di Carlo Muscatello
Se n’è andato Franco Battiato. L’artista siciliano si è spento nella sua residenza di Milo. Era malato da tempo. Nato a Jonia (Riposto) il 23 marzo del 1945, aveva 76 anni. Oltre mezzo secolo di carriera, dall’arrivo a Milano dove lo aiutò Giorgio Gaber al debutto a un Disco per l’estate del 1969 (“Bella ragazza”) e all’avanguardia elettronica dei primi anni Settanta (“Fetus”, “Pollution”...), dalle tentazioni contemporanee (“Clic”, “M.lle le gladiator”) a quel tris di album che, a cavallo fra i Settanta e l’alba degli Ottanta, lo riporta al pop e quasi inventa una nuova forma di canzone: “L’era del cinghiale bianco”, “Patriots” e soprattutto “La voce del padrone”, primo album italiano a vendere nel 1981 più di un milione di copie.
Poi, in questi quarant’anni, non si è fatto mancare nulla: regia, lirica, pittura, meditazione, ma soprattutto sempre grande musica, senza mai perdere di vista il mondo attorno.
Nel 1991, alla vigilia della stagione di Mani pulite e delle stragi mafiose, scrive “Povera patria" («schiacciata dagli abusi del potere, di gente infame che non sa cos'è il pudore... tra i governanti, quanti perfetti e inutili buffoni...»). In anni drammatici la parte sana del Paese si aggrappava alla speranza di un cambiamento. E l'artista scrisse quella splendida - e al tempo stesso dolente - invettiva contro l'arroganza del malgoverno, che si sperava non avesse bisogno di un seguito.
Il seguito - purtroppo e per fortuna - è arrivato. Purtroppo perchè è il segno che la situazione è, se possibile, ancora peggiore di quella che vivevamo all'alba degli anni Novanta. Per fortuna perchè almeno una sdegnata voce si è sempre levata, fra i cosiddetti artisti, per denunciare la decadenza della vita pubblica. Con la complicità dei tanti che preferiscono un silenzio indifferente.
Anni dopo cantò: «Uno dice che male c'è a organizzare feste private con delle belle ragazze per allietare primari e servitori dello stato? Non ci siamo capiti: e perché mai dovremmo pagare anche gli extra a dei rincoglioniti...?».
Ancora: «Che cosa possono le leggi dove regna soltanto il denaro? La giustizia non è altro che una pubblica merce. Di cosa vivrebbero ciarlatani e truffatori se non avessero moneta sonante da gettare come ami fra la gente...».
Versi quanto mai espliciti da "Inneres auge" (qualcosa come "l'occhio interiore" in tedesco), brano che dava il titolo a un album del 2009, atto d'accusa contro una società malata, dove morale ed etica sono valori ormai fuori moda, dove il denaro è l'unico metro di giudizio. Situazione che Battiato aveva lucidamente previsto in tempi non sospetti. Ricordate "Bandiera bianca" (da "La voce del padrone", dell'81)...? Ammoniva: «siamo figli delle stelle e pronipoti di sua maestà il denaro, per fortuna il mio razzismo non mi fa guardare quei programmi demenziali con tribune elettorali...». Insomma, gli anni passano ma il quadro non cambia. Semmai peggiora.Ho avuto la fortuna di conoscere Franco Battiato nei primi anni Settanta, a Trieste, quando veniva alle marce antimilitariste che i radicali di allora organizzavano da Aviano, base militare statunitense, al capoluogo giuliano. Poi tanti dischi, concerti, interviste... Sempre incuriosito e affascinato dal suo pensiero, dalla sua arte, dalla sua personalità originalissima. Mi piace ricordarlo con quei versi de “La cura” che somigliano a una promessa: “Ti salverò da ogni malinconia, perché sei un essere speciale, ed io avrò cura di te. Io sì, che avrò cura di te...”.
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