mercoledì 23 novembre 2005

TRIESTE S’intitola «Luci a San Siro... di questa sera». È il nuovo tour di Roberto Vecchioni, che dopo la «data zero» della scorsa settimana a Bagnacavallo, in provincia di Ravenna, domani sera ha in programma un’altra anteprima nella nostra zona: al Casino Park di Nova Gorica, in Slovenia, con inizio alle 21. La tournèe debutterà invece ufficialmente lunedì 28 novembre a Verona, al Teatro Filarmonico. E farà tappa nel Friuli Venezia Giulia a febbraio: il 6 al Rossetti di Trieste, il 13 al Nuovo di Udine.
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Vecchioni, ma che fa: si è dato al jazz?
«È un progetto che avevo in testa da un po’ di tempo: fare le mie canzoni (i successi, gli episodi meno noti, alcune cose nuove...) nella maniera più essenziale possibile. Con due musicisti, Patrizio Fariselli <CF31>(ex Area - ndr)</CF> al piano e Paolino Della Porta al contrabbasso, che avessero tutta la libertà possibile e necessaria...».
Ne è venuto fuori uno spettacolo ma anche un disco.
«Sì, il tour è quello che sta partendo. Diversissimo da quelli passati. Il disco, intitolato ”Il contastorie”, è in realtà un cofanetto: cd più un libretto con cinque favole classiche ripensate per gli adulti».
Insomma, ormai mette i libri anche nei dischi...
«No, ho avuto la fortuna di vedere i miei libri pubblicati per Einaudi incontrare un certo interesse fra i lettori. Ma questo libretto è in realtà un’anteprima del libro vero che uscirà ad aprile. S’intitolerà ”Diario di un gatto con gli stivali” e sarà per l’appunto un libro di fiabe».
Fiabe alle quali lei cambia il finale...
«A volte sì. L’intento è rendere le cose più verosimili, togliere pesantezza agli stereotipi, evitare i finali del tipo ”vissero tutti felici e contenti”. Ecco allora che perfino il lupo di Cappuccetto rosso, alla fine, può diventare una vittima...».
Racconti.
«Non mi interessa lo stereotipo secondo cui il lupo dev’essere sempre e comunque cattivo. Fa parte delle menate che le fiabe raccontano per essere rassicuranti, proprio come lo sono i mass media. Ecco, in realtà io penso che le favole sono i mass media del Medioevo...».
Dunque le sue sono fiabe rilette per gli adulti...
«Sì, direi che la lettura è per persone vaccinate e piuttosto adulte. Provo a fare un altro esempio. Il brutto anatroccolo che rimane brutto, ed è felice così, al bambino non dice granchè. Lui vuole che il brutto anatroccolo diventi cigno. Invece noi sappiamo che il brutto anatroccolo può rimanere tale, ma esser felice lo stesso».
Interessante. Ma torniamo al jazz. Lei lo ascoltava da ragazzo?
«No. Io sono nato con la canzone e prim’ancora con la letteratura. Anche se la canzone d’autore italiana, a Genova, è nata col jazz...».
Luigi Tenco...
«Non solo lui. Anche Gino Paoli, Fabrizio De Andrè, gli altri suonavano jazz, all’inizio. Il jazz è stato importantissimo nella rivoluzione della musica italiana di quarant’anni fa».
Lei però...
«L’ho seguito poco. Sono sempre stato più attratto dalla ballata, dai francesi, da Dylan. La svolta è avvenuta quando ho capito che le melodie possono trasformarsi, seguire il filo della voce, proprio come una recita durante il canto».
Una scelta di libertà.
«Sì, l’unico mezzo per arrivarci era il jazz. Dopo tanti anni ero stufo di dischi e concerti con arrangiamenti sempre uguali: le chitarre, i violini, le batterie... Molto meglio due strumenti essenziali, affidati a due grandi professionisti».
Insomma, dopo «Malindi» la sua piccola rivoluzione continua...
«Quel disco mi ha dato molti stimoli nuovi a livello di composizione, di creatività. Ma l’interpretazione era molto simile a quella dei tanti lavori precedenti. Diciamo che qui continua il lavoro di trasformazione e cambiamento».
Per capire, come dice lei, «la differenza fra silenzio e rumore»...
«Sì, bisogna cantare il meno possibile. Il canto dev’essere un parlato armonico, non bisogna sforzare le note, la voce. Le emozioni non vanno catturate, ma stimolate con la semplicità».
Nel disco si cimenta anche con Brel.
«Sì, ho rifatto ”Le moribond” trasformando la disperazione del capolavoro originale (già il titolo è tutto un programma...) in un inno alla vita, che infatti è diventato ”Stagioni nel sole”. Ho pensato a quest’uomo giovane che muore e che ha una figlia piccola. E allora la sua morte diventa uno sprone, un incentivo a vivere per tutti quelli che restano...».

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