martedì 6 novembre 2007

di Carlo Muscatello


Enzo Biagi era il prototipo del giornalista, anzi, del cronista che non esiste (quasi) più. Quello che va, vede, ascolta, chiede, tenta di comprendere, e solo allora riferisce e spiega ai lettori o ai telespettatori. Quello che non urla, non insulta, non cerca il clamore. Quello che rifugge i toni scandalistici, che evita il cattivo gusto come fosse la peste. Quello delle vecchie regole del giornalismo anglosassone, le mitiche «cinque w» (who, what, why, when, where, ovvero chi, che cosa, perchè, quando, dove), che si continuano a insegnare agli aspiranti giornalisti ma si stentano a reperire in tante cronache dei nostri scassati giornali.

Biagi ha raccontato per quasi settant’anni l’Italia, gli italiani, la vita della gente, le cose e le persone che lo circondavano. L’ha fatto con sincerità, onestà professionale, ma soprattutto rispetto per le persone. Credendo in questo mestiere bello e dannato. Per questo piaceva alla gente ma non al potere politico, che in epoche diverse l’ha ostacolato.

«Nella Bibbia - ricordava spesso - si trova quella che a mio parere è la miglior domanda che sia mai stata posta. Dio, che sa perfettamente quel che è successo, chiede a Caino, reduce dall’omicidio di Abele, “dov’è tuo fratello?”. Ecco, io credo di essere un discreto intervistatore perché mi limito a fare le domande che lettori o telespettatori farebbero se si trovassero al mio posto».

Ancora: «Non ho mai approvato le cosiddette domande provocatorie. Colui che chiede a una madre che ha appena saputo dell’assassinio del figlio cosa prova non è un giornalista, è un deficiente. D’altronde nello sforzo di apparire super-intelligenti si può ottenere il risultato di sembrare stupidi...».

Il vecchio maestro, con quell’arietta dimessa che celava un carattere tostissimo, la figura dello stupido non l’ha fatta mai. Tantomeno quando il 18 aprile 2002 Berlusconi, all’epoca presidente del consiglio, a conclusione di una visita di stato in Bulgaria, a Sofia, se ne venne fuori con quello che sarebbe passato alla storia recente del nostro povero Paese come «l’editto bulgaro».

«Ho già avuto modo di dire - sibilò quella volta il premier, dinanzi a duecento giornalisti internazionali perlopiù allibiti - che Santoro, Biagi e Luttazzi hanno fatto un uso criminoso della televisione pubblica, pagata con i soldi di tutti: credo sia un preciso dovere della nuova dirigenza Rai di non permettere più che questo avvenga».

Povero Enzo. Lui, liberale vecchio stampo, di moderate idee di sinistra (diceva: «sono un socialista senza partito»), accomunato dalla foga berlusconiana al tribuno di «Sciuscià» (la trasmissione condotta all’epoca da Santoro) e al dissacratore di Satyricon (il programma nel quale Luttazzi aveva ospitato Marco Travaglio per parlare di un libro di cui non si doveva parlare).

La sua vera colpa, agli occhi del Cavaliere - che oggi si unisce al coro unanime del cordoglio e della stima post mortem -, era stata quella di aver dato ampio spazio, in una delle 814 puntate de «Il fatto», prima delle elezioni politiche del 2001, al diavoletto Benigni che ovviamente non ci era andato leggero, sugli argomenti di attualità politica ed elettorale del momento. Zac... L’uomo di Arcore - che nell’86 aveva tentato senza successo di ingaggiarlo per le sue reti tv - se l’era legata al dito. E alla prima occasione aveva presentato il conto.

Conto salato, soprattutto per lui. Sì, perchè quando escludi dal video una persona di ottantadue anni, con tutta evidenza l’effetto è molto diverso da quello ottenuto con chi ha aspettative di vita più ampie.

