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venerdì 10 marzo 2017
INTERVISTA LIGABUE, DALLA PARTE DI CHI NON HA VOCE (17 e e18 a TS)
Quelli che non hanno voce, quelli che ancora partono per cercare lavoro, quelli che il divario fra ricchi e poveri è sempre più ampio, quelli che però la speranza non la perdono mai. È il nostro mondo, cantato da Ligabue nel nuovo album “Made in Italy”, il cui tour fa tappa al palasport di Trieste venerdì 17 e sabato 18 marzo (biglietti ancora disponibili solo per la seconda data).
«L’album - spiega Ligabue, classe 1960, emiliano di Correggio - è nato in un momento nel quale mi è venuta voglia di dar voce a persona normale, uno come tanti, un antieroe. Uno di quelli che solito non hanno voce, perchè qui sembra che puoi parlare solo se sei famoso, se sei importante».
Riko è il suo alter ego?
«Diciamo che potrei essere io se non avessi fatto il cantante. Ho provato a seguire la storia di questa persona, uno arrabbiato con il mondo per le condizioni in cui si trova, per la vita che non è come l’aveva immaginata e sperata. Allora parte un percorso, alla fine del quale lui acquista una consapevolezza maggiore, un approccio migliore con la vita».
L’idea è nata nelle tappe straniera del “Mondovisione Tour”.
«Sì, durante quel tour mi è venuta la voglia di raccontare il mio sentimento per il nostro paese. Giravo il mondo, suonavo a Melbourne, a Tokyo, a Shangai, a Los Angeles, e mi accorgevo di come le cose lì funzionassero, rispetto a casa nostra. E leggevo la nostalgia negli occhi dei ragazzi italiani che vivono lì: per alcuni una libera scelta, ma per molti dettata dalla necessità».
Ragazzi costretti a partire?
«Purtroppo sì. Amo l’Italia, ma odio le condizioni in cui versa, con i mille problemi di sempre. L’album in fondo è una lettera d’amore frustato per il nostro paese. Abbiamo il paese più bello mondo, ricco di tante cose ma in condizioni terribili. Senza vedere mai all’orizzonte chi possa risolvere questi problemi».
Claudio Magris ha scritto che quello del Pd è un “suicidio assistito”.
«In tema di autogol la sinistra non teme confronti, è la numero uno, almeno da quando ho memoria. La gente assiste all’ennesima scissione, che porterà l’ennesimo calo di voti e di votanti».
Intanto la forbice fra ricchi e poveri si allarga.
«È la considerazione amara che fa Riko. Comunque io non perdo la speranza, magari mi affliggo ma poi riparto».
Dicono che la rete unisce solitudini ma non crea una vera comunità.
«Non sono un sociologo. Ma credo che la rete offre una grande serie di opportunità, di conoscenze, di informazioni. Poi dipende tutto dalle persone, in rete si dà sfogo anche a tanta cattiveria. Comunque sì: la mia sensazione è che la gente sia sempre più connessa, ma la solitudine è molto diffusa».
Nel disco non c’è soltanto rock.
«Parlare attraverso un altro personaggio, la voce narrante di Riko, mi ha dato una maggiore libertà anche per quanto riguarda la musica. C’è sempre tanto rock, ma anche soul, reggae, rhytm’n’blues, ska... Generi che ho sempre amato ma che in passato ho frequentato poco».
Lo scandalo del “secondary ticketing”?
«Una brutta cosa. Il biglietto per un concerto deve avere una cifra sensata, penso che per una produzione importante, in grado di offrire il meglio al pubblico, non si debbano superare i 50/70 euro. Purtroppo c’è chi lucra, chi fa sparire i biglietti e poi li rivende a dieci, venti volte tanto. Dobbiamo evitarlo».
Dopo questo tour?
«Non lo so. Sono impegnato fino a maggio con cinquantacinque concerti nei palasport. E non ci sarà una ripresa estiva».
Trieste?
«Vi ho suonato tante volte, ma il ricordo della città sempre presente è quel video di “Eri bellissima” (dall’album “Fuori come va?”, del 2002 - ndr), girato su un tetto della città da cui si vedeva il mare. Cielo terso, azzurro meraviglioso, e intorno l’atmosfera particolare di una città assolutamente unica. L’architettura, le piazze, la bora, il mare...».
Con che pezzo comincia?
«”La vita facile”, il brano con cui comincia anche l’album. Poi mischiamo le canzoni nuove con i classici che la gente vuole comunque ascoltare. Nei primi concerti dividevamo le due parti, ora abbiamo cambiato, mi sembra che così funziona meglio...».
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