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domenica 24 gennaio 2016
BOWIE, BLACKSTAR, prima e dopo...
«Look up here, I’m in heaven, I’ve got scars that can’t be seen...». Guardate qui, sono in paradiso, ho cicatrici che non possono essere viste, ho drammi che non possono essere rubati: tutti mi conoscono adesso.
Ascoltare l’album “Blackstar”, guardare il video di “Lazarus” in quei tre ignari giorni dopo la pubblicazione del disco nel giorno del sessantanovesimo compleanno, e farlo dopo la morte di David Bowie, sono state e sono due esperienze completamente e maledettamente diverse.
Prima, l’ammirazione per un artista che ha scritto la storia del pop e del rock, capace ancora di cambiare, di rinnovarsi, di stupire dopo mezzo secolo di carriera. Capace di sfornare sette brani vibranti della stessa tensione sperimentale delle origini, che per far ciò non ha esitato a circondarsi del gruppo jazz del talentuoso sassofonista californiano Danny McCaslin.
In un lavoro per tanti versi oscuro, pieno di simboli - a partire dalla “stella nera” del titolo -, citazioni e autocitazioni. Risultato: un’opera visionaria e geniale, intrisa di jazz e contemporaneità. Un disco fuori dal tempo e dalle logiche commerciali.
Passata l’incredulità e attenuato il dolore, gli stessi brani assumono una valenza e significati nuovi. Il capolavoro rimane, la voglia e la capacità di cambiare pure, ma suoni, parole, immagini assumono adesso le coloriture di oscuri presagi, molti hanno detto di un testamento. Non solo musicale, forse spirituale.
E poi quel video, il video di “Lazarus” (canzone che dà il titolo al musical, sequel de “L’uomo che cadde sulla Terra”, che ha debuttato il 7 dicembre a New York). Bowie che canta i versi citati all’inizio disteso a letto, il volto sofferente, la voce straniata e straniante, due piccoli bottoni applicati sugli occhi bendati. Non c’è soluzione di continuità fra la vita e l’arte, fra la realtà e la finzione, fra l’essere e il non essere. E i brividi risalgono la schiena.
Il resto? “’Tis a pity she was a whore”, “Sue (Or in a season of crime)”, “Girl loves me”, “Dollar days”, “I can't give everything away”. Cavalcate elettriche, episodi cupi e oscuri, ballad rassicuranti, assoli e improvvisazioni che puntellano l’edificio sonoro del disco, una voce mai così ispirata e drammatica in tutti questi anni. E solo dopo il tragico fatto se ne comprende forse il motivo.
Tony Visconti, amico e produttore, ha rivelato che poche settimane prima dell’epilogo Bowie gli aveva parlato di cinque brani nuovi (“Blackstar” era stato registrato nel gennaio 2015). Chissà, altre perle dall’uomo caduto sulla Terra. Piace sognare al suo viaggio di ritorno verso quell'universo lontano da cui sembrava fosse venuto, tanti anni fa.
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