BATTISTI
Non c’è stato giorno, in questi dieci anni passati dalla prematura e dolorosa scomparsa di Lucio Battisti, che una sua canzone non venisse trasmessa da una radio, cantata in coro da un gruppo di ragazzi armati di chitarra, canticchiata quasi sovrappensiero da uno qualsiasi di noi. Il segno quotidiano, forse banale, di come l’opera del cantante e autore di Poggio Bustone, provincia di Rieti - nato il 5 marzo ’43, morto il 9 settembre ’98 - sia entrata nel patrimonio collettivo della cultura popolare italiana. Quella che appartiene a tutti: grandi e piccoli, ricchi e poveri, belli e brutti, chi c’era e chi ancora non c’era.
Naturalmente anche alla destra e alla sinistra, ammesso e non concesso che questa distinzione abbia mai avuto un senso, parlando di un artista grandissimo - e disinteressato alle povere cose della politica: chissà, forse era avanti anche in questo... - come Battisti. Accusato di essere fascista solo perchè, in anni di sbandierato impegno a tutti i costi, lui si limitava a cantare i sentimenti e le piccole cose del quotidiano. O per quel famoso verso che parlava di «boschi di braccia tese», o ancora per quello scatto in cui l’innocuo saluto a qualcuno era stato demonizzato come un saluto romano.
Che storia, la sua. Gli rimproveravano quella voce un po’ così, il timbro roco, la ridotta estensione vocale. Sufficienti però negli anni Sessanta e Settanta a farlo entrare subito in sintonia con gli umori delle giovani generazioni, che sino a quel momento si erano musicalmente abbeverate soprattutto oltremanica e oltreoceano. Le ansie, le inquietudini, le speranze dei ragazzi italiani vengono da quel momento affidate anche alle sue canzoni. Che diventano fondamentali - come scrisse una volta il semiologo Omar Calabrese - nella formazione sentimentale di quella e un altro paio di generazioni.
L’Italia lo scopre al Sanremo ’69, quando si presenta con una testa piena di ricci e un variopinto foulard al collo, a cantare in coppia con Wilson Pickett «Un’avventura». In un mondo musicale nel quale i cosiddetti giovani erano sino a quel momento rappresentati in Italia da Gianni Morandi e da Rita Pavone, al massimo da Rokes e Giganti, il suo arrivo sconvolge gli equilibri consolidati e fa tabula rasa di un mondo vecchio, antico, superato dagli eventi. La tradizione della canzone italiana svecchiata con intuizioni e soluzioni mutuate dal rock e dalla musica nera. Praticamente una rivoluzione, pari a quella rappresentata una decina d’anni prima da Modugno con «Volare». O negli Stati Uniti da Elvis Presley, o in Inghilterra da Beatles e Rolling Stones.
Mogol e Battisti, assieme, uniscono tradizione e modernità, colto e popolare, pensieri e parole. Rinnovano la forma della canzone tradizionale e melodica, intesa come susseguirsi di strofa, ritornello, strofa, inciso, ritornello. Il loro è un canzoniere che comincia negli anni Sessanta e attraversa tutti gli anni Settanta, per concludersi per l’appunto nel 1980, con il sofferto divorzio artistico originato - pare - anche da plebei motivi economici e da confini fra brianzole proprietà confinanti.
In quel momento, crac, si rompe l’incantesimo. E di Battisti ne esistono due, o forse tre. Quello delle canzoni di una volta: bellissime, immortali, che continuano a essere ascoltate e cantate da ragazzi ed ex ragazzi di ieri e di oggi. Quello che prosegue il suo personalissimo percorso musicale, incurante delle critiche e dei gusti del pubblico, affidandosi alle liriche surreali di Pasquale Panella e destrutturando la forma canzone. E poi persino quello clonato, «falso», quasi alla maniera di un Picasso o di un Andy Warhol: gli Audio 2, due ragazzi napoletani che per una breve stagione costruiscono il loro effimero successo sulla capacità di scrivere e cantare nuove canzoni «alla maniera» del Battisti di una volta.
Aggiungiamo che l’ultima apparizione pubblica di Lucio Battisti risale al ’76, con la storica tournèe assieme alla Formula 3 (al termine della quale il cantante annuncia in un'intervista: «Non parlerò mai più, perché un artista deve comunicare con il pubblico solo per mezzo del suo lavoro») e con il viaggio a cavallo da Milano a Roma, assieme a Mogol, a testimoniare già allora una spiccata sensibilità nei confronti delle tematiche ecologiche (proprio come Adriano Celentano). E che l’ultima foto «autorizzata» la troviamo sulla copertina di «Una donna per amico» (’78). Da quel momento, solo immagini «rubate»: nel parcheggio di un supermercato, in una stazione di rifornimento sull’autostrada, ovunque.
Alberto Radius, chitarrista della «sua» Formula 3, ci spiegò anni fa: «Battisti non volle più suonare dal vivo perchè lui era poco tagliato per le esibizioni. Il contatto con il pubblico non gli è mai piaciuto, odiava il contatto stretto, quel senso di soffocamento, quel ”fammi l’autografo”, ”fammi far la foto”. Ad alcuni piace il bagno di folla. Lui era uno alla sua maniera, immerso in se stesso».
La scelta di non apparire, di rifiutare le regole dello show business, di negarsi all’invadenza dei media ma anche alla curiosità della gente, sono il tassello che manca all’entrata nel mito. Il mito di Lucio Battisti, un ragazzo che ha cambiato la nostra canzone forse senza neanche accorgersene. Un ragazzo degli anni Sessanta, che se n’è andato troppo presto. Ma che ci ha lasciato un patrimonio ricco e vitalissimo. Per questo, se da un lato ci manca, dall’altro lo sentiamo ancora vivo, presente con le sue canzoni nelle nostre giornate. Come tutti i grandi artisti
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