Che vita, comunque, quella dell’uomo nato nel 1920 (coetaneo dunque di Papa Woityla e di Carlo Azeglio Ciampi) a Pianaccio, paesino sull'Appennino bolognese, frazione di Lizzano in Belvedere. Dove vive fino ai nove anni, quando la famiglia si trasferisce a Bologna, al seguito del padre Dario che lavorava come magazziniere in uno zuccherificio.

Pare che l’idea di diventare giornalista, al ragazzo, fosse nata dopo aver letto «Martin Eden» di Jack London. Tanti anni dopo avrebbe ammesso: «Ho sempre sognato di fare il giornalista, lo scrissi anche in un tema alle medie: lo immaginavo come un ”vendicatore” capace di riparare torti e ingiustizie. Ero convinto che quel mestiere mi avrebbe portato a scoprire il mondo».

Intanto il ragazzo studia all'istituto tecnico, con i compagni di scuola dà vita a un giornalino studentesco, «Il Picchio», che si occupa soprattutto di vita scolastica ma viene comunque soppresso dal regime fascista. La mamma, che aveva la terza elementare, gli aveva detto: «Non devi mai dire bugie». Lui la prende alla lettera. Di più: ne fa il manifesto programmatico della sua vita professionale.

Che comincia presto. A diciassette anni, nel ’37, pubblica il primo articolo sull’Avvenire, quotidiano al quale collabora per un paio d’anni, prima di venir assunto giovanissimo, nel ’40, al «Carlino Sera», versione serale del Resto del Carlino. Primo incarico: estensore di notizie, ovvero colui che nei giornali di allora si occupava di scrivere gli articoli sulla base delle notizie portate in redazione dai cronisti.

Nel ’42 lo chiamano alle armi ma non parte a causa di problemi cardiaci con cui dovrà confrontarsi per tutta la vita. Nel ’43 sposa Lucia Ghetti, maestra elementare, modenese, che gli darà le tre figlie Carla, Bice e Anna. Una storia durata sessant’anni, fino alla scomparsa di lei nel 2002 (e nel 2003 morirà anche la figlia Anna).

Nel ’44 aderisce alla Resistenza combattendo nelle brigate Giustizia e Libertà, legate al Partito d'Azione. Si rifugia in montagna. Finita la guerra entra con le truppe alleate a Bologna e annuncia alla radio locale l'avvenuta liberazione. Poco dopo viene assunto come inviato speciale e critico cinematografico al Resto del Carlino.

Dal quotidiano bolognese viene allontanato nel ’51, quando aderisce al manifesto di Stoccolma contro la bomba atomica: l’editore lo accusa di «essere un comunista sovversivo». Ma da quel momento comincia per lui una carriera che lo porta a diventare uno dei più importanti giornalisti italiani della seconda metà del Novecento.

Arnoldo Mondadori lo chiama a Milano, a fare il caporedattore del settimanale Epoca dal ’52 al ’60, quando ne diventa direttore. E trasforma quella che era considerata una rivista di costume e pettegolezzi in un giornale impegnato. Ma un’inchiesta sugli scontri di Genova e Reggio Emilia contro il governo Tambroni scatena un putiferio e lo costringe a dimettersi.

Riparte subito come inviato speciale della Stampa, a Torino. Dove rimane poco: il primo ottobre ’61 viene nominato direttore del Telegiornale, che allora era unico. Sono gli anni del nascente centrosinistra, e quella nomina viene letta come un’apertura verso il Partito Socialista, che stava per affiancare la Democrazia Cristiana al governo.

Nel ’63 cura la nascita del tg del secondo canale e realizza il primo «RT - Rotocalco Televisivo» (marchio che poi avrebbe resuscitato nel 2007 per il suo breve ritorno in video dopo gli anni dell’ostracismo). Ma le mani della politica si fanno sempre più pesanti sul servizio pubblico, e il nostro è costretto nuovamente a lasciare. Torna da dove era venuto, alla Stampa, di nuovo a fare l’inviato. Ma comincia a scrivere anche sul Corriere della Sera e per il settimanale L'Europeo.

