domenica 29 marzo 2015

VERDENA sab28-3 Pordenone, 27-4 trieste

«Che significa “Endkadenz”? È un termine - dice Alberto Ferrari dei Verdena - che nasce da un gesto che abbiamo visto ritratto su un libro sulle percussioni, dove un musicista, alla fine di un concerto di una musica classica piuttosto strana, dopo un’ultima rullata si gettava fisicamente dentro a un timpano. Nel silenzio più totale. Rappresenta l’ultimo colpo, in un’atmosfera teatrale fra lo scherzoso e il serio, alla fine quasi catastrofico...». I Verdena stasera suonano al Deposito di Pordenone, poi tornano in regione lunedì 27 aprile al Teatro Miela di Trieste. Nell’ambito del tour seguito alla pubblicazione dell’album “Endkadenz vol.1”, pubblicato a gennaio, quattro anni dopo il precedente “Wow”. Al trio “titolare” (con Alberto c’è suo fratello Luca e Roberta Sammarelli), in questi concerti si aggiunge Giuseppe Chiara (tastiere, chitarra e cori). «Dal vivo - prosegue Alberto Ferrari - presentiamo l’album nuovo e ci diamo accorti subito che mancava qualche chitarra. Dunque, per essere fedeli al disco, stavolta siamo in quattro, con un polistrumentista in più che ci dà una grossa mano. Per la verità, a volte ci sembra che per fare le cose al meglio, dal vivo, avremmo bisogno di un quinto, persino di un sesto elemento...». Perchè il disco diviso in due volumi? «Abbiamo finito di registrare a fine dicembre. E all’inizio volevamo fare un doppio. Ma la casa discografica ha preferito puntare su questa nuova formula: due volumi con pubblicazione a distanza di pochi mesi l’uno dall’altro. Il secondo uscità entro l’estate. Lo viviamo come un parto a metà, speriamo che la seconda parte esca prima possibile». Com’è il vostro rapporto con le major? «Andiamo abbastanza d’accordo, siamo liberi di fare quello che vogliamo a livello creativo, dunque bene così. Gli unici problemi che emergono riguardano le uscite, il marketing, che comunque sono problemi loro». Vi capita ancora, come agli esordi, di aver paura di non essere seguiti dal pubblico? «La paura c’è sempre, ed è giusto che sia così, soprattutto se si rimane fermi per tanto tempo. Passano gli anni e le mode, succedono tante cose, non sai mai se la tua musica interessa alla gente. Ma la prima parte del tour è andata bene, c’erano molti giovani, questo ci ha rassicurato. Significa che c’è ancora voglia di rock». Suonare all’estero è diverso? «Fuori dall’Italia non conoscono la nostra storia, a volte vengono a sentirci solo per curiosità. Anche se fra il pubblico poi ci sono molti italiani, dunque è come suonare a casa nostra. Una cosa che notiamo è che all’estero, durante i concerti, c’è molto silenzio, forse c’è più rispetto per chi in quel momento sta suonando. Ma anche in Italia, negli ultimi tempi, siamo migliorati sotto questo aspetto». Non amate i social network. «Ma non abbiamo niente contro. Il punto è che noi suoniamo, e se abbiamo qualcosa da dire lo facciamo attraverso la musica. La nostra comunicazione passa attraverso i dischi e i concerti. Il resto non ci appassiona. Il messaggio è la musica». È vero che all’inizio vi chiamavate Verbena? «Sì, come la pianta. Ma abbiamo subito scoperto che era lo stesso nome di un gruppo grunge americano, prodotto da Dave Grohl dei Nirvana, e abbiamo cambiato la consonante. Il nostro primo demo, del ’96, è firmato Verbena...». E il fatto che agli esordi vi chiamassero i “Nirvana italiani”? «All’inizio ci ha dato un po’ fastidio, anche perchè non ci sembrava di esserlo. Forse il nostro unico disco “nirvaniano” è stato “Requiem”, ma gli altri...».

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