di Carlo Muscatello
Quarant’anni senza John Lennon, quarant’anni che l’ex Beatle è stato ucciso. Ma a pensarci bene, in tutto questo tempo, il mondo non si è mai sentito orfano della musica, delle idee, delle speranze che il più geniale dei Fab Four ha saputo esprimere nella sua breve vita.
Perchè se Elvis Presley - distrutto a quarantadue anni, nel ’77, da cibo, farmaci, droghe ed eccessi vari - è stato l’inventore e il re del rock, Lennon e i Beatles (nel 2001 è morto anche George Harrison, dunque oggi sono in vita solo Paul McCartney e Ringo Starr) hanno cambiato musica e costume del Novecento.
Aveva appena quarant’anni, quella sera dell’8 dicembre 1980 quando il destino gli mise davanti la follia omicida di Mark David Chapman. C’era stato un prologo. Poche ore prima dei cinque colpi di pistola, il suo assassino gli strinse la mano e si fece autografare una copia del suo album ”Double Fantasy”, appena uscito. Davanti al Dakota Palace, l’abitazione newyorkese di Lennon affacciata su Central Park, c’era anche un fotografo, tale Paul Goresh, che immortalò la scena in uno scatto rimasto storico: l’assassino e la sua vittima.
Chapman - che in tutti questi anni ha chiesto più volte la libertà provvisoria, ma è ancora in galera - quella sera rimase in attesa per quattro ore. Aveva con sé una copia del “Giovane Holden”. Poco prima delle 23, quando vide John rientrare assieme a Yoko Ono, lo chiamò e gli disse: «Ehi, mister Lennon. Sta per entrare nella storia...».
Quattro dei cinque proiettili calibro 38 colpirono l’artista, uno trapassò l’aorta. Lennon fece qualche passo, prima di cadere. Poi l’inutile corsa al Roosevelt Hospital, dove fu dichiarato morto alle 23.09. Non erano ancora tempi di internet, facebook e twitter e compagnia delirante, ma la notizia fece il giro del mondo in pochissimo tempo, suscitando ovunque autentica commozione. I primi flash d’agenzia, i notiziari radio e tv, i raduni spontanei di giovani e meno giovani nelle strade di mezzo mondo...
C’era forse la consapevolezza, fra milioni di persone, che quella morte segnasse per davvero la fine di un’epoca. L’epoca della musica che portava in sé l’illusione di poter cambiare il mondo, incrociandosi con i movimenti giovanili nati negli anni Sessanta e Settanta. Se Woodstock, nell’agosto del ’69, aveva chiuso la stagione della controcultura giovanile, il sogno della ”nazione alternativa”, di un mondo diverso e migliore grazie anche alla musica, la morte di Lennon (che nel ’70 aveva cantato ”The dream is over”, il sogno è finito, verso riferito in prima battuta solo allo scioglimento dei Beatles...) chiude la saracinesca ai sogni, agli ideali, se vogliamo alle utopie dei due decenni precedenti. E milioni di persone in tutto il mondo lo capirono perfettamente.
Perchè John Lennon non fu soltanto il protagonista - soprattutto assieme al suo alter ego creativo McCartney - di quella straordinaria avventura chiamata Beatles, che in soli otto anni di produzione discografica, dal ’62 di ”Love me do” al ’70 di ”Let it be”, ha cambiato dalle fondamenta la musica, il costume e se vogliamo anche la cultura della seconda metà del cosiddetto secolo breve.
Soprattutto dopo lo scioglimento del gruppo, il suo sincero impegno civile e politico, non solo con i ”bed in” e le manifestazioni per la pace, ne fecero anche un protagonista della vita pubblica. E l’essersene andato così presto lo ha reso ”forever young”, per sempre giovane, quasi immortale. Risparmiandogli i rischi di una sicura decadenza fisica e di un possibile (nel suo caso, forse improbabile...) tramonto creativo.
Senza la follia omicida di Chapman, chissà come sarebbero andate le cose. Di certo, allora, di quei quattro, Lennon era forse il più creativo e geniale, di certo il più carismatico e trasgressivo e politico, in anni in cui il mondo sembrava dovesse cambiare radicalmente di lì a poco. Sappiamo che non è andata così. O meglio: il cambiamento non è andato nella direzione allora sperata.
Ma la grande importanza del poeta di ”Imagine” e dei quattro ragazzi di Liverpool non è mai stata in discussione. Oggi John Lennon verrà ricordato in tutto il mondo. A Londra, nella sua Liverpool, nella sua New York. Dove dal 9 ottobre 1985, giorno del suo quarantacinquesimo compleanno, quel pezzetto di Central Park dinanzi al Dakota Palace - nell’Upper West Side - si chiama ”Strawberry Fields”, proprio come una delle tante, inarrivabili canzoni dei Beatles.
Lì, ogni giorno, c’è qualcuno che si ferma attorno al grande mosaico circolare di pietre grigie e nere che formano per terra la parola “Imagine”. E qualche giovane o vecchio ragazzo con la chitarra strimpella le canzoni dei Beatles - ormai musica classica - con un cappello appoggiato per terra. Oggi quell’area, nonostante la pandemia, sarà piena di fiori e di candele accese. Per ricordare un grande del Novecento. Per ricordare John Lennon.
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