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giovedì 1 giugno 2017
COSI' L'ITALIA CANTO' LA PRIMA REPUBBLICA, POVERA PATRIA DI STEFANO SAVELLA
«Povera patria...», cantava Franco Battiato nel 1991. Era la vigilia di tangentopoli, di mani pulite, della fine della prima repubblica. E il musicista siciliano proseguiva sferzante: «...schiacciata dagli abusi del potere, di gente infame che non sa cos’è il pudore. Si credono potenti e gli va bene quello che fanno, e tutto gli appartiene». Ancora, fra j’accuse e scoramento: «Tra i governanti, quanti perfetti e inutili buffoni. Questo paese è devastato dal dolore. Ma non vi danno un po’ di dispiacere quei corpi in terra senza più calore?» Non cambierà, aggiungeva duro. E poi: «Ma come scusare le iene negli stadi e quelle dei giornali? Nel fango affonda lo stivale dei maiali». Per annotare infine che «la primavera, intanto, tarda ad arrivare».
Parole che rimangono purtroppo di attualità, a distanza di tanti anni. Forse, secondo alcuni, non è cambiato nulla. E quel titolo così evocativo, “Povera patria”, viene ora utilizzato da Stefano Savella, redattore e blogger pugliese classe 1982 (all’epoca del capolavoro battiatesto aveva dunque appena nove anni...), per battezzare la sua accurata ricerca su “La canzone italiana e la fine della prima repubblica”, sottotilo del libro (Arcana, pagg. 240, euro 17,50).
Ma Battiato è solo uno dei tanti cantautori che hanno composto la colonna sonora dell’epoca in questione, di cui si parla e si scrive spesso in queste settimane. Per l’anniversario dell’assassinio di Giovanni Falcone e presto per quello di Paolo Borsellino.
Per i venticinque anni di tangentopoli e di mani pulite, delle monetine contro Craxi, della Lega e del cappio in parlamento, presto della “discesa in campo” di Berlusconi... Persino per la fiction di Sky “1993”, in onda in queste settimane, dopo il successo lo scorso anno di “1992”.
Il 1991 era anche l’anno in cui Giorgio Gaber aveva scritto “Qualcuno era comunista” («...perché Berlinguer era una brava persona, perché Andreotti non era una brava persona, perché era ricco ma amava il popolo, perché beveva il vino e si commuoveva alle feste popolari, perché era così ateo che aveva bisogno di un altro dio, perché era così affascinato dagli operai che voleva essere uno di loro, perché non ne poteva più di fare l'operaio, perché voleva l'aumento di stipendio...»).
In mezzo, fra il poliedrico artista siciliano e il compianto inventore del teatro canzone (milanese di origine triestina, che all’anagrafe faceva Gaberscik, 1939-2003), tanti gli autori e i brani che accompagnarono quella stagione di assedio alla politica e ai suoi protagonisti. Da Elio e le storie tese (che al Concertone del Primo maggio, in diretta televisiva, cambiano le parole del proprio brano inserendo vicende di cronaca giudiziaria) a Francesco Baccini (“Giulio Andreotti”), da Eugenio Finardi a Francesco De Gregori (“Adelante”), da Antonello Venditti (“In questo mondo di ladri”, uscita qualche anno prima ma rispolverata nei concerti per l’occasione) a Edoardo Bennato. E ancora Enzo Jannacci, Pierangelo Bertoli, Jovanotti, Modena City Ramblers... Persino Pooh (“In Italia si può”, dall’album “Il cielo è blu sopra le nuvole”) e Gianni Morandi (“Il presidente”) non si sottraggono al clima che si respira nel Paese. Con riferimenti espliciti o impliciti, anche il mondo della musica e della canzone dà il contributo al metaforico assalto al palazzo.
E poi c’è, c’era Fabrizio De Andrè. Sublime nell’immaginifica mediazione poetica de “La domenica delle salme”.
«Il ministro dei temporali - cantava Faber - in un tripudio di tromboni auspicava democrazia, con la tovaglia sulle mani e le mani sui coglioni. Voglio vivere in una città dove all'ora dell'aperitivo non ci siano spargimenti di sangue o di detersivo. A tarda sera io e il mio illustre cugino De Andrade eravamo gli ultimi cittadini liberi di questa famosa città civile perché avevamo un cannone nel cortile...». Profetico.
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