mercoledì 1 agosto 2018

DOPO BASAGLIA. QUEL CHE RESTA DI MARCO CAVALLO

Di ROBERTO CANZIANI Carlo Muscatello ed io c’eravamo, nel febbraio del 1973. Quando dentro al manicomio di San Giovanni a Trieste, assieme a un gruppo di persone che guardavano avanti, Franco Basaglia dava avvio a una rivoluzione che avrebbe dovuto attendere cinque anni per manifestarsi. Carlo ed io parleremo di quel decennio formidabile domani, giovedì 2 agosto, nella nuova puntata della trasmissione radiofonica Basaglia Live (ascolta qui le puntate precedenti), che per tutto il mese di luglio e per quello di agosto, ripercorre la strada che ci separa da allora. Ricordando che sono passati 40 anni giusti dalla pubblicazione – nel 1978 – della Legge 180. La legge che, grazie a Basaglia, ha trasformato la condizione del disagio mentale nel nostro Paese. Se tutto ciò è avvenuto, è anche merito di un cavallo. Diventato famoso per il suo straordinario colore azzurro. Marco Cavallo.  A inventare e dare forma, con legno e cartapesta a Marco Cavallo furono due artisti, Giuliano Scabia e Vittorio Basaglia. Peppe Dell’Acqua, psichiatra, che era là con loro, ricorda i dettagli di quella avventura in una bella intervista di qualche anno fa con Claudio Magris. Poi ci sono i libri che Giuliano ha scritto, quelli scritti da Peppe, la lunga sequenza di viaggi che ha portato Marco Cavallo dappertutto, addirittura dentro l’Expo di Milano. Ma a me e a Muscatello piace ripartire da un’altra fotografia . L’aveva scattata Neva Gasparo il 25 febbraio del 1973. Nell’immagine si riconosce Franco Basaglia. Ha sollevato una panchina e con un movimento un po’ teatrale, la usa come un ariete. Con altre persone, vogliono sfondare la recinzione del reparto P, uno dei padiglioni del manicomio di San Giovanni. Perché si tratta di far uscire, in quella fredda giornata di sole, il cavallo azzurro che là dietro, in secondo piano, attende e scalpita impaziente. La prima uscita di Marco Cavallo porterà lungo le vie di Trieste e fin sul colle di San Giusto tutti coloro che, dentro al manicomio, lo hanno immaginato, costruito e dipinto di quello straordinario colore azzurro. Mancano ancora cinque anni – il 1978 – affinché la Legge 180 riconosca che tanti altri cancelli, tante altre istituzioni psichiatriche vanno sfondate. Ma intanto il teatro ha fatto da apripista. Perché l’avventura di Marco Cavallo non è stato solo un episodio nella storia della psichiatria e della percezione della malattia mentale. E’ stata anche uno dei primi momenti in cui il teatro, in Italia, ha cominciato a manifestarsi fuori dei teatri. E’ stata la sua uscita dai recinti, il rifiuto della prosa, l’apertura a un panorama di problemi più vasto, decisamene più urgenti dei pur rispettabili tormenti – chessò – del giovane principe Amleto. A 45 anni anni di distanza le cose sono cambiate. Oggi il teatro non sembra non occuparsi granché di chi vive il disagio della malattia mentale, la reclusione in carcere, la condizione di rifugiato, di chi si percepisce minoranza. Il “teatro sociale” ha corso difficile, proprio oggi che ce ne sarebbe fortemente bisogno. Qualcosa però rimane. Ed è frutto di quella stagione, inaugurata da Basaglia, da Scabia, da giovani artisti e gruppi che aderirono allora, dentro quei padiglioni, trasormati in laboratori, alle loro proposte: il Centro d’espressione teatrale “Il cantiere”, per esempio. O il Teatro Studio di Claudio Misculin e Maurizio Soldà. Claudio Misculin continua oggi il suo percorso con le attività dell’Accademia della Follia: un lungo percorso d’arte non imbrigliata, raccontato in un film da Anush Hamzehian (2015) e in numerose pubblicazioni.  Lo si può seguire sul profilo FB dello stesso Misculin, leggendo i numerosi articoli in rete, assistendo alle creazioni dei suoi attori “matti” (la più recente proprio ieri, sempre negli spazi del parco di San Giovanni). Cresciuta nel gruppo “Il cantiere”, Andreina Garella non ha tradito il mandato di quel “teatro sociale”. Ora lavora in Emilia, dove assieme a Mario Fontanini ha fondato Festina Lente Teatro. Una loro recente proposta, lo spettacolo La vita fragile, pieno della stessa forza che accompagnava le uscite di Marco Cavallo, ha mobilitato alcune settimane fa la Cavallerizza di Reggio Emilia, su proposta del Dipartimento di salute mentale di quella provincia. E ha restituito alla gente gli allegri suoni di banda, le storie di inclusione, il diritto a essere diversi ma uguali, che molti di noi avevano dimenticato. (dal blog Quante scene)

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