domenica 28 agosto 2016

FREE, di STEPHEN WITT / DISCHI E PIRATERIA

Parafrasando Vladimir Ilic Uljanov detto Lenin, il saggio di Stephen Witt si sarebbe potuto intitolare “Pirati di tutto il mondo unitevi”. Troppo provocatorio, forse. Si è preferito “Free. Cosa succede quando un’intera generazione commette lo stesso crimine?” (Einaudi, Stile Libero Extra, pagg. 336, euro 19), laddove il titolo originale più correttamente era “How music got free: the end of an industry, the turn of the century, and the patient zero of piracy”.
Si parla ovviamente della rivoluzione che ha sconvolto negli ultimi due decenni l’industria discografica e il modo stesso di intendere la fruizione della musica. Un tempo era il vinile: negli anni Settanta supergiù con tremila lirette acquistavi il tuo ellepì, sì il long playing che poi è diventato l’album, e la storia era (quasi) finita. Con guadagni miliardari per artisti, discografici e compagnia cantante. La diffusione delle cassette, con la possibilità di copiare a livello più o meno casalingo i dischi, apriva una prima minuscola crepa in un sistema che sembrava comunque inattaccabile e inaffondabile.
Alba degli anni Ottanta. L’arrivo del cd sembra già una rivoluzione. Ma nessuno può immaginare il cataclisma che sta per scoppiare. Dall’analogico al digitale, dal disco al file, dal download illegale a quello legale, dalla pirateria ai servizi di streaming. Attraverso sigle, nomi e acronimi come mp3, Napster, BitTorrent, iTunes, YouTube, Apple Music, file-sharing, Vevo, Deezer, Spotify... Tutti figli e figliastri di internet.
Witt, classe ’79, originario del New Hampshire, laurea in matematica e master in giornalismo, ricostruisce e racconta tutta la storia con i toni del saggio e l’accuratezza del giornalismo d’inchiesta. Il risultato? Trecento e rotte pagine che si leggono come un romanzo.
L’incipit dice già molto. «Faccio parte della generazione pirata. Quando ho iniziato l’università, nel 1997, non avevo mai sentito parlare degli mp3. Alla fine del primo semestre, nel mio hard disk di 2gb c’erano centinaia di canzoni piratate. Alla laurea avevo sei hard disk da 20gb, tutti pieni. Nel 2005, quando mi sono trasferito a New York, avevo raccolto 1500gb di musica, quasi 15000 album...». Tutto gratis, ovviamente.
Dietro la caccia al “paziente zero” della pirateria, prende forma la storia stessa della discografia americana e mondiale degli ultimi tre decenni. All’inizio le major sottovalutarono il passaggio dall’analogico al digitale. Meglio: qualcuno forse si rendeva anche conto delle potenzialità delle nuove tecnologie, intuiva che un mondo stava finendo e un altro stava per cominciare, anzi, era già cominciato. Ma non sapeva come affrontare il cambio d’epoca, ignorava quali armi schierare per difendere il fortino. Non a caso le cose, per l’industria discografica, lungi dal tornare quelle dei tempi d’oro, hanno almeno cominciato a migliorare quando al download illegale è stato affiancato quello legale, quando sono stati offerti gli abbonamenti ai servizi di streaming, quando i video musicali nati come strumento meramente promozionale sono diventati a loro volta asset produttivi grazie alla pubblicità.
Da ultimo, due notazioni. Un tempo i guadagni miliardari degli artisti (e dei discografici) arrivavano dalle vendite dei dischi, dalle royalty, dai diritti d’autore. Oggi, almeno per i primi, sempre più dalle tournèe, dai concerti dal vivo. Dei quali i dischi - da alcuni offerti sul web gratis, o quasi - sono diventati quasi strumenti promozionali.
La seconda denota un fattore comportamentale. Chi è stato ragazzo fino agli anni ’70-’80 voleva possedere materialmente un disco, acquistava, collezionava, registrava, scambiava. Ambizioni che le generazioni successive ignorano. Dai primi iPod fino agli attuali ascolti in streaming, del “possesso” della musica non interessa più a nessuno.
Che poi il discorso andrebbe allargato ai film, alle serie tv, ai videogiochi, ai libri, ai giornali... Ma sarebbe già un’altra storia.

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