mercoledì 31 ottobre 2012

DEEP PURPLE estate 2013 in friuli

Fuori piove e fa freddo. Ma il primo botto dell’estate musicale 2013, ancora molto lontana, l’ha già messo a segno il Friuli. Mercoledì 24 luglio, al Festival di Majano, giunto alla 53.a edizione, arriveranno infatti i Deep Purple. La leggendaria band inglese, che ha scritto la storia del rock, arriverà in Italia per tre tappe del tour europeo che accompagnerà la pubblicazione del nuovo album, di cui non è ancora stato svelato il titolo, e che arriva a otto anni dal precedente “Rapture of the deep”, ottimamente accolto dai fan vecchi e nuovi. I nuovi, conquistati da una ricchissima discografia e da brani diventati degli autentici classici, non erano nemmeno nati quando nel 1968, a Hertford, Inghilterra, sulle ceneri del gruppo Roundabout (che aveva la sua punta di diamante nel cantante Chris Curtis) nacquero appunto i Deep Purple. Che erano l’organista Jon Lord (musicista di formazione classica, diplomato al conservatorio), il chitarrista Ritchie Blackmore, il batterista Ian Paice, il bassista Nick Simper e il cantante Rod Evans. Primo album “Shades of Deep Purple”, cui sarebbero seguiti “The book of Taliesyn” (nello stesso ’68) e “Deep Purple” (1969), quest’ultimo comprendente alcuni brani incisi con un’orchestra sinfonica. Già, l’orchestra. Perchè guardando a ritroso la storia del rock dell’ultimo mezzo secolo, si può affermare senza tema di smentita che i Deep Purple sono stati, con Black Sabbath e Led Zeppelin, gli antesignani di quell’hard rock, il cosiddetto “rock pesante” da cui sono poi nati l’heavy metal e altri generi e sottogeneri. Ma con una particolarità. In tempi in cui nessuno parlava di contaminazioni, il gruppo spaziava senza timori fra blues e rock, fra jazz e folk, spingendo la propria curiosità fino alla musica orientale e alla classica. Col risultato di passare alla storia per aver coltivato le prime commistioni fra temi musicali neoclassici e suoni e ritmi figli del blues e del rock. Dunque un debutto poco hard, per quelli che sarebbero diventati i maestri del genere. A innescare il cambiamento, come riconobbero gli stessi componenti del gruppo, fu l’arrivo sulle scene dei Led Zeppelin. «Da quel momento - disse una volta Ritchie Blackmore - decidemmo che quella era la musica che volevamo suonare anche noi...». Detto e fatto. Grazie a un’intuizione di quelle che fanno la differenza. Anzichè assoldare un secondo chitarrista, l’organista Jon Lord collegò l’Hammond a un amplificatore Marshall per chitarra. Col risultato di creare quel suono che divenne in breve uno dei marchi di fabbrica della band. “Deep Purple in rock”, uscito nel 1970, fece il botto. A livello di vendite, di conseguenti tour, di popolarità. “Fireball”, del ’71, fu meno gradito dal pubblico per gli esperimenti fra blues, rock e country. “Machine head”, del ’72, grazie soprattutto al brano “Smoke on the water” (quale chitarrista in erba non si è cimentato con quel classico riff...?), completò il botto cominciato due anni prima. Nello stesso anno anche il live “Made in Japan”, tuttora considerato una pietra miliare della storia del rock. In questi quarant’anni, oltre a vendere più di cento milioni di copie, i Deep Purple hanno alternato cose buone e meno buone, separazioni e reunion, momenti di silenzio e altri di attività, attraverso vari cambi di formazione. Attualmente il gruppo è formato, oltre che dal batterista Ian Paice e dal cantante Ian Gillan, unici membri originari, dal chitarrista Steve Morse, dal bassista Roger Glover e dal tastierista Don Airey. La realizzazione del nuovo album, molto atteso dai fan, ha visto il gruppo chiuso in sala di registrazione per molti mesi. Un periodo di lavoro lungo, che ha costretto la band a rinunciare al tour estivo. Il disco, a sentire le dichiarazioni di Steve Morse, potrebbe essere uno degli ultimi in studio della band. Ma la lunga preparazione e gli otto anni trascorsi dal lavoro precedente, uniti al grande professionismo di questi musicisti, permettono di aspettarsi un album all’altezza della tradizione della band. La tournèe dell’estate prossima segnerà il ritorno dal vivo dopo due anni di assenza dalle scene. E che in Italia toccherà Roma, Vigevano il 21 luglio, Roma il 22 (nell’ambito della rassegna “Rock in Rome”) e appunto Majano, in piazza Italia, il 24 (unica tappa nel Nordest, che dunque calamiterà l’arrivo di molti spettatori anche da fuori regione). Il tour italiano è organizzato da Barley Arts. La data friulana da Azalea Promotion e Pro Majano, in collaborazione con la Regione Fvg e Barley Arts. Prevendite su www.ticketone.it e nei circuiti abituali. Info: www.azalea.it e www.promajano.it

PARTE STAGIONE CIRCOLO THELONIOUS, ts

Amanti del jazz di Trieste e dintorni, è arrivato il vostro momento. Stasera, al Knulp di via Madonna del mare 7/A, comincia la nuova stagione del Circolo del Jazz Thelonious. Il sodalizio nato nel 2008 riparte con un concerto del Wild Bread Quartet, formato da Mauro Ottolini al trombone, Daniele D’Agaro al sax tenore e al clarinetto, Stefano Senni al contrabbasso, Cristiano Calcagnile alla batteria. Proporranno un repertorio che alterna brani originali, musiche della New Orleans tra Ottocento e Novecento, ma anche rivisitazioni della musica Kaseko del Suriname e del genere Kwela del Sud Africa, in quella che si preannuncia come «una visione a 360 gradi del mondo dell'improvvisazione». “Wild Bread” (Punto Rojo 2012) è il titolo del loro album. Prossimi appuntamenti: martedì 13 novembre gli Hobby Horse (Dan Kinzelman sax tenore e clarinetto, Joe Rehmer contrabbasso, Stefano Tamborrino batteria e percussioni), martedì 27 novembre il chitarrista Francesco Diodati con il suo trio Neko, martedì 4 dicembre Mike Reed “People places and things”, martedì 18 dicembre il pianista Claudio Cojaniz con il contrabbassista Franco Feruglio e le sue “Africansong”. Anno nuovo. Mercoledì 16 gennaio il contrabbassista Danilo Gallo & The Roosters, martedì 5 febbraio il trio del batterista Zlatko Kaucic, martedì 19 febbraio il trio del pianista Angelo Comisso, martedì 5 marzo l’Open Trio (Andrey Piryevec batteria, Goran Grabic chitarra, Bojan Volk sax contralto e soprano, Matej Baric tastiere), martedì 19 marzo Silvia Bolognesi al contrabbasso, Sabir Mateen al sax tenore e contralto, Andrea Massaria alla chitarra, martedì 9 aprile Enzo Carpentieri “Circular E-”, martedì 23 aprile Massimo De Mattia e il suo “Trilemma”, martedì 30 aprile conclusione con il pianista Riccardo Morpurgo. Info www.thelonious-trieste.com

