martedì 9 dicembre 2008

GUCCINI


«Se ricordo quell’eskimo comprato a Trieste? Come potrei dimenticarlo. Anche se ormai sono passati più di quarant’anni...». Parli con Francesco Guccini - il cui tour venerdì alle 21 fa tappa al palasport di Pordenone - e ti sembra veder scorrere mezzo secolo di storia della canzone e del costume italiani. Compreso quell’«eskimo innocente dettato solo dalla povertà» (da «Eskimo», canzone del ’78), che il soldato Guccini acquistò «su una bancarella in un mercato all’aperto, mi sembra vicino al mare (con ogni probabilità in piazza Ponterosso - ndr)», mentre prestava il servizio miliare a Trieste.

«La mia naja triestina - ricorda il cantautore, nato a Modena nel ’40 - durò dal gennaio all’ottobre del ’63. Speravo di essere assegnato a una delle caserme in città, bestemmiai a lungo quando seppi che la mia destinazione era sul Carso, a Banne. Invece mi andò di lusso. Faceva freddo, questo sì. Ecco perchè acquistai quell’eskimo, che non aveva ancora quel significato simbolico che avrebbe assunto in seguito. Ma i collegamenti con il centro città era buoni. E il nostro comandante di battaglione, il maggiore Giacchini di Pesaro, non amava che i suoi soldati girassero per la città con la divisa, così quasi ci costringeva a uscire in borghese. Prendevo novantamila lire al mese, più cinquemila di frontiera orientale, considerata zona disagiata. Che poi disagiata non era per nulla...».

Cantava già?

«Sì. A Banne ero coccolato da tutti perchè sapevo suonare la chitarra. Nelle festicciole che si facevano in caserma, il maggiore Giacchini mi diceva: Guccini, una bottiglia di cognac per il tuo tavolo se ti ricordi questa canzone... Gli accordi magari me li inventavo, ma la bottiglia arrivava sempre».

Ma la musica allora era solo una passione.

«Certo, ma scribacchiavo già delle canzoni, e gli amici mi venivano ad ascoltare. Mi ispiravo a una specie di cabaret alla francese, in stile chansonnier fra satira e discorsi seri. Del resto all’epoca i riferimenti erano quelli, arrivavano da oltralpe. Poi arrivò Bob Dylan e cambiò tutto. Fu come una ventata di idee nuove. Dalla Francia passammo agli Stati Uniti, al sogno americano. Sullo sfondo i primi vagiti della contestazione».

Due anni fa, all’elezione del Presidente della Repubblica, su una scheda c’era il suo nome...

«In realtà le schede erano due, me l’ha detto Prodi. Ma una fu annullata. E quindi non venni citato nel verbale dello scrutinio, per entrare nel quale bisogna avere almeno due voti. Fa nulla. Sì, la cosa mi ha sorpreso e divertito. Ma non ho mai scoperto chi fossero i miei due ”grandi elettori”: di certo due buontemponi, magari parlamentari dell’Emilia Romagna...».

Il suo rapporto col computer è migliorato?

«Le canzoni le scrivo sempre a mano, su un foglio di carta. Il computer lo uso per i libri: è molto più comodo. Ma lo utilizzo come una macchina per scrivere, non ho approfondito le mille altre funzioni, da internet alla posta elettronica. Sarei anche curioso delle sue potenzialità, ma poi non approfondisco. Peccato, perchè mi è arrivato anche un computer nuovo, ma l’amico che lo deve installare si fa attendere».

Colpa della sua storica pigrizia?

«Ma no, è che non sono un uomo tecnologico. Mi sento di appartenere al secolo scorso, in fondo sono del ’40, dunque la mia storia sta tutta nel Novecento. Anche i concerti: ne faccio pochi perchè devi avere voglia di andare sul palco, e se ci vai ogni sera diventi un impiegato della canzone. Vale per me, ma sicuramente anche per il pubblico».

Diciamo che preferisce fare altre cose.

«Oh certo. Ho appena tradotto tre commedie di Plauto in dialetto pavanese, che un gruppo teatrale si è preso anche la briga di rappresentare. E poi, quando la stagione lo permette, qui vicino casa mia c’è un lago, dove nuoto o vado in canoa. Me ne hanno rubate tre, di canoe, ora ne ho una nuova: tento di starci più attento, se no mi fregano anche questa...».

Dunque ha ripreso a stare nella Pàvana della sua infanzia?

