lunedì 16 ottobre 2006

di Carlo Muscatello


«Abbiamo fame di giustizia», c’era scritto ieri mattina sugli striscioni dei ragazzi di Locri, in piazza nel triste anniversario dell’omicidio di Francesco Fortugno. Ma la domanda di giustizia che c’è nel Paese, a vari livelli, può essere soddisfatta da questo Stato? E la nostra Costituzione, dopo la bocciatura referendaria della riforma che voleva stravolgerla, va bene così o avrebbe bisogno di qualche aggiustamento? E la riforma Castelli, quella che ha allargato il solco fra politica e magistratura, quella osteggiata dall’opinione pubblica di sinistra, che fine ha fatto? E con le intercettazioni continue, come dobbiamo comportarci: tutela della privacy o privilegio di eventuali strumenti di prova?

Sarebbero molte, se si parla di legge e di giustizia, le domande da un milione di dollari. Domande a cui i giornali non danno risposta, presi come sono a riferire delle gaffe e degli errori di una maggioranza che se prosegue di questo passo rischia di tornare opposizione, e dell’inconsistenza di un’opposizione che presto si potrebbe trovare di nuovo al governo più per demeriti altrui che per meriti propri. Domande alle quali oggi tentiamo di dare risposta, affidandoci alla saggezza e all’esperienza di Sergio Bartole, docente di Giustizia costituzionale e Diritto costituzionale comparato all’Università di Trieste, nonchè presidente dell’Associazione italiana dei costituzionalisti. Di Bartole l’editore Il Mulino ha appena pubblicato il volume «Il potere giudiziario» (pagg.100, euro 8,50), che ripropone - aggiornato alla luce degli eventi più recenti - l’analogo capitolo contenuto nel Manuale di diritto pubblico di Giuliano Amato e Augusto Barbera.

Professore, cominciamo dalla Carta del ’48: è ancora una delle migliori Costituzioni d’Occidente?

«Alcune correzioni sono necessarie, per esempio per quanto riguarda quella parte dell’ordinamento regionale modificata nel 2001. C’è un eccessivo frazionamento di competenze fra Stato e Regioni. Ma non so se è necessaria una effettiva riforma della Costituzione...».

Prosegua.

«Io credo sia anzitutto un problema di legislazione. Per certi aspetti noi siamo ancora legati a normative vecchie, pensiamo per esempio all’ordinamento giudiziario. C’è stato il progetto di riforma del governo Berlusconi, ma è stato molto osteggiato dal centrosinistra...».

Ecco, che fine ha fatto la riforma Castelli?

«Sarebbe dovuta entrare in vigore proprio di questi tempi, ma il nuovo governo si è mosso per dilazionare l’entrata in vigore di molte parti di quella riforma. Per esempio il problema dell’incomunicabilità delle carriere giudiziarie, per esempio la limitazione dei poteri del Csm in materia di carriera dei giudici, per esempio la disciplina dei poteri dei capi delle procure...».

La frattura fra politica e magistratura, originata dalla riforma Castelli, è sanabile o ha causato danni duraturi?

«Intendiamoci: i politici hanno ecceduto nel tentare di mettere le mani sulla magistratura. In Inghilterra non verrebbe in mente a nessun politico di esprimere le critiche che vengono fatte alle decisioni dei giudici dai nostri politici. Lì c’è maggior rispetto per l’autonomia di determinazione dei giudici».

Magistrati esenti da colpe?

«No. Quante volte, di fronte a promozioni o provvedimenti di carriera, c’è la sensazione che siano il risultato di una sorta di lottizzazione fra le correnti. Il Csm ha tentato di porre un freno a questa situazione, introducendo una sorta di normativa ulteriore rispetto alla legge. Ma in ciò è andato al di là di quelli che sono i suoi poteri...».

Un altro cavallo di battaglia del centrodestra, cui l’opinione pubblica è sensibile, riguarda la responsabilità civile dei giudici.

«Mi limito a osservare che c’era stato un referendum per introdurre tale responsabilità civile. E nonostante il suo esito positivo, è stata poi fatta una legge che ha reso forse persino più difficile l’attivazione della responsabilità civile. Bisognerebbe invece saper individuare i casi in cui si può procedere per responsabilità, penso a quando si ritardano dei provvedimenti senza giustificazione».

Secondo il Censis il 90% degli italiani boccia la giustizia, considerata lenta, costosa, iniqua...

«La gente ha purtroppo ragione: effettivamente le procedure vanno al di là di ogni accettabilità. L’Italia è stata più volte condannata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo per la lunghezza dei suoi processi. C’è una legge che prevede il risarcimento per coloro che vengono danneggiati dalla lunghezza di tali procedure. Abbiamo insomma introdotto una misura per risarcire il danno, ma non facciamo molto per accorciare i tempi».

Nove milioni di processi pendenti, due milioni e mezzo di reati denunciati...

«Io questi dati non li ho...».

Erano compresi nella relazione del ministro Mastella al Csm. La domanda è: come se ne esce?

«Il tema è scottante. Noi siamo vincolati in questa materia dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo. Il Consiglio d’Europa, che sovrintende all’applicazione della Convenzione, comincerà a fare una sorta di screening per verificare l’adempimento degli obblighi in materia di diritti umani, quali discendono dalla Convenzione europea. Finora ciò veniva fatto solo nei confronti dei nuovi membri, gli Stati dell’Europa centro orientale entrati nel Consiglio d’Europa dopo la caduta del Muro di Berlino. Ora questo lavoro verrà fatto anche nei confronti dei vecchi membri».

Ma il potere giudiziario è in grado di soddisfare quella domanda complessiva di giustizia che sale dal Paese?

«Talvolta le stesse leggi sono fatte male, dunque di difficile applicazione giudiziaria. Molte volte la cosiddetta supplenza giudiziaria è derivata dal fatto che i giudici si trovavano di fronte a leggi inapplicabili, e ritenevano di dover rispondere a quella domanda anche sociale di giustizia cercando loro stessi di colmare le lacune del diritto. Portando avanti dunque quell’attività di supplenza e di invadenza in territori non propri per cui la magistratura è stata spesso criticata. Certe volte, insomma, la colpa è del legislatore».

Così ne soffre però il principio della separazione dei poteri...

«Certo. E il rischio è anche quello che le procure cadano sotto l’ombrello del potere esecutivo, perdendo la loro indipendenza. Se invece garantiamo la separazione delle procure nei confronti degli organi giudicanti, rischiamo di avere organi molto potenti e assolutamente incontrollabili».

Intercettazioni telefoniche: più importante tutelare la privacy o acquisire elementi di prova?

«Il problema è sapere se funziona il controllo giudiziale al momento dell’autorizzazione dell’intercettazione. Si ha l’impressione che tale controllo sia andato vanificandosi. Col risultato di confondere le intercettazioni autorizzate con quelle illegali».

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