venerdì 26 ottobre 2012

DISCHI / TRIPLO DELLA PFM, nuovo Joss Stone

Sono passati quarant’anni. La Pfm era ancora la Premiata Forneria Marconi (poi rimase solo l’acronimo), formata all’epoca da Franco Mussida, Franz Di Cioccio, Flavio Premoli, Giorgio “Fico” Piazza (che arrivavano dai Quelli) e da Mauro Pagani. Nel ’72 debuttano con “Storia di un minuto”, album che era stato anticipato alla fine dell’anno precedente dal singolo con “Impressioni di settembre” (testo di Mogol) e “La carrozza di Hans”. E al quale segue, alla fine dello stesso anno, l’album “Per un amico”. In quarant’anni il gruppo ha scritto la storia del pop-rock italiano, attraverso dischi e tournèe, in Italia e all’estero. Attraverso cambi di formazione: al posto del quintetto originario oggi c’è un trio, formato dai “superstiti” Mussida (chitarre) e Di Ciccio (batteria) e da Patrick Djivas, subentrato nel ’73 al bassista Piazza. Ma senza mai abbandonare l’amore per la musica, un’onestà intellettuale di fondo e il massimo rispetto nei confronti del pubblico. Al pubblico di ieri e di oggi è rivolto questo triplo cd “Celebration 1972-2012” (Sony Music, che propone anche una versione in triplo vinile), corredato da un libretto di sessanta pagine con storia della band e immagini d’epoca, che è il monumento alla carriera di un gruppo che ha contribuito a cambiare la storia della musica italiana. I primi due cd sono dedicati agli album “Storia di un minuto” e “Per un amico”, pubblicati entrambi del ’72 e rimasterizzati per l’occasione. «Quando abbiamo cominciato - dice oggi Di Cioccio - ci eravamo ripromessi di fare qualcosa di diverso da quello che si ascoltava all’epoca in Italia, penso che nessuno abbia mai pubblicato nello stesso anno due album così importanti per la storia di una band». «E due dischi nello stesso anno erano un gesto forte per afferrare il futuro nel 1972. È bello che il tempo oggi restituisca intatta la nostra curiosità artistica di allora trasformata in energia sui palchi di tutto il mondo». Nel terzo cd ci sono invece alcune rare versioni di successi del gruppo, suonati dal vivo e registrati dal gruppo nel corso della lunga carriera. «La nostra storia è quella di una fratellanza musicale - ricorda Mussida -, abbiamo sempre lavorato da “pirati”, senza mai pensare alla carriera in termini di denaro o del solo apparire». E chissà che Mauro Pagani, chiamato da Fabio Fazio alla direzione artistica del prossimo Sanremo, non si ricordi dei vecchi compagni d’avventura e magari li inviti come ospiti di una delle serate. Da segnalare che il quarantennale della Pfm è celebrato anche in un libro, “Storia di un minuto. Il primo disco di Pfm”, di Antonio Oleari e Renzo Stefanel, pubblicato da Aereostella nella collana “Libri a 33 giri”.   . JOSS STONE “The soul sessions vol.2” (Warner) Aveva sedici anni e una voce nera (lei, inglesina dalla pelle chiara...) da lasciare a bocca aperta, quando nel 2003 debuttò con “The soul sessions”. Un disco nel quale Joss Stone rilesse classici del soul risalenti prevalentemente agli anni Settanta. Nove anni e quattro dischi dopo, la venticinquenne interprete ripete l'esperimento del debutto con questo “volume 2”, registrato in due sessioni tra New York e Nashville. Dentro, undici cover ancora figlie degli anni Settanta. Da “(For God’s sake) give more power to the people” dei Chi-Lites a “I don’t want to be with nobody but you” di Eddie Floyd, da “Teardrops” dei Womack & Womack (pezzo dell’88) a “Pillow talk” di Sylvia. E ancora il classico “Then you can tell me goodbye”, “While you’re out looking for sugar” (cover del brano inciso nel ’69 dalle Honey Cone), “The love we had” dei Dells, “The high road” dei Broken Bells. Voce e tecnica interpretativa rimangono quelle che ci avevano lasciato a bocca aperta. Il problema rimane quello di un repertorio originale.

sabato 20 ottobre 2012

GAYA ripescata a X FACTOR da ELIO

di Carlo Muscatello TRIESTE Forse non ci sperava neanche lei, dopo essere stata fermata all'ultimo ostacolo. Ma per la triestina Gaya Misrachi, classe '93, le porte di "X Factor" si sono riaperte a sorpresa l'altra sera. Dopo aver superato selezioni su selezioni, partendo fra 60mila aspiranti e arrivando fra i 24 all'interno dei quali sono stati scelti i dodici che hanno cominciato la gara su SkyUno, la giovane cantante è stata ripescata dal suo caposquadra Elio nella prima puntata del "talent". Chissà, forse il leader delle Storie Tese le aveva anticipato qualcosa una settimana fa, in piazza Unità, in occasione del concerto del gruppo milanese al Barcolana Festival. O forse non le ha detto nulla, perchè non aveva ancora deciso o per non rovinare la sorpresa. Fatto sta che, quando a tarda sera è arrivato il momento di fare un nome, Simona Ventura ha scelto Michele, Morgan ha chiamato Alessandro, Arisa ha preferito gli Up3side e un Elio con clamorosa cresta rossonera sulla pelata ha detto Gaya (che nel ballottaggio finale per formare le squadre aveva dovuto cedere il passo a Yendri). Ora i quattro si giocheranno questa "wild card" giovedì: chi vince entra in gioco. “Sono tutti molto bravi e ce la metterò tutta - promette Gaya -. Voglio che Elio sia contento della scelta fatta e, indipendentemente dal risultato, sono felicissima di poter trascorrere ancora una settimana tra grandi professionisti. Mi aspetto tanti suggerimenti, perché voglio conoscere questo mondo tanto diverso. Voglio approfittare di questa opportunità per migliorare e crescere. Questo è il vero motivo per cui ho partecipato alla selezione quest’estate”. Ancora la giovane triestina, il cui repertorio spazia da Mina a Janis Joplin, passando per Fabrizio De Andrè: “E’ stata una grande emozione poter cantare davanti a un pubblico numeroso ed entusiasta. Ma è stato anche bello conoscerci fra di noi e, nonostante la gara, che ci dovrebbe vedere l’uno contro l’altro, la stima e la simpatia hanno vinto sulla competizione. Spero di piacere e di ricevere tanti voti da casa,  e ringrazio tutti per l’affetto dimostrato anche sul web". Gli appassionati triestini, che due anni fa avevano già appoggiato Dorina, sono insomma chiamati a raccolta. In ballo, un contratto discografico con Sony Music da 300 mila euro. E la possibilità di entrare nella scena musicale di casa nostra, come avvenuto in passato a Marco Mengoni, Giusy Ferreri, Noemi e altri giovani partiti proprio da “X Factor”. Info su www.xfactor.sky.it

