giovedì 21 febbraio 2008

BORIS PAHOR DA FAZIO


Forse c’è voluto Fabio Fazio, ieri sera su Raitre, nel suo «Che tempo che fa», per sdoganare definitivamente anche in Italia il triestino di lingua slovena Boris Pahor. Per riparare a un torto, a un’ingiustizia, forse più semplicemente a un’ottusità: quella di chi ha permesso - nella nostra città prim’ancora che nel nostro paese - che uno scrittore come Pahor, classe 1913, fosse sconosciuto a casa sua. A casa sua, ma non nel resto del mondo. Dove è tradotto e apprezzato da almeno vent’anni.

Il suo «Necropoli» (per Le Monde «un libro sconvolgente, la visita a un campo della morte e il riaffiorare di immagini intollerabili descritte con una precisione allucinata e una eccezionale finezza di analisi...») è uscito nel ’67. In questi quarant’anni ha avuto traduzioni nelle lingue di mezzo mondo, ma in Italia è stato pubblicato per la prima volta (a parte un’edizione locale nell’Isontino) solo pochi mesi fa da Fazi Editore. In Francia gli hanno assegnato la Legion d’Onore. E premi sono arrivati persino dagli Stati Uniti.

Quando Fazio gli chiede come tutto ciò possa essere accaduto, lui risponde pacato: «Lo ha spiegato bene Paolo Rumiz su Repubblica: ”Per troppo tempo ha fatto comodo non si sapesse che nella città italianissima c´era un grande capace di scrivere in un’altra lingua - la stessa che il fascismo aveva negato a suon di manganello, sputi e olio di ricino - e mettere con i suoi capolavori il dito sulla piaga...”».

Poi Boris Pahor - elegante nel doppiopetto grigio e tonico nei suoi vitalissimi novantacinque anni - ha raccontato del nostro martoriato confine orientale. «Gli anni Venti sono stati il periodo più brutto per Trieste, sotto l’Austria eravamo una città ricca, poi gli uomini di cultura e anche i sacerdoti sloveni sono stati mandati via. Nel 1920 hanno cominciato a bruciare le case di cultura slovene, quando il fascismo è andato al governo ci hanno tolto la lingua, hanno bruciato i nostri libri, ci hanno cambiato nomi e cognomi. Una vera e propria pulizia etnica ”romana”, perchè sloveni e croati dell’Istria dovevano diventare italiani...».

Ancora Pahor: «Lo hanno detto loro stessi: la rivoluzione fascista è nata a Trieste, quando abbiamo cominciato a ripulire la città...». Poi lo scrittore racconta la tragedia nel campo di concentramento, il lavoro prima come interprete e poi da infermiere, il contatto diretto con la morte. E infine quel viaggio vent’anni dopo, negli anni Sessanta, che ispirò il racconto di «Necropoli».

C’è il tempo per una riflessione: «Credo ancora nell’umanità dell’uomo, ma il problema è come fare che la bontà si affermi. Oggi molti hanno tanto. Ma dove lo trovi un cristiano che magari ha tre automobili che ne regali una a chi ne ha bisogno...». Poi il saluto in sloveno, sollecitato dal conduttore. E il pensiero finale «a quelli che non sono tornati».

Dopo gli articoli su Repubblica, sul Corriere della Sera, su tanti altri giornali, possiamo dire che fra le 20.30 e le 21 di ieri sera, grazie all’intervista televisiva, l’Italia ha scoperto Boris Pahor. Che negli anni scorsi è stato più volte candidato al Premio Nobel per la letteratura. Sarebbe stato imperdonabile, nel caso di una vittoria che potrebbe ancora arrivare, che qualcuno, a Trieste e in Italia, dovesse dire ”Boris chi...?».

Chissà, forse il futuro di questa città e di questo paese potrebbe partire anche da piccoli grandi gesti come questo: restituire al triestino sloveno Boris Pahor il posto che gli compete nella storia della letteratura. E nella storia delle nostre terre.


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