sabato 26 maggio 2007

di Carlo Muscatello

Trentacinque anni. Ci sono voluti trentacinque anni perchè Milano ricordasse Luigi Calabresi con una lapide nel luogo in cui venne ucciso. E perchè Roma, sua città natale, lo ricordasse con l’intitolazione di un viale. Ci sono voluti tre anni di meno, perchè lo Stato ricordasse con una medaglia d’oro alla memoria, appuntata nel maggio 2004 dal presidente Ciampi sulla giacca della vedova, il commissario di polizia assassinato. Tanto, troppo tempo, troppo dolore, troppa colpevole e ingiustificabile assenza...

Era la mattina del 17 maggio 1972. Il commissario che una feroce campagna di stampa portata avanti soprattutto dal quotidiano Lotta Continua indicava da anni come il responsabile della morte dell’anarchico Pinelli venne ucciso sotto casa con due colpi di pistola, uno alle spalle e uno alla nuca. La giovane moglie, Gemma Capra, era in casa con due figli piccoli e un altro in arrivo.

Fu uno dei delitti più odiosi dei nostri terribili anni di piombo. Stagione tragica e ancora oscura, che da anni viene raccontata solo una parte, dal punto di vista degli ex terroristi. Libri, articoli, interviste, discorsi pubblici, programmi televisivi... Manca quasi completamente l’altra voce, la voce di chi è rimasto, la voce di quei parenti delle vittime la cui vita è stata tragicamente sconvolta e cui viene riservato da sempre quel rispetto formale sintetizzabile nella formula «il dolore dei parenti».

In questi giorni, nel trentacinquesimo anniversario della morte di suo padre, è uscito il libro del primogenito del commissario ucciso, Mario Calabresi, giornalista, attualmente corrispondente da New York per Repubblica. Il titolo è «Spingendo la notte più in là - Storia della mia famiglia e di altre vittime del terrorismo» (Mondadori, pagg. 134, euro 14.50). È una testimonianza preziosa ma anche un documento toccante per comprendere i tragici fatti avvenuti nel nostro Paese negli anni Settanta e Ottanta (ma le testimonianze arrivano fino ai più recenti omicidi di Massimo D’Antona e Marco Biagi...), cambiando punto di osservazione. La storia di quegli anni vista e riletta non più solo dalla parte di chi ha sparato, e poi ha pagato o non pagato il suo debito con la giustizia, ma con gli occhi, il cuore, la quotidianità mai più ricomposta di chi si è visto portare via un marito, un padre, un figlio...

Calabresi parte dai presagi che annunciarono la tragedia, dai ricordi familiari, dalla solitudine dei suoi genitori nei mesi e negli anni che intercorsero fra la morte di Pinelli e quella di suo padre. Due uomini, l’anarchico e il commissario, «accomunati da quasi quarant’anni, un tempo più lungo di quello che gli fu dato di vivere». Due uomini che si conoscevano e forse si stimavano, se è vero che Pinelli un Natale regalò a Calabresi una copia dell’«Antologia di Spoon River». Se è vero che Pinelli in un lontano corteo dell’agosto ’67 quasi lo difese da Marco Pannella che provocatoriamente lo apostrofava.

Ma accadde quel che ormai era quasi scritto dovesse accadere. Pinelli e Calabresi continuarono - e continuano - a essere «usati uno contro l’altro, in un braccio di ferro infinito, uno dei tanti che paralizza il Paese e lo riene costretto con la testa rivolta al passato».

L’autore non si limita ai ricordi personali, alla ricostruzione del suo dramma familiare, del buco nero che si aprì davanti a una giovane donna e ai suoi figli la mattina di un giorno di maggio del ’72, e nemmeno al racconto della stagione più recente, quella degli anni dei processi a Sofri, Bompressi e Pietrostefani. Insegue piuttosto quel che hanno lasciato per terra, ma soprattutto nella vita e nell’animo di chi è rimasto, quei «dolori improvvisi, a cui non si è mai preparati».

Cerca allora e fa parlare la figlia di Antonio Custra (erroneamente e inspiegabilmente ricordato sin dall’inizio come Antonino Custrà...), un ragazzo napoletano di ventidue anni, vicebrigadiere di polizia, figlio del popolo, ammazzato il 14 maggio del ’77 sempre a Milano, in via De Amicis, sul luogo dove fu scattata una delle foto simbolo di quel periodo. Quella che mostra un ragazzo col passamontagna, stivaletti e jeans a zampa, piegato sulle gambe in posizione di tiro, con una pistola impugnata a due mani...

Cerca e fa parlare la figlia del giornalista del Corriere della Sera e presidente dell’Assostampa Lombarda Walter Tobagi, la figlia del medico Luigi Marangoni (che descrive i terroristi come «dei poveretti che facevano la lotta armata per riscattare delle vite senza prospettive, gente povera di idee e di spirito... dei cazzoni tremendi...»), la vedova di Fausto Magi («dagli ex terroristi mi aspetterei il silenzio, la capacità di stare un po’ in disparte...»), il figlio del giudice Emilio Alessandrini, la vedova di Ezio Tarantelli («questo Paese non solo non è stato capace di elaborare un lutto, ma neanche un pensiero...»).

Tutta gente lasciata sola dallo Stato, a verificare anno dopo anno la disparità di trattamento tra chi uccise e chi venne ucciso, a chiedersi «perchè?». Una risposta, ricorda Calabresi, l’ha data tempo fa Corrado Augias: «Per il sogno di un gruppo di esaltati che giocavano a fare la rivoluzione (...) senza rendersi conto che i veri ”figli del popolo”, come li chiamava Pasolini, stavano dall’altra parte, erano i bersagli della loro stupida follia...».

Calabresi non sfugge nemmeno al tema della grazia a Sofri, condannato da una sentenza passata in giudicato come mandante dell’omicidio di suo padre, che si è sempre dichiarato innocente e scrive sullo stesso giornale per cui anche lui da qualche anno lavora. «La reclusione dei condannati non ci ha mai restituito nulla, non è mai stata di consolazione». La grazia è un problema dello Stato, ma non deve essere presentata - dice l’autore - come un nuovo grado di giudizio, come un’assoluzione.

Voltare pagina, allora, ma senza dimenticare di farsi carico delle vittime. Ed evitando il «manuale Cencelli della memoria», suggerisce Mario Calabresi. Che alla fine confessa: «Ho oscillato tra la lezione di mia madre (”ho fatto di tutto perchè non cresceste nel rancore e nell’odio” - ndr) e una sorda voglia di prendere tutto a calci...». Il punto di equilibrio sta nella consapevolezza che «era giusto andare avanti, camminare, impegnarsi per voltare pagina nel rispetto della memoria». E per far sì, come ha detto il presidente Napolitano, che la stagione dell’odio non ritorni mai più.

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