mercoledì 17 ottobre 2012

BRUNELLO e la stazione di campo marzio

La vecchia stazione triestina di Campo Marzio gli è rimasta nel cuore. Ha voglia di ridarle ancora vita, come ha fatto a fine settembre, per una sera, con la sua musica e i racconti di Paolo Rumiz, nell’ambito di “Next”. «Visto che non serve più come stazione - lancia a mo’ di provocazione il violoncellista Mario Brunello -, potrebbe diventare un luogo di incontro per la gente, per la musica, per gli artisti che amano viaggiare e raccontare quel che hanno visto e sentito...». L’idea era in realtà nata prima dell’evento per la rassegna triestina. «Volevamo dare una scossa - spiega l’artista, nato a Castelfranco Veneto, classe 1960, collaborazioni di prestigio in giro per il mondo -, riuscire a far muovere quelle enormi locomotive addormentate. Il progetto iniziale era far partire due treni, uno da Vienna e uno da Venezia, ognuno col suo carico di musicisti che si sarebbero dovuti incontrare proprio a Campo Marzio. Musicisti diversi per esperienze, linguaggi, storie da raccontare. E che lì, nella vecchia stazione dismessa, avrebbero trovato una meta fuori dal tempo, un luogo dove raccontare e raccontarsi...». Perchè non ce l’avete fatta? «C’eravamo quasi riusciti. Le procedure burocratico-ferroviarie erano state ultimate, ma tutto è stato sbloccato in ritardo, fuori tempo utile. Comunque la serata con Rumiz è andata bene lo stesso. Ma mi è rimasta la voglia di portare a termine quel progetto». Chi chiamerebbe? «Musicisti che hanno scritto di treni. Il cantautore Gianmaria Testa? Beh, lui sarebbe perfetto: avendo fatto per tanti anni il capostazione nel suo Piemonte, saprebbe anche come far entrare i treni nella stazione. Vinicio Capossela, col quale collaboro: lui è uno di quelli che amano viaggiare, incontrare genti nuove, raccontare le sue storie. Ma anche Marco Paolini, figlio di ferroviere. E poi ci vorrebbe qualcuno che suoni quella composizione che il grande John Cage dedicò proprio a un treno». Cosa le piace di Campo Marzio? «Tutto. Entrare in un luogo sospeso nel tempo, che in realtà non è morto, ha una sua intima vitalità. Eccezionali i volontari che tengono aperto il museo ferroviario. Lì c’è un’aria quasi casalinga, sembra di salire su quei vecchi vagoni di legno di tanto tempo fa, si immagina chi ha fatto i lavori, chi vi ha viaggiato. Niente a che vedere con la Frecciarossa, insomma». Lei porta la musica in luoghi “strani”. «La musica non nasce mai per un luogo preciso. Nella testa di un compositore c’è uno spazio infinito, non una sala da concerto. Io ho suonato nelle carceri e nelle fabbriche dismesse, nei deserti e sulle montagne. Luoghi in cui si trova quello spazio infinito». Come sulle Dolomiti. «Dal ’95 facciamo “I suoni delle Dolomiti”, andiamo a suonare nei rifugi alpini per la meraviglia del paesaggio che si gode da lassù, ma soprattutto per il silenzio. Un silenzio integrale, che accoglie la musica e completa quello spazio infinito di cui dicevo prima». Nicola Piovani ha attaccato la “musica passiva”. «Ho letto. Sono d’accordo quando dice che dovremmo difenderci da quelle musichette che ci perseguitano ovunque: al supermercato, in ascensore, dal dentista... Ma penso anche che in questa epoca di video sempre accesi, ovunque, è meglio una buona musica di sottofondo. Beethoven mi va bene anche in ascensore, insomma. Dipende sempre dalla qualità della musica che ci fanno ascoltare». Il luogo più estremo in cui ha suonato? «Il deserto del Sahara, assolutamente. Per cinque anni abbiamo organizzato dei trekking musicali con piccoli gruppi: lunghe camminate e poi ci fermavamo per suonare. Un’emozione davvero grandissima. Per me, per loro, ma credo anche per il mio violoncello, un Maggini del Seicento...». Il Capannone antiruggine? «L’ho aperto cinque anni fa, a Castelfranco Veneto. Un’antica fabbrica dismessa dove si lavorava il ferro, che ho scoperto avere un’acustica eccezionale. Lo abbiamo trasformato in uno spazio aperto alle cose particolari che ogni tanto incrocio e voglio condividere con altri. Musica, parole, mostre, quello che capita». Fate una stagione? «No, né stagione né programma. Stasera (ieri - ndr), per esempio, suono con il violinista algerino Gilles Apap e l’Orchestra d’archi italiana. Danze di strada, ungheresi, rumene, slave, e poi Brahms, Dvorak, Bartok. Per togliere la ruggine alla musica».

martedì 16 ottobre 2012

TEHO TEARDO nuovo spettacolo anteprima a roma

È famoso soprattutto per le colonne sonore di film come “Il divo” di Paolo Sorrentino e “La ragazza del lago” di Andrea Molaioli. Ma lui, il pordenonese Teho Teardo, è anche una delle punte di diamante della ricerca sonora di casa nostra. E stasera presenta in anteprima a Roma, all’Auditorium del Parco della musica, il suo spettacolo “Music for wilder mann”. Si tratta di un’opera musicale ispirata al lavoro del fotografo francese Charles Fréger “Wilder mann”, che nel 2013 verrà presentata anche alla Biennale di Parigi. Tutto nasce dalla ricerca musicale e fotografica sulla figura del “Wilder mann”, l’uomo selvaggio. «Una necessità - si legge nella nota della produzione - che scava nelle nostre più profonde aspirazioni e palpitazioni, uomini che anelano al vero, al primitivo; a istinti arcaici forse mai del tutto assopiti, nonostante la pigra era moderna della tecnologia». Il fotografo francese nella sua ricerca ha ritratto uomini che indossano costumi di pelli animali, trasformandosi così in orsi, cinghiali, mostri e diavoli. Esseri che sbalordiscono, che terrorizzano chi li incontra. E le stesse fotografie (contenute nel libro “Wilder mann o la figura dell’uomo selvaggio”, Peliti Associati) rappresentano qualcosa di remoto, di ancestrale, lontano dal nostro tempo ma pur sempre riconoscibile. Con l’effetto ultimo di turbare chi le osserva. A questo punto entra in campo l’apporto del compositore pordenonese, che con le sue musiche dalla forte componente elettronica accompagnano le immagini di Fréger, che sembrano arrivare da luoghi ed epoche a noi sconosciuti. «Il nostro presente elettronico - si legge ancora nelle note -, che determina anche la musica, necessita di trovare punti di contatto con quanto è stato prima di noi, senza nostalgia, senza retorica; sarà proprio la capacità evocativa della musica che riuscirà a manifestare presenze inquietanti nel nostro torpore contemporaneo». Dal vivo, stasera a Roma, Teardo - che suona la chitarra e sovraintende alla componente elettronica della performance - sarà accompagnato da Martina Bertoni al violoncello. Tecnologie avanzatissime e strumenti tradizionali assieme, insomma, mentre le immagini di Fréger verranno proiettate su un grande schermo. L’artista (vero nome Mauro Teardo, nato a Pordenone nel ’66) è attualmente impegnato tra Roma e Berlino nella registrazione di un album assieme a Blixa Bargeld, leader degli Einstürzende Neubauten. Una carriera, la sua, cominciata negli anni Ottanta nell’ambiente artisticamente molto fertile della città friulana. Prima la pubblicazione di album su cassetta di ispirazione avanguardistica, in bilico fra “suoni colti e distorsioni effettistiche”. Poi, negli anni Novanta, l’esperienza con il gruppo Meathead: vari album e altrettante collaborazioni con artisti e gruppi della stessa scena. Ma la svolta arriva col nuovo millennio. Teardo comincia infatti a dedicarsi alla composizione di colonne sonore per il cinema e per la televisione. Arrivano così le musiche per film come “Il divo” (per le quali nel 2009 vince il David di Donatello e il Premio Ennio Morricone al Bif&st di Bari), “Il gioiellino”, “L’amico di famiglia” (Nastro d’argento e candidatura per il David), “La ragazza del lago” (altra candidatura per il David), “Denti”, “Diaz”, “Lavorare con lentezza (altro Nastro d’argento), ma anche per il documentario di Vicari “La nave dolce”. Ora questa nuova avventura, che coniuga ricerca musicale e iconografica, a dimostrazione della grande curiosità del compositore nei confronti di tutte le forme d’arte.

