martedì 2 gennaio 2018

QUEI MALEDETTI RITMI DISPARI / su FEGIZ FILES

Un caffè di Lubiana. Un’osteria di Belgrado. Un bazar di Sarajevo. Viaggi verso Est, nei paesi dell’ex Jugoslavia, e cambiano anche i suoni. Cambiano i ritmi. Maledetti ritmi dispari. Il nostro pigro orecchio occidentale era abituato bene, con i comodi ritmi pari: i classici quattro quarti nella musica leggera, nel rock, persino nel jazz. Più rari i due quarti o i sei ottavi, spesso nella musica popolare. Per non parlare dei classicissimi tempi ternari, i tre quarti del valzer (zum-pa-pà, che poi sarebbe come dire: ùn-due-tre...). Poi un giorno l’assuefatto orecchio occidentale inciampò nei ritmi dispari, detti anche composti. E nulla fu più come prima. Risalivano fino a noi dall’area balcanica e mediorientale. Per forza di cose geografiche, nel Nord-est li scoprimmo prima dei musicofili di altre zone. E allora via con un’ubriacatura di sette ottavi, undici ottavi, tredici ottavi... Roba apparentemente complicatissima. Ma era solo un’impressione. Per la verità, negli anni Settanta il “progressive” italiano (Area, Banco, Pfm, persino New Trolls...) osava spesso i cinque quarti, i sette quarti, i citati sette ottavi e tredici ottavi. Ispirati dal “progressive” britannico (King Crimson, Emerson Lake & Palmer, Gentle Giant, Genesis...), che al solito aveva indicato la strada. Ma era per lo più l’eccezione alla regola, quasi una sfida alle scansioni canoniche. E comunque poco dopo arrivò il punk, con i suoi quattro quarti serrati, a chiudere sperimentazioni rockettare. Campo libero allora alla musica popolare, alla cosiddetta “world music”: arie indiane, nenie arabe, melodie persiane, danze popolari balcaniche, greche, ottomane. Moni Ovadia, massimo divulgatore della musica yiddish nel nostro Paese, ammette di essere stato svezzato su questo fronte da un triestino, il compianto Alfredo Lacosegliaz, giusto una quarantina d’anni fa. Ne fece tesoro prima nel Gruppo Folk Internazionale, poi con l’Ensemble Havadià, infine nella carriera solista fra musica e teatro. Passati doverosamente agli archivi i repertori da night del socialismo reale, ecco allora sgorgare i suoni dell’Est, miscele della frontiera balcanica, dove si incrociano musiche e culture e religioni cattoliche, ortodosse, musulmane. Goran Bregovic, da Sarajevo, fu il primo a portare in Occidente (anche grazie alle colonne sonore per il concittadino Emir Kusturica) un bagaglio fascinoso e ricchissimo. Poi vennero tutti gli altri: fanfare serbe, brass band ottomane, cori bulgari. Portatori di sonorità selvagge, atmosfere meticce (e alticce), suggestioni slave. Con ritmi rigorosamente cosmopoliti. E dispari.

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