giovedì 22 dicembre 2016

FIENGO, NEL "CUORE DEL POTERE"

Dalle “interferenze” - per restare all’eufemismo - della P2 a quelle più sottili del marketing. Con tutto quello che c’è stato prima e ci sarà dopo. È la storia recente del Corriere della Sera, raccontata con gli occhi - e la memoria - di Raffaele Fiengo, che per tanti anni ne è stato giornalista e sindacalista. Sempre dalla parte della redazione e dunque dei lettori, dell’indipendenza della testata, dell’autonomia dai poteri forti e meno forti. Un lungo lavoro di ricerca ha prodotto “Il cuore del potere” (pagg. 393, euro 19, edizioni Chiare Lettere). Sorta di biografia “non autorizzata” dei decenni recenti del Corrierone, nato nel 1876.
De Bortoli diceva che il Corriere è “istituzione di garanzia del Paese”. È d’accordo?
«La definizione ha il suo fascino. Ma ha sempre indicato più un orizzonte che una realtà. Anche se nemmeno la P2 è riuscita a espugnare il giornale. Ha preso addirittura la proprietà, l’amministrazione, la direzione con Franco Di Bella. È riuscita a inquinare, a porre delle basi per un progetto: non un golpe, ma il controllo capillare del Paese. Ma non ha saputo e potuto occupare davvero il giornale».
Quando si accorse che la P2 era entrata in via Solferino?
«Le anomalie crescenti si erano presentate un po’ alla volta, nella proprietà e nel giornale stesso. Ma non c’erano elementi per pensare addirittura a una proprietà occulta organizzata. È stato un processo lento, durato quattro anni. Poi Gelli venne allo scoperto con la famosa intervista di Maurizio Costanzo in terza pagina, nell’ottobre 1980. Ma solo con la pubblicazione della lista del 21 maggio 1981, con i 793 nomi degli iscritti trovata a Castiglion Fibocchi, emerse la verità».
Lei è entrato al Corriere nel ’69. Che giornale era?
«Sono arrivato in terza pagina poco prima delle bombe di piazza Fontana. Redazione imbalsamata in modalità di lavoro autoritarie e fuori dal tempo. Ogni redattore “passava” la notizia che gli veniva affidata senza alzare nemmeno lo sguardo dal tavolone della Sala Albertini, costruito come copia di quello del “Times” di Londra. I redattori apprendevano i fatti che venivano pubblicati il giorno dopo nelle altre pagine soltanto dalla prima copia che arrivava dopo la mezzanotte, fresca di stampa dalla tipografia».
La chiamavano il “Soviet di via Solferino”...
«Ci ridevamo sopra. Guido Azzolini, compagno di stanza, cucì una stella rossa di stoffa sul mio berretto alla Lenin. E Paolo Murialdi, storico del giornalismo, da Mosca mi mandò una cartolina con Lenin scrivendo: “stesso cappello, ma che testa diversa”».
Il miglior direttore che ha avuto?
«Sono tre. Alexander Stille (che firma la prefazione del libro - ndr): “Il Corriere della Sera è un quotidiano indipendente con una chiara vocazione europea, libero da ogni condizionamento politico ed economico, sia esterno che interno”; Piero Ottone: “Informare significa, oltre che riferire gli avvenimenti, esplorarne le cause più profonde, indagare sui retroscena, non nascondere nulla”; Alberto Cavallari: “Dobbiamo deve fare un giornale libero, garantire l’informazione più completa, cercare poi la cosiddetta verità possibile, registrare la dialettica tra molte verità per tentare di raggiungere la verità stessa, o almeno la non-menzogna"».
Il recente arrivo di Urbano Cairo?
«È un editore. Capirà che occorrono più giornalisti, e non meno, per superare la forte tendenza alla gratuità in chi legge? Capirà che una vera indipendenza come quella proposta da Luigi Einaudi è il migliore fattore della qualità, anche sul mercato? Lo vedremo presto»
Il rapporto fra marketing e informazione?
«Un forte marketing ha mantenuto un po’ in piedi molti bilanci. Sono diventate “notiziabili” informazioni che prima non lo erano, soprattutto nel weekend. Anche la pubblicità diventa “nativa” e fa contenuti anzichè propaganda. Tutto bene, a condizione che resti anche su questi terreni #journalismfirst, il giornalismo per prima cosa».
Web: tutto oro quel che brilla?
«Mi piace l’allargamento dell’informazione che non si ferma alle élite, con internet, facebook, twitter e instagram, il giornalismo che arriva a tutti. Ma “l’acqua deve raggiungere anche l’ultimo campo di riso” chiara e pulita. Chiudo il libro proprio con una bella regola dell’isola di Bali».
Ce la ricorda?
«Nei villaggi di montagna, i contadini badano bene di affidare la gestione dei campi di riso al proprietario dell’ultimo campo a terrazza raggiunto dall’acqua. Questa organizzazione della comunità (il “Subak”) funziona bene e assicura due raccolti l’anno per tutti. Ognuno è sicuro che sarà fatto davvero quel che serve (piccole chiuse, gallerie, rimozione dei detriti e del fango, acquedotti sotterranei e all’aperto, scolmatoi), perché l’acqua possa compiere l’intero percorso e toccare anche il suo campo, senza fermarsi a irrigare solo i terreni dei potenti e degli amici dei potenti».
Che nel giornalismo significa?
«Che questo risultato lo può ottenere solo il giornalismo tutelato e responsabilizzato, dovunque sia. Dunque anche il giornalismo dei blog, dei freelance, dei colleghi precari. La questione è molto urgente. Altrimenti abbiamo Brexit e Trump. Per ora».

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