giovedì 16 aprile 2009

PFM A PORDENONE


La Pfm (acronimo di Premiata Forneria Marconi) torna in regione per un concerto domenica alle 21 al palasport di Pordenone. Occasione buona per ricordare assieme al batterista e cantante Franz Di Cioccio, componente originario della band, alcuni momenti di una storia lunga ormai quarant’anni.

Sì, perchè quarant’anni fa la band, anzi, il complesso, come si diceva all’epoca, si chiamava Quelli. E con loro - il batterista Di Cioccio, il chitarrista Franco Mussida, il tastierista Flavio Premoli e il bassista Giorgio "Fico" Piazza - c’era anche un certo Teo Teocoli, che poi abbandonò la compagnia musicale per diventare l’attore comico che il pubblico apprezza da tanti anni. I quattro che rimasero, stufi di essere session man di lusso, decisero che dovevano cambiare ingredienti, per poter ambire a una ricetta di successo.

Una parentesi lunga solo un paio di 45 giri come Krel (dal nome di un pianeta presente nel racconto ”Il verdetto”, di Arthur J. Cochran), e poi, complice l’incontro col violinista e flautista Mauro Pagani, la trasformazione in Premiata Forneria Marconi, dal nome di una forneria di Chiari (paesino in provincia di Brescia) frequentata dallo stesso Pagani. È l’alba dei Settanta, il beat è morto ma sta nascendo il pop italiano, grazie anche ai suoni progressive che arrivano da oltremanica.

«Cominciammo - ricorda Di Cioccio - proprio facendo da supporter a gruppi inglesi che venivano a suonare in Italia: Yes, Deep Purple, Procol Harum... Poi nell’estate del ’71 partecipammo al Festival di avanguardia e nuove tendenze di Viareggio, con ”La carrozza di Hans”. Brano fuori dagli schemi, non facile: un mix fra sperimentazione e musica popolare. Ma vincemmo a pari merito con Mia Martini e gli Osanna».

E la Numero Uno vi diede fiducia...

«Sì, allora le case discografiche investivano sui giovani, anche su progetti che non sembravano avere potenzialità commerciali. Pubblicammo prima un 45 giri, con ”La carrozza di Hans” e ”Impressioni di settembre”, brano con testo di Mogol che esprimeva la nostra voglia di libertà, e aveva la particolarità di sfociare in un tema, una sorta di refrain strumentale anzichè cantato. E subito dopo arrivò anche l’album, ”Storia di un minuto”: fu il successo...».

Oggi un gruppo come voi avrebbe possibilità?

«Il mondo è cambiato. Noi venivamo fuori dalle cantine, dai provini, dai festival musicali. Oggi un ragazzo deve affidare le sue speranze a questi talent show televisivi che a me non piacciono granchè, forse perchè sono estraneo al concetto della gara e del ”tutto quanto fa spettacolo”.».

C’è anche internet...

«Sì, quella è una chance in più. Myspace e Youtube offrono in effetti delle opportunità a giovani che hanno qualcosa da dire e vogliono emergere. Ma conta soprattutto la voglia di fare, crederci, raccontare il proprio tempo. Non bisogna ridurre tutto a uno show televisivo».

Torniamo a voi. In questo tour cantate De Andrè.

«Con Fabrizio avevamo collaborato in sala d’incisione ai tempi dei Quelli. Nel ’79 il tour e i dischi con Fabrizio, nati da un incontro casuale in Sardegna, segnarono uno spartiacque nella musica italiana. Prima c’erano i gruppi pop/rock da una parte, i cantautori dall’altra, con quello che io chiamavo ”lo stile pentecostale”: ovvero soffro, sto male e te lo racconto col minimo accompagnamento musicale possibile...».

Voi invece?

«Eravamo reduci dai tour negli Stati Uniti. Dove avevamo visto Bob Dylan con The Band, Jackson Browne con gli Eagles, gli stessi Crosby Stills Nash & Young... Insomma, un modo nuovo di concepire e coniugare la musica d’autore con il rock. Volevamo creare una sorta di carovana. Ed è quello che facemmo con De Andrè. Da quella volta finì l’immagine del cantautore chitarra e voce. E lo stesso Fabrizio curò molto di più le sue musiche».

Perchè rifarlo ora?

«Beh, innanzitutto devo ricordare che già nel 2004, nel venticinquennale del tour e dei dischi dal vivo, abbiamo voluto cantare di nuovo le canzoni di Fabrizio, che nel frattempo ci aveva lasciato. Ora lo rifacciamo, dieci anni dopo la sua morte, per resettare l’hard disk della memoria. Rendendo merito ai tanti ragazzi che all’epoca non erano ancora nati, ma si sono innamorati di quei dischi, dopo aver trovato le vecchie copie in vinile che erano appartenute ai genitori o ai fratelli maggiori».

Fedeli all’originale?

«Fedeli e infedeli al tempo stesso. Il nostro segreto infatti è sempre stato crescere, rappresentare il tempo che viviamo. Poi ci sono canzoni come ”Il pescatore”, che eseguivamo nei nostri concerti anche quando Fabrizio era ancora in vita, e la cui versione originale ormai ricordano in pochi: tutti invece conoscono il riff strumentale iniziale, che è opera nostra...».

Ha citato gli Stati Uniti. Quella volta cosa vi è mancato per un ulteriore salto di qualità?

«Semplicemente il fatto che, a un certo punto, dopo essere entrati nelle classifiche di Billboard, abbiamo capito che la nostra vita era qui in Italia e non laggiù. Il prezzo da pagare era troppo alto, a livello di vita privata, e siamo tornati indietro sapendo di aver comunque compiuto la nostra missione: dimostrare agli americani che l’Italia non era periferia dell’impero, non era solo mandolino e melodia. E questo ci ha appagato».

Ma all’estero ci andate ancora.

«Sì, con uno spirito diverso. L’inverno scorso abbiamo suonato in Canada e in Messico. Nelle prossime settimane siamo a un festival rock in Portogallo, poi negli Stati Uniti, dopo l’estate dovremmo tornare in Giappone. Dove il rock italiano è molto amato».

Prossimo disco?

«Un progetto al quale stiamo lavorando da un po’: ”Pfm in classic”, ovvero scomporre e ricomporre il repertorio classico, da Verdi a Mozart a Beethoven, ma non alla maniera del rock sinfonico degli anni Settanta. Ma sperimentando, come abbiamo sempre fatto. Il disco uscirà entro il 2009, poi ci sarà il tour. Con un’orchestra di sessanta elementi».

A Pordenone domenica la Pfm schiera questa formazione: i membri storici Franz Di Cioccio (voce e batteria), Franco Mussida (chitarre) e Patrick Djivas (il bassista proveniente dagli Area, che sostituì Piazza nel ’73), e poi Lucio Fabbri (violino, chitarra, tastiere; presente nel gruppo più volte, a fasi alterne, negli ultimi tre decenni) e ancora i ”nuovi” Gianluca Tagliavini (tastiere) e Piero Monterisi (batteria).

«Cambia la squadra - chiosa Di Cioccio - ma lo spirito rimane lo stesso. Per suonare la musica del nostro tempo, quella che piace innanzitutto a noi stessi».

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