«Sì, non abito più a Bologna dal 2001, anche se la casa in via Paolo Fabbri 43 (titolo dello storico album del ’76 - ndr) ce l’ho ancora. Ci vado spesso nei fine settimana. In fondo è solo un’ora di automobile. Pàvana è sull’Appennino, a metà strada fra Bologna e Pistoia, anzi, Pistoia è più vicina, basta mezz’oretta...».

Le piace la vita di paese?

«Sì, anche perchè quando mi stufo prendo la macchina e parto. Da questo punto di vista sono un privilegiato. Qui ho amici di vecchia data, alcuni anche di idee diverse dalle mie. Si discute, magari si litiga amichevolmente. Io sono un po’ fazioso: non capisco ma accetto...».

Com’è il dialetto pavanese?

«Intanto è praticamente estinto, visto che il paese ha meno di novecento abitanti. È una sorta di dialetto toscano diciamo così emilianizzato. Qui siamo sul confine, fai due o tre chilometri e gli accenti cambiano. Comunque è un dialetto abbastanza comprensibile, non lo parlano più in tanti, dunque mi ha fatto piacere farlo un po’ rivivere. Anni fa ho scritto anche un vocabolario...».

Dalla tivù sta sempre a distanza di sicurezza.

«Di sicuro. Anzi, con gli anni la mia idiosincrasia è peggiorata. Trovo la televisione inutile. E volgare. Alla radio invece ci andrei più volentieri. Comunque non sono un fondamentalista. La tivù la guardo anch’io: i tg, qualche film, Annozero, Ballarò... I reality mai».

Nei suoi concerti, nelle chiacchiere fra una canzone e l’altra, lei pesca a piene mani dall’attualità.

«Diciamo che ironizzo, ma non faccio mai discorsi seri. Non è il mio mestiere. Del resto le cronache ci offrono del materiale così ampio, certe frasi bastano da sole per scatenare una risata. Quella storia di Obama abbronzato, per esempio, era davvero incredibile. Il problema magari è che, dopo due/tre giorni, tutto passa nel dimenticatoio...».

A libri come andiamo?

«Con Loriano Macchiavelli stiamo pensando a un nuovo giallo. Ma siamo solo alla fase del progetto: il maresciallo Santovito ormai è andato in pensione, dunque dobbiamo inventarci un nuovo personaggio. Ma l’atmosfera dell’Appennino, quella vorremmo mantenerla...».

«Ritratti» è del 2004. Poi solo un «live» e una raccolta. Il disco nuovo?

«Forse nel 2009. Ma non ho fretta. Alcune canzoni nuove le canto nei concerti di queste settimane. E sono già su YouTube. ”Su in collina” parla della Resistenza, ”Canzone di notte n.4” è dedicata a Pàvana, ”Il testamento di un pagliaccio” racconta delle ultime volontà di un clown giunto alla fine dei suoi giorni. Laddove è abbastanza chiaro che si tratta di un’ironica autocritica: quel pagliaccio sono io, siamo noi...».

Diceva che non ha fretta: dunque il rapporto con la sua casa discografica, in questi tempi di crisi, è abbastanza libero...

«Sì, ho la mia bella libertà. Al punto che, oltre ai cd, ultimamente faccio stampare anche mille copie nel vecchio e caro vinile. Così, perchè mi fa piacere. Comunque la discografia, come l’abbiamo conosciuta noi, ormai sta finendo. I dischi, intesi come supporti discografici, non sono più necessari per ascoltare musica. Meglio allora i concerti, anche il pubblico preferisce vederti e ascoltarti dal vivo...».

E lì lei detiene un primato: saranno più di trent’anni che comincia e conclude i concerti sempre con le stesse due canzoni...

«Sì, apro sempre con ”Canzone per un’amica” e concludo con ”La locomotiva” perchè ormai sono le mie sigle, i miei biglietti da visita. Una sorta di rituale al quale anche il pubblico ormai è abituato. Ma credo di detenere altri due primati: stessa casa discografica e stessi musicisti da un sacco di tempo. Del resto, squadra che vince non si cambia...».

Della squadra, venerdì a Pordenone, unica tappa regionale del tour, fanno dunque sempre parte Ellade Bandini alla batteria, Antonio Marangolo al sax, Vince Tempera al pianoforte, Pierluigi Mingotti al basso, Roberto Manuzzi (sax, tastiere, fisarmonica) e Juan Carlos «Flaco» Biondini alle chitarre. Biglietti ancora disponibili nel circuito delle prevendite e alle casse del palasport.

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