venerdì 15 luglio 2005

 C’è anche la Trieste della sofferenza, della povertà, dell’emarginazione.
Pino Roveredo la racconta da anni, nei suoi libri e su queste colonne,

perché la conosce bene. Possiamo anzi dire che in tempi non lontani l’ha

conosciuta sulla sua pelle. E chissà, forse la sera del 17 settembre, quando

a Venezia il suo libro «Mandami a dire» contenderà agli altri quattro

finalisti il Premio Campiello 2005, quella sera, finalmente ammesso nel

salotto buono della cosiddetta cultura italiana, la sua discesa agli inferi

gli riapparirà come in un flashback. Povere stazioni di un girone dantesco:

l’istituto dei poveri, l’alcol, il manicomio, il carcere...

Roveredo, la scrittura le ha salvato la vita?

Sì, la scrittura è stata fondamentale nella mia vita, perché scrivendo sono

riuscito a comunicare, a evadere dalla mia solitudine, a dire cose che non

avrei mai detto a parole a qualcuno. Ma non parlo solo della scrittura

finalizzata ai libri, ai racconti. C’è anche quella delle lettere: ne ho

sempre scritte e ricevute tante. Anche quand’ero in carcere, le scrivevo per

conto terzi, in cambio di qualche sigaretta...

Dell’alcol cosa ricorda?

Tutto. A tredici anni la prima birra, il primo bicchier di vino, il caffè

corretto... Con un po’ di alcol in corpo ti illudi che il tuo rapporto con

la gente funzioni meglio. Poi ti accorgi che le birre della domenica non

bastano, passi al vino del lunedì, alle grappe del martedì, fino al

bicchiere di aceto pur di placare il bruciore alla stomaco. E ti ritrovi

alcolista senza quasi accorgertene.

Soprattutto a Trieste l’alcol è quasi una droga libera, a disposizione di

tutti...

Sì, è un dramma sociale. La mia fortuna comunque è stata non essere nato

dieci anni dopo. In quel caso sarei probabilmente morto, con tutta l’offerta

di droga sul mercato. Con la mia voglia di eccessi sarei stato sicuramente

un buon cliente dell’eroina.

Invece...

Invece solo qualche canna. Peraltro come tanti ragazzi di buona famiglia, o

come tanti rispettabili professionisti, come tanti politici...

I guai come sono cominciati?

A tredici anni, appena uscito dall’istituto, l’Eca, Ente Comunale Assistenza

- ma noi lo chiamavamo Entrata Cani Affamati, con Uscita Cani Stecchiti... -

fui colpito da improvvisa libertà: le prime sigarette, i giornalini

pornografici, non dover camminare in riga. E l’alcol, che per me è stata una

delle vie più facili per credere di entrare nelle libertà degli altri.

Fino al luogo dove la libertà era negata...

Sì, a diciassette anni sono stato in manicomio, alcolista agitato. Al pronto

soccorso venni bastonato, mi fu messa la camicia di forza. Sapevo di non

esser matto, ma dovevo trovare qualcuno a cui spiegarlo. Chiesi chi era

Basaglia. Mi indicarono un uomo senza camice bianco, che fino a quel giorno

avevo scambiato per un ricoverato. Ricordo la sua cortesia. E una partita a

scacchi, o forse era dama, durante la quale trovai finalmente una persona

che mi stesse ad ascoltare.

Del carcere cosa ricorda?

L’umanità dei compagni. Vi entrai in un giorno tristissimo per Trieste, che

la città ha dimenticato: agosto ’72, erano appena morti tre detenuti dopo

una rivolta al Coroneo. Avevano appiccato il fuoco a dei materassi per

protesta e nel rogo erano finiti bruciati vivi. In carcere ci sarei

rientrato dopo oltre vent’anni, stavolta per parlare dei miei libri e della

mia esperienza...

E dell’infanzia, cosa ricorda?

Il silenzio che c’era in casa, con due genitori sordomuti che ci hanno

insegnato il linguaggio dei gesti. Per vent’anni ho considerato l’essere

figlio di genitori sordomuti come un alibi per il mio disagio. Senza capire

la grande ricchezza affettiva e di pensiero che mi hanno lasciato. Oltre al

linguaggio delle mani, dei gesti, che comporta fantasia, creatività, anche

onestà...

Suo padre che lavoro faceva?

Prima il calzolaio, poi il manovale e infine il magazziniere. E mi diceva

sempre di essere figlio di un conte. Un giorno, pochi anni fa, presentavo un

mio libro al Circolo Menocchio di Montereale Valcellina, il paese vicino

Pordenone da dove veniva lui. Arriva un’anziana signora, mi guarda e dice:

finalmente rivedo un Oldi... Allora mi ricordo di mio padre, di quella che

io consideravo una fantasia, che il nonno era il conte Oldi, che poi era

finito in miseria, perdendo tutto, anche titolo e cognome. Dopo

quell’incontro ho fatto delle ricerche, sembra incredibile ma ho trovato

delle conferme: discendo da una famiglia di nobili...

Come ha conosciuto Claudio Magris?

Nel ’96, avevo appena pubblicato «Capriole in salita», decisi di scrivere a

vari scrittori, a uomini di cultura triestini. Lui fu l’unico a rispondermi

subito, dopo due giorni. Mi telefona e mi dice: ci vediamo fra un’ora al

caffè, ovviamente il San Marco. È stato in incontro di pelle, mi ritengo

fortunato di poterlo considerare un amico.

Grazie a lui è arrivata la ribalta nazionale.