lunedì 15 ottobre 2012

MAGICAL MYSTERY TOUR, BEATLES, mart 16 anche a TS

Arriva solo oggi anche a Trieste (The Space alle Torri, in Friuli a Pradamano, Udine) il leggendario “Magical mystery tour” dei Beatles. Il film è stato restaurato e ristampato in dvd, e ora viene proposto nei cinema, in occasione dei cinquant’anni di “Love me do”, il primo 45 giri dei “fab four”. Il cinema è stato parte importante nell’epopea del gruppo di Liverpool. “A hard day’s night” e “Help!” (rispettivamente del ’64 e del ’65), entrambi firmati da Richard Lester, furono i loro primi due film, realizzati soprattutto per sfruttare la notorietà dei quattro, ma comunque passati alla storia del cinema musicale. “Magical mystery tour” fu una cosa diversa. Diretto dagli stessi Beatles, pensato inizialmente per la televisione, andò in onda la prima volta, sul primo canale della Bbc, in bianco e nero (anche se era stato girato a colori), il giorno di Santo Stefano del ’67, in prima serata. Ascolti deludenti, critiche negative da parte di chi si aspettava qualcosa di più simile ai primi due film. A differenza di “Yellow submarine”, diretto da George Dunning per la parte d’animazione e da Dennis Abey, uscito nel ’68 e premiato da un grande successo. “Let it be”, documentario diretto da Michael Lindsay-Hogg nel ’69 e distribuito nel ’70, fu l’epitaffio cinematografico, la cronaca dell’ultimo concerto. Ma col passare degli anni anche “Magical mystery tour” è stato rivalutato, diventando una sorta di cult. Il film segue i quattro, con loro amici e familiari, in una gita in pullman al mare. Nella versione restaurata sono compresi nuovi filmati e interviste con Paul McCartney e Ringo Starr, oltre che con il cast (Ivor Cutler, Victor Spinetti, Jessie Robins, Nat Jackley, Derek Royle, la Bonzo Dog Doo-Dah Band...) e la troupe coinvolta nel film. Basato su un racconto libero e improvvisato, secondo lo spirito sperimentale del tempo, il film dura 53 minuti ed è intriso di ironia. L’idea pare fosse venuta a McCartney, al fine di presentare sei nuove canzoni: la “Magical mystery tour” del titolo, “The fool on the hill”, “Flying”, “I am the walrus”, “Blue jay way” e “Your mother should know”. Siamo nel settembre del ’67, in piena “Beatlemania”, e non si è ancora spenta l’eco dello straordinario successo di “Sgt. Pepper”. I nostri eroi caricano su un pullman una troupe cinematografica, amici e familiari e cast, e lasciano Londra per dirigersi sulla A30, verso sud-ovest, in Cornovaglia. Il film, come si diceva, all’epoca non ebbe successo. Le musiche furono prontamente pubblicate, ma la pellicola non venne trasmessa negli Stati Uniti ed ebbe una distribuzione limitata anche in Europa. Il recente restauro è stato voluto dalla Apple Films, con la supervisione di Paul Rutan jr. dell’Eque Inc., la stessa società che ha curato anche il restauro di “Yellow submarine”. Anche la colonna sonora è stata “ripulita” negli Abbey Road Studios da Giles Martin e Sam Okell. Il film, che viene proposto in versione sottotitolata in italiano, apre una “tre giorni rock” del circuito The Space: domani tocca a “Led Zeppelin: Celebration Day” e il 22 arriva “Pearl Jam Twenty”.

