CLAUDIO LOLLI 2
È stato qualcosa di meno ma al tempo stesso anche qualcosa di più di un concerto, quello tenuto da Claudio Lolli l’altra sera al Teatro Bobbio, davanti a duecento aficionados, nell’ambito del Festival Trieste Poesia.
Qualcosa di meno, o comunque di diverso, perchè la forma vocale perlomeno traballante del cantautore bolognese (classe 1950, primo album nel lontano ’72, lo storico ”Aspettando Godot”), unita a quel quadernetto dal quale il nostro leggeva - in certi casi nel senso letterale del termine - i suoi testi, faceva somigliare il tutto più a una sorta di reading musical-politico che a un concerto in senso tradizionale. Pur supportato da due superbi musicisti come Paolo Capodacqua alla chitarra e Nicola Alesini ai sassofoni.
Qualcosa di più, perchè - complice qualche bicchiere di buon vino sorseggiato dall’artista fra una canzone e l’altra - la serata si è via via trasformata in una confessione mai così diretta e sincera, quasi un bilancio di vita personale e forse generazionale. Condito di amarezza ma anche di tanta ironia e autoironia. Esempio: «Ho fama di cantautore malinconico, triste. Dunque se siete qui, sapete già quel che vi aspetta. Le ballerine arrivano dopo...».
Apre con ”Donna di fiume”, una delle ”Lovesongs” scritte in tanti anni di carriera e recentemente riproposte tutte assieme nel nuovo album. Poi si racconta così: «Provate a immaginare un ragazzo, verso la fine degli anni Sessanta, che non riesce a dormire. Cosa può fare? Una delle prime radioline portatili, una cuffietta improbabile, e ascolta. Tutta la notte. Ma nessuno trasmette. Suoni in onde corte che vanno e vengono...».
È la sua storia, la storia di tanti suoi più o meno coetanei che di lì a poco, entrati negli anni Settanta, si trovarono calati in un mondo nuovo, pieno di energia e di speranze e di voglia/certezza di cambiare il mondo. Quello stesso ex ragazzo, quegli stessi ex ragazzi, un paio di decenni dopo, credono di essere tornati nel Medioevo: «Sintonizzatevi su Radio Padania Libera - suggerisce - e capirete benissimo cos’è l’odio moderno, contemporaneo, cos’è la nostra colonna sonora infame».
Meglio allora l’amore, la riflessione disincantata su passato e presente. Altre canzoni, figlie di tempi diversi. ”La pioggia prima o poi” e ”L’amore ai tempi del fascismo” («non quello degli anni Trenta, quello di oggi...»), ”Alla fine del cinema muto” e ”Analfabetizzazione” («il potere nasce dalla comunicazione, l’avevo capito già trent’anni fa»), ”Adriatico” e ”Da zero e dintorni”, ”La giacca” e ”Dita”...
Altre parole, altre riflessioni. Lolli racconta e si racconta. L’adolescenza, le letture, la politica, gli anni in cui si era animati dalla fede nel progresso, dalla certezza che il mondo stesse per cambiare. Il tutto sullo sfondo di Bologna, i vecchi in Piazza Maggiore («tutti comunisti...»), la chiesa di San Petronio. Ma anche Rimini a soli cento chilometri: il demonio, il male, la casa di famiglia dove veniva portato d’estate, da ragazzo...
Accenni di particolare sincerità - persino di commozione - quando arriva il turno dei padri: quelli musicali (”Folkstudio” e ”I musicisti di Ciampi”) e quello vero, biologico, «che non sarebbe contento di vedermi stasera qui...» (”Quando la morte avrà”, brano che chiudeva l’album d’esordio, del ’72).
Il finale è dedicato al capolavoro di Lolli, ”Ho visto anche degli zingari felici”, canzone del ’76, rifatta recentemente anche da Luca Carboni. E c’è anche un bis, ”Borghesia”, necessariamente riveduta e corretta nelle sue granitiche certezze di allora. Ora infatti si conclude così: «Vecchia piccola borghesia, vecchia gente di casa mia, per piccina che tu sia, il vento un giorno - forse, eventualmente... - ti spazzerà via».
Applausi di affetto, quasi con tenerezza, per quell’ex ragazzo un po’ invecchiato.
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