lunedì 1 dicembre 2008

MUMBAI


L'attentato di Mumbai aveva di certo lo scopo di alzare la tensione fra India e Pakistan. Ma indirettamente anche quello di rendere più difficile il lavoro di Barack Obama. È la tesi di Peter Popham, attualmente corrispondente da Roma dell'Independent, ma che per il giornale britannico ha lavorato per cinque anni, dal '97 al 2002, proprio a Nuova Delhi, viaggiando a lungo per tutta l’India e nel vicino Pakistan.

«La strategia dichiarata del prossimo presidente degli Stati Uniti - spiega Popham - è quella di concentrare in Afghanistan lo sforzo occidentale volto a sconfiggere il terrorismo. Per fare questo gli serve l'appoggio anche del Pakistan, ma è chiaro che tutto diventa molto più difficile, nello scenario venutosi ora a creare».

Ieri l'India ha protestato formalmente con Islamabad per le stragi di Mumbai, accusando «elementi pachistani» di essere dietro gli attacchi e chiedendo al governo di Islamabad di «agire energicamente». E le tv pachistane riferiscono che Nuova Delhi ha messo in stato di massima allerta la difesa aerea, alzando i sistemi di sicurezza «a livello di guerra».

«A Mumbai - dice Popham -, dove ci sono stati molti attentati negli ultimi vent’anni, e dove vivono molti musulmani, abbiamo assistito nei giorni scorsi a un modello nuovo di terrorismo, caratterizzato da elementi classici dell’attentato mischiati ad azioni tipiche della guerra civile. Dieci persone arrivate in gommone sulla spiaggia, una cosa mai vista. Sicuramente la vigilanza è stata debole, anche se l’azione era difficile da evitare. Ma quel che mi ha colpito maggiormente è stato l’incredibile ritardo con cui sono arrivate in zona le teste di cuoio dell’antiterrorismo. È stata una mancanza di prontezza, di velocità che ha pesato nel bilancio delle vittime».

Ancora il giornalista: «Per quanto riguarda gli attentatori, si sa che venivano da Karachi e appartenevano al Lashkar-e-Taiba, un gruppo fondamentalista nato una decina di anni fa con l’appoggio dell’Isi, i servizi segreti pachistani. Lo scopo inizialmente era quello di intralciare l’azione dell’esercito indiano in Kashmir, ora sono collegati con Al Qaida. Gli Stati Uniti li considerano infatti un’organizzazione terroristica, ma fino al 2002 lavoravano apertamente, alla luce del sole. Poi sono entrati in clandestinità».

E ora che succede? «Chi lo sa. Quella fra India e Pakistan - riflette Popham - è la storia di una guerra lunga ormai settant’anni, cominciata sotto l’impero britannico, e proseguita in un alternarsi di tregue e momenti di grande tensione. Che non sempre, per fortuna, lasciano la parola alle armi. Ricordo per esempio l’attentato del 2001 al parlamento indiano, a Nuova Delhi. La tensione era salita a livelli talmente alti che noi giornalisti inglesi e i nostri colleghi americani fummo invitati a lasciare il paese. La tensione durò per un paio di settimane, ma per fortuna poi si tornò alla normalità».

«Il fatto - conclude il corrispondente dell’Independent - è che soprattutto l’India, che fra i due è il paese più grande e più ricco, non può permettersi una nuova guerra, se vuole sviluppare ulteriormente la propria economia. Il fatto poi che entrambi i paesi siano dotati di armi atomiche rende la questione ancor più delicata e pericolosa. Mi sembra che la diplomazia occidentale, e quella statunitense in particolare, si stia già impegnando al fine di attenuare le forti tensioni in atto...».

 

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