domenica 10 maggio 2009

BOB DYLAN


Nostalgia, rimpianto, forse solo la banale e umanissima invidia per chi possiede quei doni fugaci che sono la gioventù, la bellezza, l’amore. Più passano gli anni, più Bob Dylan somiglia a un imperscrutabile ma affascinante mistero. Nel 2001 deluse molti con ”Love and theft”, nel 2006 mise tutti a tacere con il capolavoro ”Modern times”, meno di un anno fa se ne venne fuori con le registrazioni inedite e le curiosità di ”Tell tales signs - The bootleg series vol.8”. Aggiungiamo che un paio d’anni fa era stata messa sul mercato anche un’antologia tripla. E che nel frattempo il suo ”never ending tour” ha fatto quasi più tappe in giro per il mondo (le ultime italiane sono di pochi giorni fa), che periodi di pausa. Quasi avesse paura a fermarsi, a rompere l’incantesimo.

Ebbene, nonostante questo iper-attivismo, pochi si sarebbero attesi l’uscita di un nuovo album. E invece ecco “Together through life” (Columbia Sony), trentatreesimo capitolo di una discografia che ha segnato la storia culturale degli ultimi cinque decenni, a spiazzare ancora una volta fan vecchi e nuovi del menestrello di Duluth.

Li spiazza perchè il nostro - sessantotto anni il 24 maggio - sforna un disco romantico, una decina di canzoni d’amore ricche di sfumature, di chiaroscuri, di accenti gentili che nel rapido volgere di un riff diventano ruvidi. Grazie alla chitarra di Mike Campbell degli Heartbreakers, grazie agli aromi tex mex della fisarmonica di David Hidalgo dei Los Lobos, grazie ai guizzi improvvisi di fiati e di violino.

Come nei versi di Whitman citati nel titolo, il vecchio Bob dà a tratti l’impressione di inseguire - forse persino con una punta d’invidia e comprensibile rimpianto - l’amore e la giovinezza e la bellezza perduti. Nelle canzoni ma persino nelle foto di copertina: quella davanti, firmata Bruce Davidson, con una coppia di ragazzi scomodamente ma appassionatamente avvinghiati sul sedile posteriore di un’automobile; quella dietro, con il gruppo di suonatori gitani, volti scavati, sguardi intensi, dita che sfiorano i tasti di una tromba o impugnano una fisarmonica.

Dicono che il disco sia nato quasi di getto, dopo aver scritto per il nuovo film del francese Olivier Dahan il brano ”Life is Hard”, ballata punteggiata dal suono gentile del mandolino. Le altre canzoni (molte a quattro mani con il paroliere dei Grateful Dead, Robert Hunter: e anche questa è quasi una novità...) sarebbero arrivate sulla scia. Ciò almeno secondo i ben informati, che peraltro qualche volta tanto ben informati non sono.

L’album - arrivato la scorsa settimana in vetta alla hit inglese: e non era mai successo a un artista di sessantotto anni... - ha un suo fascino ma non è un capolavoro come ”Modern times”. Fra i brani, convincono maggiormente “This dream of you” (firmata dal solo Bob), ma anche ”It’s all good” e ”Beyond here lies nothing”. Certi suoni anni Cinquanta - che permeano il solito mix di rock, blues, swing e country - e l’abituale voce nasale, consumata, a tratti gracchiante e pur graffiante di Mister Zimmerman sono la cifra stilistica del lavoro. Gradevole, ma non un capolavoro.


MORGAN / X FACTOR A livello di popolarità, due anni come caposquadra e giurato di ”X Factor” (fra l’altro: vincono sempre i suoi, quest’anno Matteo, l’anno scorso gli Aram Quartet...) sono valsi a Morgan ben più di una lunga e dignitosa carriera musicale, con i Bluvertigo e da solista. Colui che all’anagrafe di Milano risponde al nome di Marco Castoldi approfitta dunque del momento pubblicando questo ”Italian Songbook vol.1” (Sony), nel quale si dedica a un’operazione meritoria: riarrangiare e rileggere una manciata di canzoni italiane di tanti anni fa, accomunate dal fatto di essere state cantate anche da artisti stranieri e di aver avuto successo anche all’estero. Operazione di recupero, dunque, quasi pedagogica, che pesca fra Modugno e Paoli, Endrigo e Bindi... Rischiando solo di mettere fra parentesi (quel ”vol.1” promette o minaccia un seguito...) le doti compositive oltre che interpretative del nostro. Il suo ”Canzoni dell’appartamento”, del 2003, era in fondo un gran bel disco.

