martedì 13 gennaio 2015

INTERVISTA JAMES TAYLOR (22-4 a TRIESTE)

Ad aprile il nuovo tour italiano, che farà tappa al Rossetti di Trieste mercoledì 22. A giugno un nuovo album di inediti, tredici anni dopo il precedente lavoro in studio “October road”. Lui è James Taylor, sessantasette anni a marzo, nato nel Massachusetts dove è tornato a vivere, da mezzo secolo in carriera (anche se il primo album uscì nel ’68, per la Apple dei Beatles, e il successo arrivò nel ’70 con “Sweet Baby James”...). È uno dei grandissimi della musica popolare del Novecento: cento milioni di album venduti, cinque Grammy Awards, dischi d’oro e di platino, “uno dei più cento più grandi artisti di sempre” secondo la rivista Rolling Stone. «Sono felice - dice - di tornare a suonare in Italia, ci torno ogni volta che mi è possibile e cerco di portare con me sempre un maggior numero di musicisti. Stavolta sul palco saremo in otto: musicisti straordinari, questa band è la goia della mia vita, è un piacere poter ascoltare la mia musica suonata da loro». Ormai conosce bene il nostro Paese. «Abbastanza, qualche volta vengo anche in vacanza. Per me l’Italia è il paese più eccitante in cui suonare. A prescindere dalla bellezza dei luoghi, in un mondo globalizzato e sempre più omogeneo per via della diffusione comune di una cultura moderna, amo molto l’Italia perchè ha delle caratteristiche che la rendono sempre unica. Da musicista, invece, apprezzo molto l’energia che il pubblico mi trasmette, soprattutto in Italia, quando sono sul palco». Quando ha cominciato, avrebbe mai pensato di essere ancora in scena dopo mezzo secolo? «In vita mia non ho mai pensato a così lungo raggio, allora non sapevo nemmeno cosa mi sarebbe successo di lì a cinque o dieci anni, il massimo a cui la mia immaginazione mi avrebbe potuto portare era l’anno successivo». Qual è la bussola che le ha indicato la strada? «Ho solamente e sempre seguito un mio modo di comporre. Ho cominciato a quattordici anni, ascoltando musica folk e cercando di emulare quel che ascoltavo alla radio. Fu allora che formai la mia prima band». Come nascono le sue canzoni? «Da intuizioni. Quel che sento riesco a metterlo su chitarra, quel che esce dalla mia mente finisce in note, ma non saprei come. Certo, ascolto molta musica, seguo quel che accade attorno a me. E tutto questo mi porta alla canzone successiva, giorno dopo giorno». È vero che ha cominciato con il violoncello? «Sì, lo suonavo da ragazzo, ma richiedeva troppo studio, troppe ore a casa, era quasi un lavoro. Il passaggio alla chitarra, che da allora è la mia migliore amica, avvenne in modo naturale: mi permetteva di suonare la musica che avevo in testa, il violoncello era scomodo, non era nemmeno possibile portarselo dietro». La sua famiglia? «Del New England, nonni pescatori, siamo cresciuti sull’acqua. D’estate andavamo a Martha’s Vineyard, lì ho conosciuto Danny Kortchmar, suonava la chitarra, formammo assieme la nostra prima band nel ’65, The Flying Machine, suonavamo nei coffee shop, poi ci trasferimmo a New York per inseguire la musica». Perchè andò a Londra? Come conobbe i Beatles? «Era il ’68, non avevo nulla da fare, andai a trovare un amico. La verità è che volevo suonare, vedere un po’ il mondo. Tramite un amico di Danny arrivai a Peter Asher, appena assunto alla Apple, la casa discografica dei Beatles. Ottenni un’audizione, c’erano McCartney e Harrison: andò bene, mi fecero pubblicare il mio primo album. Fu un’esperienza straordinaria. Ero un fan dei Beatles, vedermi apprezzato da loro rappresentò una svolta». Nel provino cantò la sua “Something in the way she moves”. Che ispirò Harrison per “Something”... «Non credo mi abbia copiato. E comunque se ha preso qualche spunto dal mio brano, per me è un onore: devo molto a loro, mi hanno influenzato tantissimo. L’unica cosa che mi dà fastidio è quando qualcuno crede che, per quella canzone, abbia io copiato loro...». Perchè tornò negli States? «Perchè ero dipendente dall’eroina, avevo bisogno di curarmi e disintossicarmi. Ci ho messo anni per uscire e recuperare e salvare mia vita. Sono felice di essere vivo, di non essere morto in quel periodo. Sì, sono stato fortunato». Com’è cambiata la musica in questi anni? «Tutto è molto cambiato. Per me oggi è più difficile scrivere, forse perché sento meno l’urgenza di esprimermi rispetto al passato. Con questo non voglio dire che negli anni Settanta fosse più facile scrivere: la musica è infatti per me un’espressione personale sulla quale non ho controllo». Bastano voce e chitarra. «Io faccio musica semplice, popolare, che prende vita attraverso voce e chitarra. La semplicità permette di colpire all’istante, arrivando subito a chi ascolta: la musica è essenziale, non ha bisogno di analisi e giudizi complessi. O ti arriva oppure no». Un nuovo album? «È quasi pronto, conto di farlo uscire fra maggio e giugno. Comprenderà solo brani inediti composti negli ultimi anni. Almeno quattro li presenterò anche nei concerti italiani, assieme ai classici di sempre». La rivedremo con Carole King? «Avrei voluto portarla con me in questo tour, lei non se l’è sentita, troppo pesante. Nel 2010 siamo tornati al “Troubadour”, nel quarantennale del nostro primo concerto assieme proprio in quel locale californiano. Ne sono venuti fuori un cd-dvd e poi un lungo tour». Prima di presentare il nuovo tour ieri a Roma, all’Auditorium del Parco della Musica, James Taylor ha partecipato domenica su Raidue a “Quelli che il calcio”. Dove ha presentato “Fire and rain”, accompagnato al pianoforte da Rocco Tanica (Elio e le Storie Tese). E ha detto: «C’è una tendenza a far diventare tutto una competizione, con un vincente o un perdente, ma nell’arte non c’è mai chi vince e chi perde». Sui tragici fatti di Parigi: «La libertà è la cosa più importante che abbiamo. Senza libertà, della quale oggi possiamo godere oggi grazie alle lotte dei nostri padri, io non sarei nemmeno qui a suonare...». «Come cittadino del mondo sono profondamente commosso e colpito - ha detto invece ieri a Roma -, ma ho anche grande speranza nella risposta data dai francesi e da tutta la comunità internazionale che si è unita per la difesa dei diritti. Se l’intenzione era di dividerci, la risposta è stata invece di unità e di coraggio». «Non ho conoscenze adeguate per analizzare le violenze compiute dagli esseri umani, ma credo che ci sia una bella differenza tra chi agisce in maniera efferata perchè folle, e chi invece commette atti violenti per un principio di tipo politico-culturale. È proprio in questo caso che serve da parte di tutti una risposta di unità e coraggio, che si faccia portavoce dei diritti di una democrazia fondata sulla libertà di parola e di stampa». Ancora James Taylor: «Anche negli Stati Uniti c’è troppa violenza. Il problema è sicuramente dovuto, almeno in parte, alla facilità con la quale le armi sono a disposizione di tutti...». Il tour italiano comincerà il 18 aprile a Torino, per poi toccare il 19 Roma, il 21 Firenze, il 22 Trieste, il 24 Padova e il 25 Milano. Prevendite in corso su www.ticketone.it e nei circuiti abituali. Informazioni sulla tappa triestina anche su www.progettolive.com

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