lunedì 23 marzo 2015

TARCHI, libro su POPULISMO

Populismo, pericolosa patologia o elemento connaturato alle democrazie del nostro tempo? Bella domanda, a cui dà una serie di circostanziate risposte Marco Tarchi, docente di Scienza della politica all’Università di Firenze, nel suo libro “Italia populista. Dal qualunquismo a Beppe Grillo” (il Mulino, pagg. 380, euro 20), nuova edizione aggiornata di un volume uscito nel 2003. Il suo excursus parte da alcuni personaggi e fatti storici. Nel dopoguerra c’erano Guglielmo Giannini con il suo movimento dell’Uomo qualunque ma anche l’armatore napoletano Achille Lauro, creatore del voto di scambio (la scarpa sinistra prima, quella destra dopo il voto...). In anni più recenti Umberto Bossi e la sua Lega e Antonio Di Pietro con l’Italia dei valori. In mezzo anche la rivolta di Reggio Calabria al grido di “Boia chi molla” con Ciccio Franco, le esternazioni di Cossiga, i referendum radicali contro il finanziamento pubblico dei partiti, gli show televisivi di Berlusconi, il movimento dei girotondi con Nanni Moretti fino ai “vaffa” di Beppe Grillo. Ebbene, secondo Tarchi - romano, classe 1952, un passato nelle organizzazioni giovanili del Msi e un presente di studioso - discendono tutti, chi più chi meno, chi in una maniera chi in un’altra, dalla grande madre del populismo... Professore, dove e quando nasce il populismo italiano? «In quanto mentalità che individua il popolo come una totalità organica artificiosamente divisa da forze ostili, gli attribuisce naturali qualità etiche e ne contrappone tutta una serie di virtù - il realismo, la laboriosità e l'integrità - ad altrettanti vizi - l'ipocrisia, l'inefficienza, la corruzione - che attribuisce a quelle che chiama oligarchie (politiche, economiche, sociali o culturali che siano) e di questo popolo rivendica il primato, come fonte di legittimazione del potere, al di sopra di ogni forma di rappresentanza e di mediazione, se ne possono trovare le tracce molto lontano nel tempo. Senza risalire ai tempi più antichi, basta pensare a taluni filoni dell'epopea risorgimentale e della retorica fascista. Ma il suo vero terreno di coltura sono stati i settant'anni di vita repubblicana». Come si è sviluppato fino ai giorni nostri? «Incarnandosi in una varietà di forme, che si sono nutrite del disagio che ha costantemente pervaso gli umori di buona parte della popolazione italiana, scontenta dell'azione dei politici di professione e portata a ritenerli responsabili di tutto quello che in Italia non va. I dati dei sondaggi condotti nei paesi della Comunità europea dal 1972 a oggi hanno quasi sempre mostrato un tasso altissimo di insoddisfazione per il modo in cui, da noi, funziona la democrazia. Questo sentimento ha alimentato reazioni populiste». Fra Giannini e Grillo c'è “un filo rosso”, o almeno “grigio”? «Certamente, perché si tratta, rispettivamente, del primo e del più recente tentativo di canalizzare gli umori critici dell'uomo della strada in un contenitore politico, confidando in un legame diretto fra il fondatore-portavoce del movimento e i seguaci e nella capacità di presa di una protesta espressa con i toni, i modi e il linguaggio popolare, mettendo alla berlina i potenti e i corrotti e promettendo di spazzarli via». In che cosa il nostro è diverso dai populismi di altri paesi europei o sudamericani? «Nelle forme, talvolta, ma non nella sostanza. Ogni espressione di questa mentalità necessariamente si adatta al contesto in cui si trova ad agire, ma tutte puntano allo stesso risultato: dare voce agli umori diffusi nella base della società e sbarazzarsi dell'establishment per ricostituire la vagheggiata unità del popolo, che secondo loro sarebbe stato diviso da insidiosi nemici: i partiti, gli intellettuali, gli stranieri e via dicendo». C'è un populismo di destra e di sinistra? E se sì, in che cosa si differenziano? «In linea di principio, la mentalità ricompositiva, cicatrizzante, del populismo punta a scavalcare tutte le divisioni politiche interne al popolo e quindi respinge la distinzione sinistra/destra. Di fatto, però, i movimenti che esprimono questa mentalità devono conquistarsi uno spazio politico. Se lo trovano a destra, accentuano l'attaccamento all'identità culturale del popolo e gli atteggiamenti xenofobi. Se lo trovano a sinistra, cavalcano piuttosto il tema del riscatto delle classi più disagiate, abbandonate da politici e sindacati». Bossi, Di Pietro, Grillo: tre populismi diversi? «Diversi ma, nel contempo, complementari e in concorrenza. Tutti e tre esaltano le qualità dei "piccoli" e dichiarano di volersene fare paladini contro le sopraffazioni dei "grandi". I dati elettorali, del resto, dimostrano che in varie occasioni c'è stato un travaso di consensi fra Lega Nord e Italia dei Valori e fra queste due formazioni e il Movimento 5 Stelle. Anche se, in quest'ultimo caso, è il discorso politico di Grillo ad essere pienamente populista - e ad attirare voti -, mentre in molti eletti delle liste pentastellate prevale un'impostazione da "sinistra 2.0" che guarda all'ecologia, alla democrazia diretta, al giustizialismo in modo quasi esclusivo. Questa distanza spiega molte delle diatribe interne al Movimento 5 Stelle». Berlusconi è - o è stato - a modo suo un populista? «Nello stile, certamente sì: si pensi al suo continuo ribadire "sono uno di voi", al descriversi come un tipico uomo medio che, semplicemente, ha saputo meglio sfruttare le occasioni che si è trovato di fronte, al martellante attacco al "teatrino della politica", all'ostentato disprezzo delle mediazioni istituzionali. Ma in lui c'è anche l'aspetto dell'uomo ricco e potente, che non rifugge dai piaceri del lusso, che ne fa un populista a metà». In Renzi vede un'anima almeno in parte populista? «Un'anima, no: è figlio della politica partitica, a cui ha sempre appartenuto fin da ragazzino, e in questa continua a muoversi. Ma nel linguaggio, sì, eccome: da esemplare uomo di marketing, sa che il modo di pensare populista è diffuso e gli si adatta fortemente. Così si spiegano le frequente esibizioni di insofferenza verso le lentezze e le mediazioni del processo politico e le sfuriate contro i "professoroni", gli intellettuali "mangiatartine", "l'Europa dei banchieri" e così via: bersagli contro cui si scagliano i Salvini, i Grillo, le Marine Le Pen…». L'antipolitica è parente del populismo? «Ne è una componente essenziale. I populisti vedono la politica come il regno della corruzione e dello sperpero, delle chiacchiere inutili e ipocrite, degli accordi sottobanco, delle lentezze e delle furbizie. Se potessero, se ne libererebbero. Sapendo che è impossibile farlo, ne coltivano un'immagine ipersemplificata e vorrebbero che venisse gestita come si fa con una famiglia, a suon di decisioni immediate e trasparenti». E l'euroscetticismo? «Oggi è un tema molto cavalcato dai movimenti populisti, che nell'Unione europea vedono quasi il regno del male, dove trionfano i banchieri, i rapaci finanzieri, i burocrati, i politici preoccupati solo dei propri interessi e delle ragioni della gente comune non ci si cura minimamente...». Salvini può essere considerato “un populista 2.0”? «Salvini ha capito che la natura della Lega, la radice della sua sintonia con i potenziali elettori, è populista. Applica la ricetta di Bossi adattandola ai tempi».

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