giovedì 11 ottobre 2012

Intervista ELIO, domani a TS con Storie Tese

di Carlo Muscatello TRIESTE "È vero, mi avete scoperto: torno spesso a Trieste perchè è una città che mi piace ma anche perchè ricordo ancora il sapore prelibato del vino e del prosciutto gustati quella volta che, la mattina dopo il concerto, mi convinsero a partecipare alla regata...". Stefano Belisari, in arte Elio, scherza ma non troppo nel commentare la sua quarta partecipazione, ovviamente con le Storie tese, al Barcolana Festival (domani alle 21 in piazza Unità, a chiusura della due giorni che parte stasera con i Club Dogo). Dunque domenica sarà in barca? "Purtroppo no, domenica sera abbiamo un concerto a Modena, organizzato da Nevruz, a favore dei terremotati. E poi non ho più il fisico. Non sono mica Beppe Grillo...". Che fine ha fatto Nevruz? "Dopo X Factor doveva fare un album con la Sony, poi è saltato tutto. Ma ora l'abbiamo preso sotto la nostra ala protettiva, lui è un po' il mio figlio illegittimo. Presto uscirà il suo disco". Terzo anno da giurato. Ma allora i talent le piacciono. "Non ho mai sparato sui talent, non sono loro il cancro della musica e della televisione. Hanno aspetti buoni e altri meno buoni. Fra i primi: sono un'occasione per vedere musica in tv, che non ne gira poi tanta. Per i ragazzi poi sono un buon trampolino di lancio, una delle poche occasioni per mettersi in mostra". I lati negativi? "Come tutte le gare hanno regole crudeli. Anche se io sono un giudice onesto e competente, anzi, il migliore possibile. Ma il problema è che comunque bisogna eliminare tanti ragazzi bravi". Come la triestina Gaya Misrachi, giunta a un passo dai finalisti. "Molto brava, ma a lei come ad altri manca ancora l'esperienza necessaria per affrontare il pubblico. La gavetta serve, ti dá cose che non ti insegna nessuno. È una scuola fondamentale. Oggi non esiste più, o quasi. Anche questo è un lato negativo dei talent: arrivano questi ragazzi, pure bravi, e credono di essere già pronti. E invece non è così. Ma Gaya è giovanissima, ha ancora tanto tempo". Sono quasi cinque anni che non fate un album nuovo. "Posso annunciare che l'attesa è quasi finita. Stiamo lavorando da tempo ai nuovi brani. E siamo ormai sul rettilineo finale. Il disco uscirà a inizio 2013. Il titolo? Siamo ancora in ballottaggio fra due possibilità. E visto che non abbiamo deciso, non le dico nulla". Ma lei deve più a Frank Zappa o a Jimi Hendrix? "A entrambi ma anche a tanti altri. Per esempio molti non credono che in realtà noi siamo stati ispirati anche da tanta brutta musica italiana degli anni Settanta. Certo, Zappa è stato sicuramente un grandissimo, un filosofo, e come tale è ben impiantato nel mio modo di affrontare la musica". Le dà fastidio l'etichetta "demenziale"? "In realtà no. Si tratta di una cavolata dei giornalisti ma anche del pubblico, questo voler sempre incasellare qualcuno. Ma noi siamo incasellabili. Che poi la cosa riguarda tanti. Gaber, per esempio, dove lo metti? Teatro canzone, certo, ma anche tanto altro". Ricorda con più nostalgia il diploma al conservatorio in flauto o la laurea in ingegneria elettronica? "La laurea la ricordo come un incubo. Anni di studio in una battaglia per sconfiggere i miei aguzzini, i professori del Politecnico di Milano. Ma poi ho vinto io, visto che ho portato a termine gli studi. Il diploma al conservatorio mi sembra invece di averlo fatto fruttare. Anche perchè il filone della classica lo porto sempre avanti". Si è pentito di quel film con Rocco Siffredi? "Pentito no, assolutamente. Lo considero una delle grandi imprese della mia vita, come Sanremo e la canzone lunga dodici ore. Diciamo che guardare un film porno è molto diverso dal girarlo. C'è più imbarazzo che eccitazione". Da "Lupo solitario" alla Dandini, la tv è sempre stata nelle vostre corde. "In realtà il rapporto è migliorato solo negli ultimi anni. Ci divertiamo dove abbiamo carta bianca, dove possiamo fare quello che vogliamo. Dalla Dandini dunque va benissimo. Ma anche anni fa al Dopofestival: di Baudo molti parlano male, ma per me è un grande". A Trieste cosa suonate? "Il concerto fa parte di questa appendice autunnale del tour estivo, intitolato "Enlarge your penis". Forse cominciamo con "John Holmes". O forse vi facciamo una sorpresa. In fondo ve la meritate".

mercoledì 10 ottobre 2012

ELIO E LE STORIE TESE sab a trieste

Conto alla rovescia per il Barcolana Festival. Si parte domani sera in piazza Unità con Club Dogo e altri artisti più o meno hip hop. Sabato sera è già tempo di gran finale (da anni la rassegna è ristretta a due sole serate) con Elio e le storie tese. Aprono le danze i giovanissimi triestini Libero Vento. Tutto a ingresso rigorosamente gratuito. Per gli “Elii” si tratta della quarta partecipazione ufficiale alla rassegna, dopo quelle del ’99, del 2003 e del 2008, alle quali va aggiunta almeno una presenza, più o meno in incognito, di Stefano Belisari (questo il vero nome del capobanda, nato a Milano nel ’61) come regatante nelle acque del golfo. Se non è un record, poco ci manca. Di certo un graditissimo ritorno. E un’occasione per rivedere dal vivo, nel contesto festoso della vigilia della grande regata, uno dei gruppi in assoluto più originali e intelligenti del panorama pop di casa nostra. Che poi, nel loro caso, parlare di pop potrebbe essere persino riduttivo: spaziano infatti con assoluta maestria fra rock demenziale, canzone, musica contemporanea, con influenze progressive, hard rock e chi più ne ha più ne metta. Proponendo un magma sonoro impastato da ironia e autoironia in quantità industriali. Dal 1989 del primo album “Elio Samaga Hukapan Kariyana Turu” a oggi, la discografia del gruppo è molto ricca, quanto la sua attività dal vivo. L’album più recente è “Studentessi”, pubblicato nel 2008. Nel gennaio di quest’anno i simpatici mattacchioni sono partiti con il tour “Enlarge your penis” (che volete farci: i ragazzi sono fatti così...). In tivù hanno partecipato al programma “The show must go off” di Serena Dandini su La7. Mentre Elio è appena partito per la sua terza esperienza come arcigno giurato-caposquadra a “X Factor”, il popolare talent show che dopo le edizioni su Raidue da due anni è sbarcato su Sky Uno. Sabato sera, a Trieste, i veri fuochi d’artificio sono attesi dal palco di piazza Unità. Con il concerto di Elio e le storie tese. Da non perdere.

