GIGI D'ALESSIO
«È la prima volta che canto a Trieste, anche se la città un po’ la conosco. L’anno scorso, in occasione di una serata a Nova Gorica, l’ho visitata e devo dire che mi sono trovato un po’ come a casa, nella mia Napoli. Sarà che le città di mare si somigliano un po’ tutte, ma davvero ho colto qualcosa di familiare. Ricordo il lungomare, quella bella piazza, la gente. Tutte cose che mi hanno messo di buonumore. E pensare che ho girato mezzo mondo, dagli Stati Uniti al Canada all’Australia, prima di arrivare a Trieste...».
Parla Gigi D’Alessio, che stasera alle 21 presenta il suo nuovo spettacolo «A gentile richiesta... mi faccio in quattro» al Politeama Rossetti. Uno show particolare, nel quale la scaletta verrà decisa dal pubblico. Spaziando nel suo vasto repertorio e fra i classici della canzone napoletana.
«Ogni sera è una festa - dice il quarantunenne cantante napoletano - e ciò avviene a Nord come a Sud, cosa che mi fa molto piacere. Questo tour teatrale è un omaggio che faccio al pubblico che mi segue da anni: stavolta è lui che sceglie le canzoni in scaletta».
Per tanti anni la sua fama stentava a uscire da Napoli. Poi cos’è successo?
«La partecipazione al Sanremo del 2000, con ”Non dirgli mai”, ha cambiato le cose. Avevo già inciso sette album e venduto tanti dischi, ma il pubblico mi considerava un cantante napoletano e basta. A quel punto decisi di cambiare perchè ne sentivo il bisogno».
E il pubblico l’ha seguita...
«Sì, perchè la canzone napoletana è solo una delle mie tre anime. Assieme alla musica classica studiata al Conservatorio e ai cantautori che ho amato da ragazzo: Baglioni, Battisti, Dalla, Pino Daniele...».
Il primo contatto con la musica?
«A Napoli la musica si respira nell’aria, per la strada, nei vicoli. Comunque avevo quattro anni quando mio padre mi regalò una fisarmonica che aveva comprato a Caracas, dov’era andato a lavorare per sfuggire alla miseria e dare da mangiare alla nostra famiglia. Ricordo che quella fisarmonica la consumai a furia di suonarla...».
Del Conservatorio cosa ricorda?
«Che avevo dodici anni, e in famiglia avevamo deciso di fare il grande passo, visto che la musica era diventato il mio chiodo fisso. Al Conservatorio San Pietro a Macella arrivai accompagnato da mio padre. Sembravamo Totò e Peppino. Ogni ragazzo era ”appoggiato” da un insegnante da cui aveva già preso lezioni. Mio padre diede trecentomila lire a un bidello sperando in una raccomandazione. Ma dopo la prova, ricordo che eseguii al pianoforte il Carnevale di Venezia e un giro armonico di do, quelli della commissione dissero al bidello che mi ero... raccomandato da solo».
Ma la sua gavetta furono matrimoni e feste di piazza...
«Sì, finivo alle cinque del mattino. È stata un’esperienza che mi ha insegnato molto. Anche perchè sono convinto che a volte è più difficile suonare davanti a trecento invitati che hai lì, a due passi, che non in uno stadio.
Dai matrimoni all’Olympia...
«Sì, la mia gavetta mi è tornata in mente anche l’anno scorso, prima di salire sul palco dell’Olympia di Parigi. Con l’emozione di essere il primo napoletano - e uno dei pochi italiani - a esibirsi in quel teatro. Basti pensare che la sera dopo suonava Paul McCartney...».
L’incontro con Mario Merola?
«Mi ha cambiato la vita. Lui era il re di Napoli, io un giovane pianista da matrimoni e feste di piazza. Accadde che il suo pianista si era ammalato e lui doveva fare una serata. Merola mi sentì suonare a un matrimonio, ma non mi credeva all’altezza della situazione. Lo convinsi suonando e poi suonando ancora».
Poi non l’ha più mollata...
«Avevo ventitre anni. Divenni il suo pianista, mi fece dirigere la sua orchestra di venti elementi, partecipai ai suoi film. E grazie a lui cominciai anche a cantare. Fino a quel momento, infatti, io mi limitavo a suonare il pianoforte. Scrivemmo e cantammo assieme ”Cient’anne”: fu l’inizio della mia carriera di cantante».
Nella sua carriera ha incontrato successo ma anche ostilità.
«Non pretendo di piacere a tutti. Ma quello che mi dà fastidio sono i pregiudizi, i luoghi comuni. A volte sembra che se uno arriva da Napoli dev’essere per forza un delinquente o un camorrista. Abbiamo il marchio di fabbrica. E dobbiamo lavorare più degli altri per imporci, per sfatare questi pregiudizi. In questi anni ho dovuto abbattere molte barriere, ma sono cose che poi ti rendono più forte».
Soddisfatto del Sanremo di Anna Tatangelo?
«Molto. Alla vigilia era data per favorita. E ciò può averle attirato qualche antipatia. Ma alla fine è andata bene. Ha fatto una bella figura, anche nel duetto con Michael Bolton».
Con la monnezza come va...?
«Eh... La monnezza vera è dentro le persone. Per esempio dentro le persone che hanno gestito quella che è diventata una vera e propria emergenza, oltre che una vergogna nazionale, in tutti questi anni. Io sono amico di Bassolino, ma penso che lui e la Jervolino dovrebbero avere il buon gusto di dimettersi. Esiste la responsabilità politica di chi dirige una macchina amministrativa».
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