lunedì 7 dicembre 2009

CARLO MASSARINI


Dal ’69 dei Rolling Stones fotografati ad Hyde Park, a Londra, fino ai primi anni Ottanta dei videoclip e della ”musica da vedere” che lui stesso mostrava in tivù a ”Mister Fantasy”. Lui è Carlo Massarini, classe ’52, nei primi anni Settanta giovanissimo conduttore radiofonico (”Per voi giovani” e ”Popoff”) e poi televisivo, ma anche appassionato fotografo dei suoi miti musicali. Una passione diventata lavoro, che ha prodotto un archivio fotografico e di ricordi da cui ora nasce un libro, anzi, un bel librone intitolato ”Dear Mister Fantasy” (dal verso dei Traffic già utilizzato per il programma tv...), sottotitolo ”Foto-racconto di un’epoca musicale in cui tutto era possibile 1969-1982” (Rizzoli, pagg. 353, euro 49).

Massarini, i Traffic le hanno segnato proprio la vita...

«Sì, erano il mio gruppo preferito. Non erano famosi come altri, si scioglievano spesso e non sapevi mai se avrebbero fatto un altro disco, ma facevano una musica fantastica, nel senso letterale della parola. Mischiavano blues e rock, jazz e folk, psichedelia e tradizione (”John Barleycorn” era una canzone popolare inglese antichissima), e Steve Winwood aveva questa voce che ammantava di magia le storie che inventava Jim Capaldi, vero poeta eco-psichedelico».

Capaldi una volta le fece una sorpresa.

«Quando comparse in studio a ”Popoff”, il primo aprile ’74, fu una gioia indescrivibile. E mi scrisse sull'agenda "Power to Carlo, tell it like it is!". Una reliquia, con cui apro il libro. Steve, l'unico di loro ancora in vita, mi ha mandato per e-mail un "You told it like it was!" che ha chiuso il cerchio, trentacinque anni dopo».

Com’è cominciata questa storia?

«Con ”Per voi giovani”, ereditata da Mario Luzzatto Fegiz e Paolo Giaccio quando Arbore cominciò ”Alto Gradimento” con Boncompagni. Divenne programma pomeridiano più attento al sociale, alle nuove generazioni e alla loro musica. Canzoni con un significato che meritava di essere tradotto e spiegato a un pubblico quasi digiuno di rock. Io ero "quello che sapeva l'inglese" e cominciai traducendo Dylan e Cohen, Joni Mitchell e Crosby Stills Nash & Young».

Era un’altra radio.

«Alle 21.30 c'era il bollettino dei naviganti e poi filodiffusione a reti unificate. Noi nel ’73 aprimmo lo spazio serale. Poi ho continuato con la radio fino al ’77. Nell'81 Giaccio lavorava in tv, a RaiUno, ed ebbe l'idea di fare un programma su questo nuovo materiale che si cominciava a vedere, i videoclip».

Il Canada?

«Vi passai qualche anno da bambino. Crescere lì mi ha regalato l'inglese, che è stato il fattore determinante per tutto quel che è successo dopo: capire cosa il rock esprimeva a livello letterario e di messaggio, e poi poter parlare con gli artisti. Cominciai a "giocare" con la radio che ancora studiavo...».

Medicina...

«Sì, alla Cattolica. Ma gli esami si facevano più difficili, le soddisfazioni dall'altra parte più gratificanti e promettenti, allora il dj-fotografo era un'anomalia, un non-mestiere non così promettente. Però mi attirava di più, e alla fine la scelta è stata inevitabile».

A casa?

«Beh, avevo fatto gli esami di tre anni in sei. I miei all'inizio ci rimasero male, ma cominciavano anche loro a vedere qualche risultato. Ma solo quando sono arrivato in tv, l'ufficiale di marina che era in mio padre - uomo moderno, ma pur sempre legato a certe logiche - si arrese. Mi divertivo, guadagnavo più di lui e i suoi amici gli facevano i complimenti. Era fatta».

Radio, tv o internet?