CELENTANO più rock che economy

Più rock che economy, e con un vago sapore di naftalina, questo chiacchieratissimo ritorno di Adriano Celentano. Un ritorno dopo diciotto anni dal vivo, e dopo pochi mesi in tv (era l’ultimo Sanremo), con lo spettacolo intitolato appunto “RockEconomy”. Chissà, forse il Re degli ignoranti - per il quale Giorgio Bocca aveva coniato l’appellativo “un cretino di talento” - sta cominciando a capire che il pubblico lo apprezza ancora quando canta ma lo sopporta con difficoltà sempre maggiore quando conciona. E se non lo capisce, ci pensa sempre lui, il pubblico pagante (biglietti da uno a 165 euro, ma i bagarini hanno fatto affaroni vendendo a cifre con tre zeri...), a ricordarglielo anche con qualche garbato fischio, quando i sermoni e le chiacchiere diventano troppo lunghi. Ieri seconda serata all’Arena di Verona e secondo trionfo. In due sere, davanti a 23mila persone presenti nell’anfiteatro romano e ai milioni del piccolo schermo (lunedì trenta per cento di share e oltre nove milioni di spettatori, probabilmente altrettanti ieri: un trionfo per Canale 5, cui non è sembrato vero poter mettere le mani sull’evento incredibilmente rifiutato dalla Rai...), il nostro ha riannodato il filo di un rapporto con il pubblico italiano che certo, ha vissuto i suoi alti e bassi, ma non si è in realtà mai interrotto. Grazie a un repertorio evergreen, a una voce ancora modernissima, e nonostante l’aspetto da pensionato un po’ freak. Per comprendere le dimensioni e la portata del “fenomeno Celentano” bisogna pensare stiamo parlando di un uomo che a gennaio compie 75 anni e di un artista che ha debuttato giovanissimo nel lontano 1956 (cinquantasei anni fa...) e ha pubblicato il primo 45 giri nel ’58. Lo stesso Gianni Morandi, l’eterno ragazzo che comunque viaggia anche lui verso i sessantotto anni, e che lo ha affiancato nella doppia avventura all’Arena, ha cominciato la sua carriera all’alba degli anni Sessanta proprio imitando Adriano. Ieri apertura con l’anteprima affidata a un’autocelebrativa rassegna stampa (tg e giornali), da cui sbuca anche qualche immagine dell’economista Fitoussi intento a parlare di crescita e modelli di sviluppo. Poi immagini aeree di Verona e sermoncino fuori campo, con testo di Rifkin e Latouche, sui temi cari al Molleggiato: decrescita, miglioramento della qualità della vita, bellezza delle città e dei passaggi, accesso all’acqua potabile, qualità dell’aria, ma anche lavoro, salute, cultura. Arriva Celentano, stessa mise della sera precedente (cuffia di lana con i brillantini, giacca grigia, pantaloni neri, scarpe beige, occhiali scuri), canta “Mondo in mi settima”, brano del ’66 di denuncia sociale, anche questo di preoccupante attualità, almeno secondo la logica e l’universo celentanesco. «Staremmo freschi se nel mondo succedessero tutte queste cose - dice -, i giornali esagerano sempre un po’, guardate quello che hanno scritto su Al Bano, che è qui stasera...». “Soli” è relativamente più recente, del ’79, ma si dimentica ugualmente le parole. Idem per “L’arcobaleno”, commovente brano scritto nel ’99 da Mogol, su musica di Gianni Bella, in ricordo di Lucio Battisti, scomparso l’anno precedente. Ovazioni, tripudio e cori “A-dria-no-A-dria-no” sono gli stessi della sera prima. Ma la festa dei ricordi continua. Ora tocca a “Storia d’amore”, anno di grazia 1969. Fio Zanotti lascia per un attimo la direzione dell’orchestra di diciotto elementi e virtuoseggia alla fisarmonica. Con “Ringo” (usata nel ’66 per la pubblicità di una carne in scatola), “Yuppi-du”, il bis de “Il ragazzo della via Gluck” e “Pregherò” (eseguite anche la prima sera), parte il greatest hits. Spettacolo soprattutto musicale, con contorno di ballerini. Pochi discorsi. Dice le sue solite cose, alcune banali, altre meno, ma sa che non può esagerare: il pubblico applaude, ma vuole la musica. Sì, forse l’astutissimo “cretino di talento” ha imparato la lezione. Solo con le canzoni mette d’accordo tutti. Torna Morandi. “Un mondo d’amore” e “Ora sei rimasta sola”, un paio di battute, una gag. Ma soprattutto commozione e standing ovation per il ricordo di Lucio Dalla, con Gianni che canta “Caruso”. Ed è il trionfo della musica.

martedì 9 ottobre 2012

CLUB DOGO ven a trieste

«Noi guardiamo i ragazzi che vengono ai nostri concerti e vediamo una generazione che sta pagando pesantemente una crisi che è responsabilità di altri. Qui c’è bisogno di un cambio al vertice. Bisogna eliminare questa classe dirigente sprecona, pappona e incapace, che non è stata in grado di gestire le risorse del Paese...». Parla - e dimostra subito di essere uno che non le manda a dire - Francesco Vigorelli, in arte Jake La Furia, ovvero uno dei tre Club Dogo, nuovi campioni dell’hip hop italiano, che venerdì sera saranno per la prima volta a Trieste, al Barcolana Festival. «Siamo sempre stati attenti alla componente sociale - prosegue il rapper milanese, 33 anni -, usiamo il linguaggio di chi ci ascolta, esprimiamo nei nostri testi le loro tematiche, i loro problemi». Come se ne esce? «Questo non lo so, non sono un economista. Ma credo che la gente dovrebbe cominciare a ribellarsi. Come sta accadendo in queste ore in Grecia e nelle settimane scorse in Spagna. Da noi invece sembra di essere anestetizzati da tutto. Dalla tivù, dal calcio, da un benessere che comincia a mostrare la corda ma evidentemente non ancora abbastanza per aprire gli occhi alle persone». L’hip hop italiano come sta? «Mi sembra benissimo. Con quindici o venti anni di ritardo rispetto agli Stati Uniti, e forse anche al resto del mondo, si è imposto come vero linguaggio musicale dei ragazzi. Assieme ai nostri colleghi credo che abbiamo preso il posto del linguaggio cantautorale, quello usato da artisti che un tempo parlavano alla gente ma ora parlano solo a se stessi. Abbiamo tanti artisti sulla scena, tutta gente che richiama folle ai concerti ed è in grado di scalare le classifiche. Siamo un grande fenomeno pop, ovviamente nel senso di popolare». Avete fatto sei album in nove anni. «Sì, siamo molto profilici. Sarà un’urgenza creativa, o il fatto che ci piace fare il nostro lavoro. Facciamo tanti dischi per non essere costretti a suonare sempre dal vivo. Anche se ormai si guadagna solo con i concerti». “Noi siamo il club” è il disco nuovo. «E anche quello che è andato meglio, che ha mosso numeri alti, che ci ha fatto vincere i dischi d’oro. È nato in realtà come i precedenti, dalla semplice esigenza di fare un disco nuovo. Ma stavolta abbiamo avuto più tempo per lavorarci, dunque ci abbiamo messo dentro più noi stessi, lo abbiamo realizzato con maggiore cura. Prima eravamo un po’ schiavi dei tempi, del “cotto e mangiato”. Penso sia venuto fuori un lavoro musicalmente piu maturo, anche perchè forse siamo maturati anche noi. E il pubblico se n’è accorto». Lei è l’unico dei tre senza dischi solisti. «Ancora per poco. Sì, sono un po’ pigro. I miei due soci sono più attivi, più veloci. Ma siamo diversi. C’è chi scrive in tre minuti e chi in tre mesi. Io finora non ritenevo di avere del materiale sufficiente e soprattutto soddisfacente. Ma ci sto lavorando, sono a buon punto. Possiamo dire che il mio primo disco solista uscirà quanto prima...». La serata di venerdì in piazza Unità sarà interamente dedicata all’hip hop. Sul palco, prima dei Club Dogo, anche i friulani Carnicats e il dj Max Brigante.

