sabato 21 novembre 2015

LIBRO DI PORTELLI SU SPRINGSTEEN, OGGI PRESENTAZIONE A TRIESTE

Oggi alle 17, nella Sala Bobi Bazlen di Palazzo Gopcevic, in via Rossini a Trieste, lo storico Alessandro Portelli presenta il suo libro “Badlands. Springsteen e l'America: il lavoro e i sogni” (Donzelli Editore, pagg. 214, euro 25). Partecipano il sindaco di Trieste Roberto Cosolini, noto “springsteeniano”, la storica Gloria Nemec e il giornalista e critico musicale Carlo Muscatello. Portelli (nato a Roma nel ’42) è storico, critico musicale e anglista. Professore ordinario di letteratura anglo-americana all'Università La Sapienza di Roma, è uno dei principali teorici della storia orale. . L’America, il rock, l’attenzione per gli ultimi, la fatica del lavoro, il sogno di un domani migliore. Magari di una “terra promessa” da inseguire, a volte solo da sognare. Tematiche da sempre presenti nell’opera di Bruce Springsteen, che lo storico Alessandro Portelli ha messo assieme nel libro “Badlands. Springsteen e l’America: il lavoro e i sogni”, pubblicato da Donzelli. Professore, come ha scoperto Springsteen? «Ascoltando l’album "The River" e accorgendomi che anche il rock poteva trattare temi importanti come il lavoro, la disoccupazione, la mobilità sociale, le promesse ma anche i fallimenti del "sogno americano"». C'è un "filo rosso" fra i suoi studi sulla cultura popolare e la passione per il Boss? «La mia passione per il rock’n’roll comincia prima di tutto, da quando ero ragazzo negli anni Cinquanta, ed è stata proprio questa passione che mi ha fatto andare in America a diciotto anni, dove ho scoperto la musica popolare, la letturatura americana, e tutto quello che poi è diventato il mio mestiere e la mia forma di militanza politica. Il lavoro sulla cultura popolare italiana è venuto dopo, come conseguenza logica». I testi di Springsteen sono letteratura? «Direi di no. Sono rock’n’roll, quindi vanno misurati sulla base di quella estetica. Questo non vuol dire ovviamente che non siano anche testualmente e linguisticamente interessanti e spesso molto belli. Ma appartengono a una sfera culturale diversa, e lui stesso l'ha sempre ribadito». Da quali autori americani discende il Boss? «Elvis Presley, Bob Dylan, Woody Guthrie, Hank Williams... Gli autori letterari che l'hanno più influenzato sono certamente Flannery O'Connor e John Steinbeck. Ma c'è un rapporto assai forte anche con il cinema: Terrence Malick, John Ford». Come si concilia l'America del lavoro, dei "looser" cantata da Springsteen con il mondo dorato delle rockstar? «In effetti non si concilia, e questo è un tema costante in lui: si avverte la preoccupazione che lo stile di vita (la "casa borghese sulle colline di Hollywood" in “57 channels”), ma anche le difesa della privacy di una persona diventata un'icona possano finire per tagliarlo fuori da quello che è il suo mondo e la sua gente di riferimento. Credo che faccia del suo meglio per evitarlo. Comunque quello che a me interessa in ultima analisi non è la vita personale dell'autore ma la sua opera, il mondo che crea...». La "terra promessa" è la speranza di un domani migliore o solo un sogno? «È sopratuttto il diritto a sognare un domani migliore e a cercarlo. Il contenuto del sogno può essere falso ("un sogno è una menzogna se non si avvera?": da “The River”), ma quello che rimane vero è il desiderio che tiene vivi quelli che continuano a rivendicarne il diritto». Dopo la presidenza Obama, che Springsteen ha fortemente appoggiato, tornano i sentimenti di rivolta e protesta dei neri e delle fasce più deboli di un'America in crisi. «Paradossalmente la presidenza Obama ha rinfocolato ossessioni e paure profonde di un paese che, come peraltro anche il nostro, non riesce ad accettare una pluralità e un'uguaglianza di diritti al suo interno. Ma ha rinforzato anche la convinzione degli afroamericani di avere diritto all'uguaglianza, direi di “avere diritto ad avere dei diritti”. Per cui il conflitto si è reso più visibile, anche se c'è stato sempre e in forme anche più gravi. L'ondata di violenze della polizia contro cittadini neri è solo l'aspetto più immediato». Il tema della mobilità sociale è molto presente in Springsteen. «In fondo è il tema di partenza: "sono nato nella valle dove ti insegnano a ripetere la vita di tuo padre" (sempre “The River”). Cioè, non è per niente vero che ogni generazione starà meglio della precedente. Come non è vero che il lavoro duro, la fatica, il merito garantiscano l'ascesa sociale: "scarico casse sul molo tutto il giorno e sono indebitato fino al collo" (“Backstreets”). Il mondo di Springsteen è popolato da quelli che, con un certo stupore, gli scienziati sociali chiamano i "working poor", cioè persone che lavorano e sono povere lo stesso, e sono impantanate in lavori senza sbocco». Come si sposano l'energia del rock e le storie proletarie cantate da Springsteen? «Le storie sono dolorose ma l'energia della musica ci dice che non accettiamo mai di sentirci sconfitti». Anche Bruce è figlio di emigranti... «Sì, in "American Land" elenca ua serie di cognomi non anglosassoni portati in America dagli emigranti; e uno di questi cognomi è Zerilli (o Zirilli - ndr), che è il cognome di sua madre, nata in Italia». Da segnalare che il 4 dicembre esce “The ties that bind: The River Collection” (Columbia), cofanetto con quattro cd e tre dvd che offre una retrospettiva completa proprio sullo Springsteen del periodo di “The River”: 52 brani con molti inediti, quattro ore di immagini mai viste prima e un libro illustrato con un saggio di Mikal Gilmore. “The River”, quinto album di Bruce Springsteen, doppio, uscì il 17 ottobre 1980 e raggiunse la vetta della classifica Billboard.

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