martedì 7 agosto 2007

I giovani, come categoria sociale, non esistevano prima degli anni Cinquanta. Erano soltanto figli che aspettavano il loro turno anagrafico per diventare come i propri genitori. Ascoltando la stessa musica, vestendo gli stessi abiti, pettinandosi alla stessa maniera, serbando gli stessi valori. Un film del 1955, «Blackboard jungle», con Bill Haley che canta «Rock around the clock», accende la miccia del cambiamento. Che diventa rivoluzione con l’arrivo di un ragazzone bianco di nome Elvis Aaron Presley.

Prima della sua apparizione la musica leggera americana era divisa in tre generi, ben separati l’un dall’altro: il pop (da «popular», popolare), il country e il rhythm’n’blues. I primi due rigorosamente bianchi, il terzo assolutamente nero. Lui arriva, prende la musica dei bianchi e la mischia con quella dei neri, usa il corpo e non solo la voce, abbatte schemi e barriere, dà voce - forse inconsapevolmente - alle ansie e alle aspirazioni di una generazione sopravvissuta alla guerra.

Elvis era nato a Tupelo, Mississippi, l’8 gennaio del ’35. A diciotto anni si trasferisce con la famiglia a Memphis, dove lavora come camionista. La leggenda vuole che un giorno, nell’estate del ’54, passando col camion sulla Union Street, vede che alla Sun Records con un dollaro si poteva registrare un disco da portarsi a casa. È il compleanno dell’amatissima madre, Gladys Smith, e lui decide di regalarle un suo disco, con incisa una vecchia ballata che aveva sentito alla radio fin da ragazzo: «My happiness». Il proprietario della piccola sala d’incisione, un certo Sam Philips, ascoltato il ragazzo, si rende subito conto che aveva trovato quel che stava cercando da anni: un ragazzo bianco che cantasse con la stessa intensità di uno di colore...

Chissà se poi è andata veramente così. O se anche questa ricostruzione fa parte della sapiente e meticolosa strategia che la Rca usò per lanciare sul mercato prima americano e poi mondiale quello che di lì a poco sarebbe diventato il re del rock’n’roll. Alla faccia di quelli - Chuck Berry, Carl Perkins, Bill Haley... - che erano arrivati prima di lui.

Con Elvis, che pure è solo interprete di canzoni scritte da altri, l’America assiste al miracolo della musica dei bianchi mischiata a quella dei neri, il country del Sud rurale assieme al rhythm’n’blues nato nei campi di lavoro e nelle chiese, e poi diventato musica da ballo e da intrattenimento. Con la conseguenza che vengono abbattute anche le barriere fra le classifiche di vendita dei dischi, che prima di lui erano rigorosamente separate.

Il figlio di Vernon Presley fu il crinale del cambiamento. Prima del suo avvento i figli dell’America che aveva salvato il mondo dal nazifascismo ascoltavano Frank Sinatra assieme ai genitori, pronti a ereditarne i valori, il benessere, l’automobile. Lui fece il botto, coniugando le due grandi famiglie della musica popolare americana. Melodia e ritmo, Nashville e canti gospel, in una miscela di suoni, movenze, atteggiamenti, e con l’importante aggiunta di una forte spinta ritmica di chiara ispirazione sessuale.

Era il ’56. E nell’America che combatteva la guerra fredda quel suo provocatorio e sin troppo allusivo modo di roteare il bacino - da cui il soprannome «the Pelvis» - non venne accolto favorevolmente dal mondo degli adulti. Ma fu la miccia che accese la carica di ribellione dormiente in milioni di giovani corpi e menti. E che aspettava solo di esplodere.

Dopo aver contribuito a cambiare l’America e il mondo, Elvis Aaron Presley morì il 16 agosto del 1977. Aveva soltanto 42 anni e pesava oltre 120 chili. Devastato dal cibo e dall’alcol, dai farmaci e dalle droghe. E forse dal peso di un successo che avrebbe schiantato chiunque.

Un successo che sopravvive alla sua morte, generando un business multimiliardario ma anche mille leggende. Fra le quali quella ricorrente secondo cui Elvis non è mai morto. È quanto scrive in questi giorni anche l’edizione latinoamericana di Rolling Stone: l’ormai settantaduenne «re del rock’n’roll» risiederebbe in Argentina, lì riparato nel ’77 nientemeno che con la collaborazione di Cia e Fbi. Insomma, il mito continua, ammantato persino da un alone di immortalità.

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