Sì, il suo aiuto è stato fondamentale. Dopo un articolo sul Corriere della

Sera mi ha cercato Elisabetta Sgarbi e tramite lei è arrivato il contratto

con Bompiani, per cui è uscito «Mandami a dire». Ma di una frase pronunciata

da Magris sono orgoglioso: sappi - mi ha detto - che se non avessi

considerato i tuoi libri di qualità, non avrei mosso un dito...

La scrittura quando è diventata una cosa seria?

Nel ’91 scrissi a Maurizio Costanzo per denunciare le storture burocratiche

in cui ero incappato per alcuni problemi sanitari dei miei figli. Lui invece

rimase colpito dal modo in cui era scritta la lettera. Mi ricordo che mi

disse: lei deve scrivere... E fu dietro suo stimolo che ho cominciato a

scrivere «Capriole in salita», uscito nel ’96, grazie a Valerio Fiandra, che

era appena entrato alla Lint...

Lei ama l’estate?

Ho un rapporto di odio e amore, non amo le spiagge affollate. Ci andavo per

far contenti i miei tre figli, che ora sono grandi e vanno al mare con gli

amici. Io continuo ad andare a Marina Julia, dove trovo qualche angolo di

tranquillità. E dove magari posso anche scrivere, cosa che faccio comunque

in tutte le stagioni.

La sua estate più bella?

L’unico Ferragosto che passai con mio padre, io e lui da soli, fra le sue

montagne attorno a Montereale Valcellina. Sarà stato il ’68, avevo

quattordici anni. Prima non avevo potuto farlo perché ero in istituto, poi

perché cominciò la mia parabola discendente...

La più brutta?

Quell’agosto del ’72 di cui parlavamo prima. Il primo arresto. Avevo rubato

un’auto con un amico. Rimasi al Coroneo per tre mesi.

Diceva dei suoi figli...

Alessandro ha 26 anni ed è vicino alla laurea in ingegneria, Marco ne ha 21

ed è anche lui iscritto a ingegneria, Andrea ne ha 17 ed è studente al

Galvani: fu lui, anni fa, che mi prese un po’ in giro scrivendo «Capriole

insalata»...

Sua moglie?

Senza di lei non ne sarei mai uscito. L’ho conosciuta al Paradiso nel ’77.

Nella balera di via Flavia avevo il mio posto fisso al banco, non sono mai

stato un grande ballerino. Ci siamo sposati sei mesi dopo il primo incontro,

ero disoccupato ma dicemmo ai suoi genitori che facevo il saldatore alla

Grandi Motori.

Quando è cominciata la sua rinascita?

Nel ’90, ero ricoverato nella sezione alcologia, per ripulirmi per

l’ennesima volta il sangue. Venne a trovarmi mia moglie, con il nostro

figlio più piccolo, che aveva due anni. Lo guardai e mi misi a piangere,

senza riuscire a smettere. Da lì cominciò il cambiamento. Disoccupato, nella

sezione alcologia, con tre figli e una moglie lavoratrice precaria...

Poi cosa accadde?

Uscito dall’ospedale ebbi la fortuna di trovare un lavoro in una fabbrica di

tappi per bottiglia: sembrava quasi una nemesi... Il primo giorno di lavoro

non avevo neanche i soldi per il bus: avevo centocinquanta lire e due

sigarette in tasca, ma anche una famiglia che mi aspettava a casa. Andai a

piedi da Valmaura, dove abitavamo, fino in zona industriale. Da lì sono

ripartito...

Cosa ricorda della fabbrica?

Ho molti ricordi di quegli anni. Sono stato testimone del cambiamento del

lavoro in fabbrica: non si tornava più a casa con le ossa stanche ma molto

annoiati, il pulsante aveva sostituito la pressa. Avevamo sbadigli che si

mangiavano le lancette, perché il tempo non passava mai. Molti miei racconti

sono nati lì, li ho scritti in fabbrica...

Lei scrive in una maniera che molti giudicano strana...

Non so scrivere in un’altra maniera. Gli accostamenti inusuali di parole,

che colpiscono chi legge, a volte sono spontanei, altre volte li cerco per

creare immagini nuove. Forse sono eredità del linguaggio coi gesti

dell’infanzia, o forse ci sono dentro anche tanti anni di ascolto dei

cantautori...

I suoi preferiti?

De Gregori, Guccini, il primo Vecchioni... Al bar, negli anni Settanta, ero

l’unico che nel jukebox gettonava le canzoni del «professore». Quando scrivo

ascolto i dischi di Gabriella Ferri, morta di solitudine...

Come Mia Martini, come Luigi Tenco, come Dalida: il successo a volte uccide?

Probabilmente sì, almeno i più deboli, i più tristi, i più malinconici.

Quelli che spesso ricorrono all’aiuto, si fa per dire, dell’alcol, della

droga...

Da sei anni lei ha un dialogo con la città attraverso questo giornale.

È un grande impegno, che mi ha permesso di capire meglio Trieste, la sua

gente. Prima rispondendo alle lettere, ora con la mia «finestra» del sabato,

ho conosciuto tante persone semplici, le loro storie, ciò che pensano...

Molti mi fermano per la strada, o mi telefonano, per dire magari che si

erano identificati in quello che avevo scritto. Ed è la soddisfazione più

grande.

E Trieste?

Trieste è sempre molto impegnata a farsi bella, a rifarsi il guardaroba. Ma

se sbottoni un po’ la giacca trovi un tremendo allarme sociale, fatto di

dolore, di miseria, di disagio, non solo giovanile. Per il sociale si spende

troppo poco. E uno come Don Mario Vatta fa i salti mortali, ma da solo non

basta...

 

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