Alla Rai lo richiama nel ’68 Ettore Bernabei, potentissimo direttore generale. Nascono alcuni programmi di approfondimento giornalistico di successo, fra cui «Dicono di lei» (interviste a personaggi famosi fra pubblico e privato) e nel ’71 «Terza B, facciamo l'appello» (con personaggi famosi che incontravano ex compagni di classe, amici dell'adolescenza, primi amori...).

E proprio nel ’71 ritorna da direttore nel giornale della sua città, quel Resto del Carlino da cui era stato cacciato vent’anni prima. Dura poco. Nel ’72 torna al Corriere della Sera, che non avrebbe più lasciato, tranne una breve parentesi come editorialista a Repubblica, negli anni seguiti allo scandalo della P2 che rischiò di travolgere la corazzata di via Solferino.

Negli ultimi trent’anni la vita professionale di Enzo Biagi si è divisa fra il Corriere, la Rai e i libri: romanzi, interviste, inchieste, libri storici, alcuni persino a fumetti. Giornalista multimediale senza bisogno di aspettare internet. Per il servizio pubblico cura dal ’77 all’80 su Raidue «Proibito», nell’82 su Raiuno «Film Dossier», nell’83 su Raitre «La guerra e dintorni» (un programma dedicato a episodi della seconda guerra mondiale) e poi su Raiuno il seguitissimo «Linea Diretta», che avrà più edizioni.

Gli anni Novanta sono quelli delle grandi trasmissioni tematiche («Che succede all'Est?», «I dieci comandamenti all'italiana», «Una storia», «Processo al processo su Tangentopoli»...), fino al «Fatto» di cui si è detto. Cominciò nel ’95, cinque minuti di approfondimento sui principali fatti del giorno subito dopo il Tg1 delle venti. Media di sei milioni di telespettatori a sera, nominato da una giuria di giornalisti il miglior programma giornalistico realizzato nei cinquant'anni della Rai. Fino a quell’intervista a Benigni nel 2001 e ai cinque anni di esilio dal video che ne seguirono.

Negli ultimi mesi, nell’ultimo giro di giostra, quasi alla fine di quelli che lui chiamava «i miei tempi supplementari», Biagi scriveva su Espresso, Oggi e Corriere della Sera. E si dedicava al premio «È giornalismo», da lui fondato anni fa con Montanelli e il suo coetaneo Bocca (più giovane di lui di nove giorni), già considerato il Pulitzer italiano. L’anno scorso è uscito «Quello che non si doveva dire», un saggio sull’«editto bulgaro».

Una volta aveva detto: «Le persone che ho intervistato erano tutte interessanti per la storia che avevano dietro. Ho parlato con grandi uomini, grandi donne, ma anche grandi imbecilli. E purtroppo viviamo in un mondo sguaiato, dove anche chi non ha veramente niente da dire si sente in dovere di rendere il mondo partecipe del proprio pensiero. Di sicuro è molto più piacevole intervistare una persona intelligente. Parlare con Roberto Benigni, per esempio, è sempre una festa perché è geniale...».

Biagi ha comunque fatto in tempo a tornare in televisione. Prima come ospite nel programma di Fabio Fazio «Che tempo che fa» (intervista di 20 minuti, standing ovation del pubblico, record di ascolti) e a «Primo Piano», a testimoniare il suo affetto per la Rai, «la mia casa per quarant'anni».

Poi nell’aprile scorso, esattamente a cinque anni dall’«editto», con il suo vecchio e nuovo «RT - Rotocalco Televisivo», aprendo la trasmissione vista da due milioni e mezzo di spettatori così: «Buonasera, sono contento di rivedervi, scusate se sono un po' commosso e magari si vede. C'è stato qualche inconveniente tecnico e l'intervallo è durato cinque anni. Mi aveva avvolto la nebbia della politica...».

Quella volta parlò anche di Resistenza. Che non è solo un argomento del passato. Perchè c’è sempre qualcosa o qualcuno - ricordò Enzo Biagi - a cui bisogna resistere.

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