lunedì 8 ottobre 2012

LINUS giov a trieste

È forse il dj più famoso di casa nostra. Ha scritto, con altri, la storia recente della radiofonia italiana. Ma è anche - oltre che direttore artistico della “sua” Radio Deejay - un personaggio televisivo, uno scrittore, uno che corre le maratone. Giovedì alle 21 Linus (per l’anagrafe Pasquale Di Molfetta, classe ’57, milanese nato in Umbria ma di origini pugliesi) sarà fra i protagonisti del premio “Cuffie d’Oro Lelio Luttazzi 2012”, che si terrà a Trieste, all’Arena Barcolana, sulle Rive. Dopo la maratona e la bicicletta la vedremo in barca a vela? «Purtroppo non ho un grande rapporto con l’acqua. In barca ci sono andato poco, è un mondo che non frequento. Ma abbiamo una casa di vacanza a Riccione, e i miei figli frequentano un corso di vela. Chissà, magari un giorno andrò in barca con loro». A gennaio avete festeggiato i trent’anni di Radiodeejay. «Sì, una grande serata al Forum di Assago, c’erano oltre 12mila persone. È stata una bella emozione, il senso di completamento di un percorso fantastico, come tagliare il traguardo di una maratona: avere attorno in una sera tutte le persone con cui sei cresciuto. Ma anche la partenza per una nuova epoca». Quella della radio sul web? «Il web è un’integrazione, non un’alternativa. Elimina i problemi delle frequenze, delle antenne, del “si sente male”. Arrivi in tutto il mondo. Una cosa incredibile: agli esordi io mi sorprendevo di sentire la radio da città all’altra. Ora mentre sono in onda mi arrivano messaggi da mezzo mondo». Ma la radio è cambiata? «Nella sua essenza no. Rimane fatta da una voce e una canzone, che non cambiano mai. E vincono sempre le voci e le canzoni migliori». Il mestiere del dj invece è cambiato. «In molte radio sono rimasti “quelli che mettono i dischi”. In altre, anche per colpa mia, sono diventati intrattenitori. Per non parlare dei dj-musicisti-produttori, che sono ormai delle star. Diciamo che ormai il termine dj ha troppe accezioni». “Deejay chiama Italia” com’è diventato un programma anche tv? «Per caso. Quando il Gruppo Espresso ha acquistato l’emittente All Music, poi diventata Deejay Tv, ci siamo accorti che la gente che assisteva in studio al programma si divertiva un sacco. Allora abbiamo allargato la possibilità di vederci. Ma dopo sei anni è un po’ faticoso». E Deejay Tv? «Si va avanti. Con la fortuna di avere una grandissima libertà e visibilità. Ma il limite di non poter contare su grandi budget e investimenti economici». Il prossimo libro? «Mi piace molto scrivere, ma proprio per questo ne ho un grande rispetto. Ci vuole tempo. E un’idea. Non mi interessa l’usa e getta». Ma il nome Linus come nasce? «Nelle famiglie meridionali i nomi come Pasquale, ovviamente in onore di mio nonno, vengono abbreviati. Avevo dodici anni. Andavano di moda i Peanuts. Pasquale, Lino, Linus...». Un aggettivo per i suoi compagni d’avventura. Claudio Cecchetto? «Geniale, determinato». Jovanotti? «Il piu capace di reinventarsi, altruista». Gerry Scotti? «Il più sottovalutato: è piu bravo di quel che si crede». Amadeus? «Il piu tenace». Fiorello? «Imprevedibile. Matto. E di cuore». Max Pezzali? «Genuino, un texano nato per caso in Lombardia». Fabio Volo? «Complicato. Il più bisognoso di affetto che abbia mai conosciuto».

sabato 6 ottobre 2012

BARCOLANA JAZZ, partita la maratona

È partito ieri sera, sulle Rive, davanti a piazza Unità, l’appuntamento con Barcolana Jazz. Per il secondo anno consecutivo, dunque, oltre ai concerti pop della vigilia (quest’anno, come annunciato, ci sono fra gli altri venerdì Club Dogo e sabato Elio e le Storie Tese), la più affollata regata velica del mondo diventa occasione per una maratona jazz nel centro cittadino. Debutto con il Luma Lourenco 4tet, nel quale ha brillato la voce passionale della brasiliana Heloisa “Luma” Lourenco. Mercoledì alle 18.30, sempre sulle Rive, tocca a Barbara Errico (voce e pianoforte) e poi al Roberto Magris 4tet with Voice (omaggio in chiave jazz ad alcuni classici della canzone italiana). Giovedì alle 18.30 ci spostiamo in via San Nicolò (incrocio con via Dante) con il duo Tacco & Pirro: ovvero, il giovane pianista Piergiorgio “Manolesta” Pirro assieme allo specialista di tap dance americana Ernesto “Piè veloce” Tacco, per coniugare jazz e ballo con brani noti e meno noti della storia della musica swing americana dagli anni Trenta ai Cinquanta. Sempre giovedì alle 18.30, e sempre in via San Nicolò (ma incrocio con via Cassa di Risparmio), tocca anche al Michael Supnik 4tet, che suonerà un programma di standard, da Gershwin a Ellington, da Strayhorn a Porter, passando per Kern, Carmichael, Berlin. Nuovo piccolo trasloco venerdì, si va al Magazzino 26 del Porto Vecchio, per far spazio a Marco Castelli e alla sua Mambo Swing Band. Domenica, giorno della regata, a fare da colonna sonora all’arrivo delle barche sulle Rive è previsto uno spettacolo itinerante con la Fire Dixie Jazz Band. Barcolana Jazz è organizzata in collaborazione con la Casa della Musica/Scuola di Musica 55. La Scuola di Danza 10 propone invece Barcolana Danza, evento itinerante al suo debutto ieri sera, sempre sulle Rive.