E visto che parliamo di ”X Factor”, segnaliamo anche i dischi di debutto dei tre finalisti: il vincitore a sorpresa Matteo Becucci, i vincitori morali The bastard sons of Dioniso e l’outsider Jury. Tre mini-cd, ognuno con sei brani: ”Impossibile” per il trentottenne cantante livornese, ”L’amor carnale” per i giovani rockettari trentini Bastard, ”Mi fai spaccare il mondo” per il giovanissimo bresciano Jury (tutti su etichetta Sony).

Matteo si conferma interprete tradizionale dalle doti canori importanti, che in prospettiva può cantare qualsiasi cosa. Le sue ”The power of love” (duetto con Elisa Rossi, altra voce del talent show) e ”I’ll fly for you” sono da antologia.

I ”Bastardi” hanno una carica e un’energia notevolissime. La loro ”Ragazzo di strada” (pezzo dei Corvi, del ’66) tiene testa persino - absit iniuria verbis - alla versione che ne ha dato Vasco Rossi l’altro giorno al Concertone del primo maggio. Ma i due inediti sono deboli.

Jury, dei tre, è forse il più moderno, il più contemporaneo. Convince con ”Chariot” e ”Life on Mars”. Ha ancora margini di miglioramento notevoli. Sarà una star?


LOLLI Dal ’72 di ”Aspettando Godot”, Claudio Lolli (bolognese, classe 1950) ha sempre cantato il sociale, l’impegno, la protesta. Dalla parte del torto, come ha sempre detto lui. Ma fra una ”Ho visto anche degli zingari felici” e una ”Disoccupate le strade dai sogni”, il nostro ha infilato anche qualche canzone d’amore. Oggi, assieme al chitarrista Paolo Capodacqua e al sassofonista Nicola Alesini, riordina e mette assieme quelle sporadiche concessioni ai sentimenti. Ne vien fuori un album inaspettato, che racconta un amore diverso, originario, privo di risvolti pop e melensi, per certi versi ribellistico. Sì, un amore anche lui ”impegnato”, perché Lolli lo pone come antidoto all’odio cieco, oggi imperante nel mondo politico nei confronti di diversi, stranieri o semplicemente non allineati (leggere al proposito le note di copertina ”Frequenze”...). Vestiti di suoni in bilico fra jazz e sperimentazione, riscopriamo “Quello che mi resta”, ”La giacca”, ”Donna di fiume” (dei primi anni Settanta), fino alle più recenti ”La pioggia prima o poi”, ”Aspirine”, ”Dita”...


LOCASCIULLI Tre anni dopo ”Sglobal”, il medico e cantautore Mimmo Locasciulli arriva con ”Idra” al diciassettesimo album di una carriera ormai lunga. Registrato quasi interamente a New York, con musicisti come Greg Cohen al contrabbasso, Marc Ribot alle chitarre e Joey Baron alla batteria - cui si sono aggiunti nelle session italiane fra gli altri Gabriele Mirabassi al clarinetto e Stefano Di Battista al sax soprano -, il disco prende il nome dall’isola greca dove, negli anni sessanta, artisti come Henry Miller e Leonard Cohen cercarono rifugio spirituale, scrivendo alcune delle loro opere. Ma Idra è anche il mostro con nove teste sconfitto da Ercole nelle sue mitologiche fatiche: nove teste che sono il simbolo di alcuni "vizi capitali" dell'uomo, mentre Ercole rappresenta quell'amore che è il valore che porta l'uomo alla salvezza. Di questi e altri argomenti canta Locasciulli, con l’eleganza e la grazia sottile che i suoi fan conoscono. E che sfociano nelle classiche ballad (”Scuro”, ”Senza un addio”, ”L’attesa”, ”Lucy”...) contaminate dai sapori jazz garantiti dai suoi compagni d’avventura.


 

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