mercoledì 27 settembre 2006

DYLAN Fra artisti che quando azzeccano anche il secondo disco c’è da gridare al miracolo, e dischi nei quali salvare una e magari due canzoni è impresa da mettere a referto, a volte avvengono fatti che scaldano il cuore. Prendete la vicenda umana e artistica di Bob Dylan, signore che alla bella età di sessantacinque anni, dopo aver lasciato come pochissimi altri il segno nella storia della musica e forse della letteratura del Novecento, al 44° album ufficiale in carriera se ne esce con un disco bello, vibrante, ricco, emozionante come «Modern times». È uscito già da tre settimane, ha fatto già in tempo a scalare le classifiche di vendita (cosa che al nostro non succedeva da un po’...), ma davvero non possiamo non parlarne alla ripresa di questa pagina dopo la pausa estiva.  Mister Zimmerman non faceva un disco in studio dal 2001, da quel «Love and theft» che aveva lasciato perplesso più d’uno. Anni passati sempre in giro per il mondo con il suo «Never ending tour», a strapazzare e rendere irriconoscibili anche antichi cavalli di battaglia.

La scelta di intitolare il nuovo disco «Tempi moderni», al di là della citazione chapliniana, ha il sapore da un lato di una garbata presa in giro (Dylan è un signore d’altri tempi, geniale ma d’altri tempi), dall’altro di una netta presa di distanze dal nostro presente così confuso. A tratti sembra dire: in questo caos, in mezzo a questa follia, l’unica salvezza è il ritorno alla semplicità, alle origini, alle radici...

Il concetto di tempo torna spesso in Dylan, dalla leggendaria «The times they are a-changin'» del ’64 fino al «Time out of mind» del ’97, passando per tanti brani. Il tempo che scorre, il tempo di ieri che non torna più, quello di domani che è un punto interrogativo in fondo a un tunnel sempre più oscuro...

Mezzo cowboy e mezzo signore del sud degli Stati Uniti, dopo essersi tolto lo sfizio di fare il dj e di pubblicizzare biancheria intima (...!), Bob Dylan si rimette al centro della scena con un disco senza tempo, fra blues e honky tonk, fra jazz e country, fra classici rock’n’roll («Thunder on the mountain», esplicito omaggio a «Johnny B. Goode», all’epopea di Chuck Berry, ma anche - un po’ a sorpresa - ad Alicia Keys...) e ballate, fra valzer («When the deal goes down») e appassionati ritratti della classe operaia («Workingman’s blues #2»), fra velati messaggi religiosi e riferimenti alla catastrofe che un anno fa mise in ginocchio New Orleans o magari a un’inondazione di chissà quanti anni fa («The levee’s gonna break», l’argine sta per cadere)...

Dieci canzoni senza tempo, che potevano essere apprezzate dieci o vent’anni fa, ma che saranno amate anche fra dieci o vent’anni. Dieci canzoni ricche di suoni scarni, semplici, essenziali, puliti. E interpretate con quella voce roca che sembra in grado di scolpire la roccia, che da tanto tempo indica la strada, la rotta, canta le nostre contraddizioni, la confusione e il disincanto di questi imbarazzanti «tempi moderni»... Tradizione e leggerezza, classe e godibilità, stile e genialità.

«Non sto parlando, sto solo camminando, per questo mondo vago e misterioso, col cuore bruciante, ancora struggente, camminando attraverso le città malate, in mano alla speculazione...», canta Bob nella traccia di commiato, «Ain’t talkin’».

Capolavoro. Da ascoltare mille volte e poi serbare - iPod permettendo - fra i dischi più cari.


ZUCCHERO Cinque anni di silenzio (l’ultimo disco era «Shake») sono tanti, per tutti ma soprattutto per un artista come Zucchero. Che fra l’altro proprio oggi compie cinquantuno anni. C’era dunque molta attesa per questo «Fly» (sottotitolo: «Come possiamo volare con le aquile se siamo contornati da tacchini»), uscito nei giorni scorsi per Universal.

Prima curiosità: chi sono i tacchini? Risposta: «Le radio, le case discografiche, che per risparmiare stampano male i dischi, gli americani con l'ossessione di aiutare tutti, il politically correct, i cattocomunisti...».

Polemiche e sassolini nelle scarpe a parte, il disco non delude attese e aspettative. Musicalmente ricco, realizzato sotto la regia del grande Don Was (che ha chiamato a raccolta sessionman straordinari come Randy Jackson, Jim Keltner, Pino Palladino, Waddy Wachtel, Kenny Aronof...), il lavoro brilla di un suono che profuma di radici, che privilegia il feeling sulla tecnica.

Canzoni ricche di belle melodie, che spaziano su armonie solide, figlie di atmosfere nere ma anche di richiami anni Sessanta/Settanta a grandi padri come Procol Harum, Vanilla Fudge, Mamas and Papas...

Nel disco ci sono anche due canzoni, una scritta con Jovanotti - «Troppa fedeltà» - e un’altra con Ivano Fossati, «È delicato». Ma c’è anche il grande Brian Auger, chiamato a suonare il vecchio organo Hammond «perchè volevo tornare ai suoni veri, allontanarmi dall’elettronica...».

Il primo singolo s’intitola «Bacco perbacco», «Let it shine» è un omaggio a New Orleans devastata dall’uragano Katrina, «Cuba libre» è una dichiarazione d'amore «al mito di Cuba», «Occhi» ha una melodia dolce che rapisce, «Quanti anni ho» è dedicata al figlioletto Blu...

Dal 15 febbraio Zucchero è in tour. Assieme alla figlia, la giovanissima Irene Fornaciari, già lanciata sulle orme dell’illustre genitore.


FOSSATI Gran lavoro di «remastering» (soprattutto per i brani più vecchi) per questo triplo cd che raccoglie per la prima volta le più belle canzoni dell’artista genovese, da «La casa del serpente» del ’77 fino alla recentissima «Cara Democrazia». Il titolo scelto è quello una delle sue ultime canzoni, «Ho sognato una strada», compresa ne «L’Arcangelo», l’album pubblicato lo scorso febbraio. Quarantadue canzoni fra impegno civile («Mio fratello che guardi il mondo», «Sigonella», «Pane e coraggio», «Il disertore» di Boris Vian...) e canzoni d'amore, fra rock e introspezione psicologica. Insomma, il miglior Fossati...


BENNATO Reduce da un’estate in cui ha co-firmato uno dei tormentoni più azzeccati («Notte di mezza estate», con Alex Britti), il cantautore napoletano pubblica un triplo cofanetto che in 41 canzoni e tre ore di musica racconta una grande storia di successo cominciata nel ’73 con «Non farti cadere le braccia». Nella copertina di quell’album ci stava un «ultimo fiammifero», quasi a simboleggiare - si diceva all’epoca - l’ultima possibilità che la discografia dava a Bennato. In realtà, fu solo l’inizio di una lunga strada che non è ancora finita. Canzoni e rock, fiabe e piccoli apologhi... Riascoltiamo «Mangiafuoco», «Il gatto e la volpe», «Sono solo canzonette», «Ogni favola è un gioco», «Viva la mamma», «Le ragazze fanno grandi sogni»...


 

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