REMO ANZOVINO nuovo album, con suite per il Vajont

Per il suo quarto album, “Viaggiatore immobile”, che esce domani, ha incassato una copertina firmata da Oliviero Toscani. Anche lui, come tanti, affascinato dalle musiche di Remo Anzovino, pianista e compositore (ma anche avvocato) pordenonese, classe ’76. Che con questo lavoro arriva al quarto capitolo della sua discografia, dopo tre importanti album come “Dispari” (2006), “Tabù” (2008) e “Igloo” (2010), tutti capaci di raggiungere la prima posizione della classifica jazz di iTunes. Sono passati ormai diversi anni da quando un giovane Anzovino accompagnava dal vivo, al pianoforte, i film alle Giornate del cinema muto di Pordenone. Bis a una Mostra del Cinema di Venezia, dove dopo la sua esibizione Vincenzo Mollica disse al Tg1: «Uno dei momenti più belli è stato il concerto di Remo Anzovino, che ha materializzato, mentre suonava, le figure di Louise Brooks e Tina Modotti...». Tempi passati. Oggi, grazie ai dischi pubblicati e ai concerti di questi anni, l’artista regionale (che è “fratello d’arte”: Remo Anzovino aveva debuttato come cantautore e suona spesso la chitarra, in sala e dal vivo, per il fratello) è considerato una bella realtà della musica strumentale italiana. “Viaggiatore immobile” (Egea Music) è un omaggio alla fantasia, un percorso colto e popolare assieme, trasversale fra i generi (jazz, classica, rock, world, pop...), che pesca un po’ dappertutto ma sempre con un approccio molto moderno e assolutamente contemporaneo. Si parte con “Natural mind”, l’energia del mattino che nasce, la forza e il ritmo della vita di ogni giorno. “Spasimo” è una corsa tra le emozioni, sospesa fra tastiera e archi. “Irenelle” sfrutta un’ispirazione agile e visionaria. “Pazyryk” prende il nome dal tappeto più antico della storia, vecchio di migliaia di anni, che con questi suoni riprende a volare. “Musica per due” gioca sul corteggiamento amoroso, trame che si infittiscono di fantasia in fantasia. Poi arrivano “Orchidea”, “Transoceano”, “Specchio”, “Amore pop”, “Quattro canti”, “Orient island”... Ma soprattutto “9 ottobre 1963 (Suite for Vajont)”: appassionato tributo d’amore per la propria terra, tragicamente ferita mezzo secolo fa dalla mancanza di rispetto dell’uomo per la natura. Con il contributo delle voci maschili del Coro Polifonico di Ruda. «Ho scritto questo brano - dice - perchè abito a un’ora da lì e sin da bambino sono stato educato al significato civile di quella catastrofe. L’ho scritto nella speranza che la musica contribuisca a mantenere vivo il ricordo di un fatto che celebra i suoi cinquant’anni nel 2012, e che considero la madre di tutte le tragedie dovute all’incapacità dell’uomo di ascoltare i segni della natura». La suite colpisce per la sua forza espressiva e conclude l’album. Perchè nessuno dimentichi. Nella copertina, Toscani gioca in maniera enigmatica sulle traiettorie e sui riflessi tra il volto di Anzovino e il suo pianoforte a coda. L’album è prodotto dal giapponese Taketo Gohara (Capossela, Baustelle, Mauro Pagani...), con gli arrangiamenti orchestrali di Stefano Nanni. Fra i musicisti, coesistono componenti dell’Orchestra della Scala di Milano e “session men” della scena rock e d’avanguardia. Il disco verrà presentato dal vivo il primo novembre al Blue Note di Milano e il 17 novembre al Teatro Verdi di Pordenone.

martedì 2 ottobre 2012

BEATLES, 50 ANNI da "LOVE ME DO"

“Love me do” uscì il 5 ottobre 1962. Mezzo secolo fa. E fu l’inizio di tutto. Dei Beatles, della beatlemania, della musica pop, della stessa rivoluzione - nella musica, nel costume, nella cultura - che i quattro di Liverpool incarnarono. Una rivoluzione durata, calendario alla mano, soltanto otto anni (nel 1970 i Fab Four decisero di proseguire ognuno per la propria strada), ma in realtà mai terminata. Restiamo infatti convinti del fatto che questo mondo - non solo la musica che ascoltiamo - sarebbe un po’ diverso, se non ci fossero stati quei quattro ragazzi e i loro dischi. Ma tutto cominciò da quel 45 giri. Certo, c’erano stati i Quarrymen e vari altri nomi (Johnny and The Moondogs, Beatals, Silver Beetles, Silver Beatles...), le serate ad Amburgo e il bassista Stuart Sutcliffe (che mollò i futuri baronetti per fare il pittore), la disperata ricerca di un contratto discografico - con l’epocale rifiuto della Decca - e il batterista Pete Best (sostituito da Richard Starkey, in arte Ringo Starr, un minuto prima dell’entrata in sala d’incisione...). Però la storia, quella vera, cominciò in quell’estate/inizio d’autunno del ’62. La struttura centrale di “Love me do” - come ricorda Franco Zanetti nel suo “Libro bianco dei Beatles, La storia e le storie di tutte le canzoni”, pubblicato da Giunti proprio in questi giorni - era stata scritta da un giovanissimo McCartney probabilmente già nel ’58, una mattina che aveva marinato scuola. Anche se il Macca, tanti anni dopo, si attribuì con molta modestia solo l’idea originale, parlando invece di una scrittura a quattro mani con Lennon. Le radio inglesi trasmettevano “She’s not you” di Elvis Prsley, “Sheila” di Tommy Roe, “The Loco-Motion” di Little Eva, “Only love can break your heart” di Gene Pitney. Al cinema usciva il primo 007 (proprio il 5 ottobre...). E nessuno avrebbe scommesso un penny su quei quattro ragazzi. La registrazione avviene in tre sedute distanziate, il 6 giugno (quando registrati quattro pezzi, tra cui una versione del classico “Bésame mucho” cantata da Paul, e tre brani originali: “Love me do”, “P.S. I love you” e “Ask me why”) e poi il 4 e l’11 settembre. Il brano è firmato McCartney-Lennon, la familiare e storica sigla Lennon-McCartney subentrerà infatti a partire dal quarto singolo, “She loves you”, uscito nell’agosto ’63. Una curiosità. Ascoltando la registrazione del 4 settembre di “Love me do”, il produttore George Martin (responsabile per la Emi dell’etichetta satellite Parlophone) boccia la prova di Ringo, da poco subentrato a Pete Best, e chiama in sala il sessionman Andy White, che suona la batteria, oltre che in “Love me do”, anche in “P.S. I love you” (retro del 45 giri), affibbiando l’umiliazione al titolare di suonare il tamburello come rinforzo al rullante nel primo brano e le maracas nel secondo. Anche se poi il pezzo passato alla storia come quello dell’esordio discografico esce su singolo nella versione di Ringo e nell’album (che uscirà a marzo, due mesi dopo e con lo stesso titolo del secondo singolo “Please please me”) con la versione di White. La casa discografica non sostiene particolarmente “Love me do”, che comunque - pur ignorato dai media e dal grande pubblico - raggiunge il diciassettesimo posto nelle classifiche di vendita del Regno Unito. Forse anche grazie alle migliaia di copie acquistate dal manager Brian Epstein per il negozio di dischi che gestiva a Liverpool. Anno nuovo, vita nuova. A gennaio del ’63 esce “Please please me” e zompa subito al primo posto in classifica. E la leggenda può cominciare. Prima in Inghilterra, poi negli Stati Uniti e nel resto del mondo. Cinquant’anni dopo, oggi Paul è un’istituzione internazionale, Ringo vive beatamente di rendita (anche se non disdegna dischi e tournèe), John e George purtroppo non sono più fra noi. Ma fra noi rimarranno sempre i Beatles, che ormai fanno parte della storia moderna del nostro pianeta. Alla Emi lo sanno bene, e dopo aver riproposto in dvd “Yellow Submarine” e al cinema “Magical Mystery Tour”, ora raschiano il fondo del dorato barile ripubblicando i 14 album originali di studio dei magnifici quattro, già usciti in cd nel 2009 e in digitale (solo su iTunes, nell’ambito di un accordo miliardario con la Apple, quella di Jobs, che aveva “rubato” nome e simbolo della mela proprio ai Beatles) nel 2010. A novembre (il 12 nel mondo, il 13 in Italia) tornano nell’originale vinile stereo. Per farci sognare ancora. E per far toccare con mano ai ragazzi di oggi gli oggetti attraverso i quali, mezzo secolo fa, il mondo si innamorò di quattro ragazzi chiamati Beatles.