con cui poi fonda

il duo «I due corsari» - accompagna Celentano nelle sue prime esibizioni.

Negli anni Sessanta arriva il grande successo, anche televisivo: Sanremo, il

Festival di Napoli, Canzonissima, il matrimonio con Ombretta Colli

(all’epoca cantante, femminista e di sinistra).

Nel ’69 e nel ’70 le tournèe teatrali (con tappa anche a Trieste) assieme a

Mina. Fu lì, confessò molti anni dopo, che maturò la scelta della sua

«seconda vita artistica». Erano anni particolari, di cambiamenti, di

riflessione, di impegno politico. «Il signor G» nasce nel ’70: sarà solo il

primo di una lunga serie di spettacoli di teatro canzone, con cui l’artista

scandaglierà umane debolezze, tic, timori, speranze, ideali, fallimenti.

Fustigando costumi e criticando sempre il consumismo, l’omogeneizzazione

della cultura, la massificazione dei gusti.

A Trieste, quell’ultima volta, Gaber ci disse: «Nei miei spettacoli, a parte

alcuni rari ed espliciti accenni, la politica non viene mai affrontata in

modo diretto. Sollecitano invece la mia indignazione, che si traduce poi in

violente invettive o in dolorose riflessioni ironiche, gli appiattimenti

culturali, l’assenza di pensiero, il conformismo, le ingiustizie, i soprusi,

le prevaricazioni di ogni tipo, sempre legate alla stupidità degli individui

che non finiscono mai di stupirmi per il loro egoismo e per il loro livello

di coscienza infinitamente basso».

E ancora: «Quando dicevo ”mi fa male il mondo”, era un modo di dire che le

cose non andavano tanto bene ovunque. E allora elencavo le cose che mi

facevano male. Sono ancora valide, però ora il discorso è più globale.

Prendo atto dello scadimento generalizzato della qualità delle persone.

Quindi diventa difficile anche non sentirsi coinvolti in questa idiozia».

«Sia chiaro: non sto parlando di qualcuno in particolare, anche se ci sono

quelli più e meno idioti, ma proprio di uno scadimento generale delle

coscienze. Con il mio coautore Sandro Luporini colleghiamo questo fenomeno

all’espansione del mercato, al consumo. Il mercato condiziona la nostra vita

e in tal senso annienta la consapevolezza e la coscienza. Nello spettacolo

c’è dunque una parte dedicata ai danni causati dal mercato, senza scordare

che è anche quello che garantisce la ricchezza, il benessere».

Poco prima di morire, nel gennaio del 2003, Gaber pubblicò il disco «La mia

generazione ha perso», nel quale molti hanno letto una sorta di testamento

di un uomo che, con la sua acuta indagine sui disagi esistenziali della

nostra epoca, ha lasciato un’impronta importante nello spettacolo e nella

cultura italiana del Novecento.

A Viareggio, un paio di settimane fa, al Festival Teatro Canzone che si

svolge ogni estate per onorare la memoria di Giorgio Gaber, fra artisti suoi

coetanei e altri che potrebbero essere stati suoi figli, si è avuto però la

riprova che in fondo quella frase-slogan non rispondeva al vero. No, quella

generazione non ha perso, se ha prodotto un artista come Giorgio Gaber. La

cui opera continua a emozionare giovani e meno giovani di ieri e di oggi.

 

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