«Ho amato ogni cosa che ho fatto, anche il giornalismo musicale e la fotografia. Passare da uno all'altro ha portato ogni volta un approccio e una visione nuova, ma ogni medium ha un suo linguaggio. Sono un solitario e mi piace scrivere, mi piace la rilassatezza e l'immediatezza della radio, ma se devo scegliere dico tv, dove parola, pensiero ed espressione si fondono. Naturalmente, il web è una fetta importante della comunicazione di oggi, ha potenzialità ancora da scoprire e un'interazione multimediale in tempo reale che nessun altro può offrire».

Cosa c’era allora che oggi non c’è più?

«Una voglia, un'urgenza di creare il nuovo. Di rompere gli schemi e vedere cosa fosse possibile. Non c'erano le regole e i paletti che nella discografia esistono adesso, anzi, c'era la ricerca dell'inusuale. Rock, black, folk e jazz riunivano quasi tutto lo scibile, ma a volte c'erano più idee in un disco che in un anno di musica di adesso».

L’informazione?

«Erano tempi molto diversi. Anche l'informazione era scarsa, l'accesso universale a tutto che hai ora con internet non era neanche ipotizzabile. I dischi uscivano in ritardo rispetto a Stati Uniti o Inghilterra, a volte non uscivano affatto e li compravamo di importazione».

Oggi invece...

«Il satellitare ha portato una miriade di canali musicali, ma nessuna attenzione in più al fattore culturale della musica. Nessuno ha voglia di raccontare le storie con cui siamo cresciuti: la redenzione della musica black, la trasgressione del rock, la poesia dei cantautori è come se non fossero mai esistite. Tutte le radio trasmettono le stesse cose, quelle in classifica».

La crisi della discografia?

«Le nuove tecnologie hanno creato molti problemi alle case discografiche, che non hanno compreso per tempo la sfida delle nuove tecnologie. Si sono preoccupati della pirateria, ma non son riuscite neanche a creare una piattaforma comune per la commercializzazione sul web. Se non arrivava Steve Jobs, la Apple e i-Tunes a risolvergli il problema della vendita on line...».

Più gioie o dolori?

«Internet è una minaccia ma anche un'opportunità, ma la devi saper cogliere. È importante capire che una canzone ormai viene consumata in tante forme diverse. Il mondo del web richiedeva competenze nuove, e non tutti si sono attrezzati per tempo. Ora la lezione è chiara, e le politiche sono in parte cambiate: si è capito che il web è strategico per diffondere vecchi e soprattutto nuovi artisti. In alcuni paesi (Inghilterra, per esempio) i prezzi dei cd si sono abbassati, i veri incassi gli artisti li fanno soprattutto con concerti e pubblicità, apparizioni, marketing».

Nella comunicazione?

«Lì internet ha creato un ambiente di partecipazione che ha trasformato il mondo. Anche se siamo solo all'inizio, c'è quasi un prima e dopo. La quantità di cose nuove che possiamo fare e quelle che è più facile fare on line, i contatti che possiamo intrecciare e la facilità con cui gira l'informazione globalmente sarebbero state incredibili pochi anni fa».

Volevamo cambiare il mondo ma il mondo ha cambiato noi. O no?

«Qualcosa è cambiato: la nostra maniera di pensare, di agire, la consapevolezza di chi siamo e cosa dovremmo essere. La musica è un veicolo di idealismo e partecipazione. Non ha tempi costanti, il suo effetto non è matematico. In quegli anni, sicuramente ha contribuito moltissimo: rispecchiava i tempi, e viceversa».

Mentre ora?

«I tempi ora, come diceva Dylan, sono cambiati, e anche molto. Sono tempi in cui siamo un po’ spaventati, incerti, molti tendono al quieto vivere, per molti la vita si è fatta dura. Non sono pochi quelli che si preoccupano degli altri e di cambiare il mondo, ma certo si fa una gran fatica. E la musica di adesso - non viviamo un momento artistico memorabile - rispecchia tutto ciò».


 

Nessun commento:

Posta un commento